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05/03/2015

Università: e se parlassimo un po’ di didattica?

A 15 anni dalla riforma Berlinguer dell’Università, è tempo di un bilancio. Scegliamo come termine la riforma Berlinguer (anno 2000) – e non la Ruberti, ad esempio – perché è quella che ha maggiormente inciso sugli assetti didattici della nostra università e le cui grandi linee in merito sono rimaste sostanzialmente invariate. I successivi ministri (Moratti, Mussi, Gelmini, Carrozza ecc.) hanno pasticciato qua e là, sostanzialmente sull’assetto di governo e sui concorsi dei docenti, ma hanno lasciato intatto lo schema base del cd 3+2: E cioè un triennio propedeutico seguito da uno di specializzazione, articolati in corsi trimestrali o quadrimestrali per circa 3.000 corsi di laurea e con doppio sistema di valutazione in voto di esami e crediti.

Obiettivi della riforma:

- l’assetto in due livelli avrebbe dovuto ridurre il forte tasso di dispersione, consentendo alla maggioranza degli studenti di conseguire un titolo in qualche modo abilitante, mentre il successivo titolo specialistico avrebbe dovuto garantire una formazione professionale di livello più alto;

- la moltiplicazione dei corsi di laure aveva per obiettivo una maggiore aderenza fra titolo di studio e profilo professionale, facilitando l’immissione del laureato nel mercato del lavoro;

- l’introduzione dei crediti era finalizzata ad introitare nella formazione universitaria anche quella proveniente da esperienze lavorative o da altre attività culturali, così da permettere un migliore apprezzamento delle effettive attitudini del neo laureato;

- l’articolazione dei corsi in moduli trimestrali o quadrimestrali (inizialmente si pensava semestrali) avrebbe dovuto favorire la concentrazione dello studente di volta in volta su gruppi di materie, facilitandogli l’effettuazione dell’esame immediatamente dopo la fine del corso ed assicurare uno scorrimento più ordinato delle carriere di studio ed eliminare i ritardi. Quale è stato l’esito di queste misure? Iniziamo dalle cose più semplici da affrontare.

I crediti: non hanno avuto alcun effetto pratico, dato che non risulta che né le aziende né i concorsi statali diano particolare peso a questa voce. Di fatto si è trattato di una ridenominazione delle vecchie annualità, per delimitare il numero di ore di insegnamento del corso. In definitiva, solo un modo per stabilire l’”importanza” della materia, cioè del docente che ne è titolare: un insegnamento di tre crediti incide nella media come uno da nove (per lo meno così è nella maggior parte delle università), ma è sentito come “meno importante” perché esaurito in 20 ore, mentre l’altro lo è in 60.

E questo ha consentito, in molti corsi di laurea e facoltà, la moltiplicazione delle materie di insegnamento, con effetti spesso negativi.

I moduli tri o quadrimestrali: non hanno avuto particolari effetti sul ritardo delle carriere universitarie che, salvo che per la minore durata dei corsi triennali, sono rimasti più o meno al livello precedente. Di fatto questo ha comportato lezioni “doppie” di due ore da 50 minuti di resa sicuramente minore delle precedenti lezioni di una sola ora da 60 minuti. In definitiva, la misura si è risolta in un vantaggio per i docenti che si liberano dei loro obblighi didattici in circa due mesi e mezzo. Questo, però ha avuto due conseguenze negative: una forte compressione degli insegnamenti, per cui è praticamente impossibile recuperare qualche ora persa per un qualsiasi motivo, ed un ostacolo ad attività interdisciplinari fra materie di diverso trimestre.

La frammentazione delle materie: indagini più approfondite potranno dirci se e quanto questo abbia favorito o sfavorito una migliore formazione specialistica degli studenti, intanto constatiamo come questo indirizzo sempre più specialistico vada a scapito di una loro formazione più generale ed organica, così come non si può non notare che questo ha finito per oberare gli studenti e per chiudere ogni spazio per altre attività (sono praticamente scomparse le vecchie esercitazioni del precedente ordinamento) ed irrigidire ulteriormente lo svolgimento delle attività didattiche entro limiti burocratici invalicabili.

La frammentazione dei corsi di laurea: dopo l’avvio della riforma c’è stato un ripensamento che ha portato alla soppressione di taluni corsi di laurea poco frequentati o di taglio un po’ troppo specialistico, resta tuttavia una marcata tendenza ad una non necessaria moltiplicazione dei corsi, talvolta per profili professionali assai fantasiosi. In realtà non sembra affatto che questa articolazione degli studi abbia facilitato l’inserimento nel mercato del lavoro dei giovani laureati: il numero di quanti trovano lavoro nei tre anni successivi alla laurea non è affatto aumentato, ma, negli ultimi anni è semmai diminuito (probabilmente per effetto della crisi), ma, quel che è più significativo, non si osserva affatto una maggiore tendenza a trovare un lavoro corrispondente al titolo di studio conseguito. E la cosa non stupisce, sia perché le rigidità del nostro mercato del lavoro sono, in buona parte, refrattarie a questo aspetto del problema, sia perché questa scelta si fondava su un errore concettuale di partenza: seguire pedissequamente le tendenze del mercato del lavoro appiattendovi l’offerta formativa.

