E' un piccolo cambio di scena quello che sta avvenendo nel principale
partito "della sinistra" italiana. La fuoriuscita del vecchio gruppo
dirigente che ha guidato il centrosinistra e il governo del Paese negli
ultimi venti anni appare lenta ma anche inesorabile. Qualcuno ha già
scritto che, una volta caduto Berlusconi era logico che cadessero anche i suoi principali oppositori: D'Alema, Veltroni, forse
Rosi Bindi e altri ancora. Più concretamente, però, si tratta di un
avvicendamento politico che sarebbe dovuto avvenire prima. Non esiste al
mondo un gruppo dirigente che, formatosi negli anni 70, arrivato ai
vertici negli anni 80 e in grado di determinare le scelte politiche per
oltre venti anni - dal 1991 a oggi - sia ancora in sella. L'anomalia è
tutta italiana e se qualche esempio analogo può essere trovato occorre
andare in qualche paese africano non propriamente democratico. Insomma,
il cambio è d'obbligo e stupisce che leader che si vogliono avveduti e
intelligenti non abbiano saputo interpretare prima il cambiamento e
guidare essi stessi la transizione. Sia Veltroni che D'Alema, infatti,
al di là delle dichiarazioni e delle schermaglie, vengono "fatti fuori"
dalla furia iconoclasta di Matteo Renzi che può,
legittimamente, intestarsi la mutazione. E che, sulla scia del "bottino"
accumulato in questa campagna forsennata può chiaramente aspettarsi un
risultato clamoroso alle primarie del Pd (più Sel e Psi, chiamarle del
centrosinistra è davvero esagerato) movimentando ancora di più la scena
politica.
Dal canto suo, Massimo D'Alema combatte come sa e
come può e, tutto sommato, aver detto che lascerà il posto in Parlamento
solo se sarà Bersani a prevalere alle primarie per quanto riesca a
limitare i danni e restituire l'immagine di un dirigente politico
combattivo, non modifica la sostanza di quanto sta accadendo. I "vecchi"
vengono soppiantati dai "nuovi", e questo accade in forma cruenta.
Rallegrarsi dell'archiviazione della stagione di D'Alema e Veltroni, però, non vuol dire pensare che il nuovo sia migliore. Anzi. Diego Bianchi, in arte Zoro, ha twittato un messaggio semplice quanto spietato: "Veltroni e D'Alema sono Veltroni e D'Alema anche perché la mia generazione, politicamente, è stata una generazione di seghe".
E' senz'altro vero ma rischia di lasciare troppo spazio alla nostalgia
per una stagione che fu. Che invece è una stagione da buttare, senza
sconto alcuno. Se Renzi e i suoi hanno un difetto, è quello di imputare
ai vecchi leader gli errori che non hanno commesso. L'accusa a D'Alema,
infatti, è di essere stato un conservatore, di aver mancato la prova del
governo, di non aver colto le novità della società italiana, di aver
criminalizzato Berlusconi. Di essere stato troppo di sinistra e poco
innovatore, più legato al Pci di Berlinguer che alla Terza via
blairiana. Una commedia dell'assurdo.
Se c'è qualcosa da imputare a quei dirigenti del Pci - molti dei
quali, come D'Alema, non sono stati nemmeno entusiasti della "svolta" di
Occhetto - è invece la demolizione progressiva e sistematica di quanto
restava della sinistra e delle sue conquiste.
D'Alema è stato segretario dei Ds e poi presidente del Consiglio al tempo dell'Ulivo mondiale
quando con Clinton e Blair si facevano i vertici internazionali -
allora c'era anche Lula in via di mutazione liberale; D'Alema ha
pilotato la partecipazione italiana ai bombardamenti nella ex-Jugoslavia
quando il governo si reggeva grazie al sostegno di Cossiga, cioè
dell'Alleanza atlantica. Veltroni è quello che, con il discorso del
Lingotto del 2007, ha preso di mira lo stato sociale anticipando di
cinque anni quanto fatto dal ministro Fornero e dal governo dei tecnici.
E' quello che, da sindaco di Roma, la sera
dell'uccisione della signora Reggiani a opera di un balordo romeno,
chiese al governo di Prodi di aprire, di fatto, la caccia ai Rom (nel
silenzio sbigottito della sinistra al governo).
Quanto a Berlusconi, è storia nota il tentativo di inciucio compiuto da D'Alema con la Bicamerale,
tra il 1996 e il 1998 mentre va ancora ricordato alla memoria dei più
il modo in cui Veltroni inaugurò la sua elezione alla segreteria del Pd
nel 2007 (con 4 milioni di votanti alle primarie del 14 ottobre): aprire
un tavolo di trattativa con il Cavaliere sulla legge elettorale. La vera mossa che portò, di lì a poco, alla caduta del governo Prodi.
Nessuno oggi "rottama" quei leader per questi errori e queste colpe. Il
paradosso, invece, è che in nome del cambiamento si punta a quelle
stesse politiche, peggiorandole come solo gli invasati sanno fare.
Certo, Renzi si giova del fatto che nessuno, a sinistra, è riuscito
nell'impresa del sindaco di Firenze. E quando qualcuno ne ha avuto la
possibilità, o la forza, invece di provare a rovesciare quel gruppo
dirigente ci si è alleato a filo doppio per tutti gli ultimi venti anni
si chiamasse Cossutta, Bertinotti o Fabio Mussi.
Allora Zoro si può parafrasare: se a rottamare D'Alema e Veltroni sono
quelli come Renzi è perché a sinistra ha prevalso una generazione di
seghe. Amaro dirlo, ma è così.
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