Ma noi siamo entrati in una fase di rapidissimi mutamenti dei profili lavorativi, mentre l’università statale continua ad avere processi decisionali lunghi e complessi, per cui, fra il progetto di un nuovo corso di laurea e la sua effettiva attivazione, passano mediamente otto-nove anni. E, dunque, la tendenza ad uno specialismo particolarmente “stretto“ risulta del tutto controproducente, mentre sarebbe più producente una solida formazione di base su cui innestare perfezionamenti specialistici in prossimità dell’impiego. Una formazione culturale vasta, anche se pur sempre indirizzata professionalmente, infatti, può essere rapidamente convertita con un apposito corso di raffinazione professionale, mentre, al contrario, una formazione già ultra specialistica risulta molto meno elastica e, perciò stesso, meno facilmente convertibile.

Veniamo agli aspetti più centrali della riforma: lo schema del 3+2. Esso nasceva dalla constatazione per la quale troppi studenti abbandonano gli studi prima della conclusione e, quindi, senza conseguire nessun titolo, abbreviando il corso di base e dando un primo titolo, si sarebbe ottenuta una maggiore percentuale di laureati e meno ritardi accademici. In effetti, in un primo momento i laureati ritardatari sono diminuiti e il numero degli studenti che arrivano alla laurea (anche se solo di primo livello) è un po’ aumentato, ma l’Italia resta ultima in Europa per numero di laureati : nella fascia fra i 30 ed i 34 anni (proprio quella che ha frequentato l’Università dopo la riforma Berlinguer, i laureati sono il 22,4% contro una media europea del 36,8%. Stando all’anvur, su 100 immatricolati dell’anno 2003-04 (inizio effettivo della riforma Berlinguer), dopo 9 anni, a laurearsi sono stati intorno alla metà, il resto è in ritardo o ha abbandonato gli sudi. E le coorti successive, anno per hanno segnalano valori decrescenti di laureati e crescenti di ritardo. Gli immatricolati del 2009-10 in regola con il corso di studi, dopo 3 anni, sono solo il 23,2%, e, considerando l’aumento delle tasse universitarie e la linea di tendenza degli ultimi anni, è possibile prevedere che entro 9 anni i laureati di triennale saranno meno del 40% degli immatricolati di quell’anno. Considerato il totale della popolazione lavorativa, la riforma Berlinguer ha prodotto un aumento percentuale dei laureai dal 5,5% al 12,7% ma con un anno in meno di corso di studi e con un divario crescente rispetto al resto d’Europa. E negli ultimi anni si è registrata una tendenza al calo delle immatricolazioni per il quale ci sono circa 60.000 studenti in meno rispetto al 2009-10, nonostante una leggera crescita di studenti stranieri. E conta il fatto che l’università italiana è fra le più care d’Europa, con continui rincari delle tasse che ammontano a circa 1.000 euro annui in media.

E il dato diventa catastrofico se parliamo delle lauree specialistiche biennali, dove nella maggior parte dei casi gli immatricolati sono meno del 10% dei laureati della rispettiva triennale e, in diversi casi, si aggirano intorno al 3%. Di fatto, gli studenti in grande maggioranza ritengono la biennale un inutile doppione del corso appena concluso e (salvo per quegli sbocchi professionali, come l’insegnamento, che richiedono esplicitamente una laurea specialistica) preferiscono piuttosto frequentare un master che si ritiene più in grado di favorire uno sbocco lavorativo.

D’altra parte se già ci sono migliaia di corsi base di triennale è difficile immaginare quale ulteriore specializzazione possa seguire e, in effetti, in molti casi, il piano di studi è una fotocopia appena ridotta o modificata del corso precedente. Preoccupanti sono i dati circa il grado di soddisfazione degli studenti al termine del corso di studi: gli stessi risultati dei questionari di Ateneo (da prendere con grande cautela circa la loro affidabilità) spesso segnalano tassi di soddisfazione inferiori al 60% soprattutto nelle facoltà di lettere e filosofia, di scienze della comunicazione, mentre, fra le facoltà scientifiche, il tasso è mediamente più alto, con risultati meno favorevoli a Scienze Naturali e Geologia. Ma va detto che si tratta solo di dati ricavati da un primo approssimativo studio dei risultati pubblicati online e che essi andrebbero molto più approfonditi, tuttavia essi già delineano una tendenza a decrescere del tasso di soddisfazione degli studenti.

Per quanto riguarda il tasso di soddisfazione delle aziende non ci sono dati riassuntivi e le indagini delle singole università sono frammentarie ed inaffidabili.

Ma questo è solo l’inizio di un discorso più lungo.

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