La trappola della "legalità" e l'uso reazionario degli scandali. Il
governo delinea per legge le caratteristiche della "classe dirigente"
nei prossimi anni.
Il problema della selezione della classe dirigente è antico
quanto l'organizzazione umana. Ma il modo più stupido e reazionario di
risolverlo è quello che vieta la candidabilità a chi sia stato
condannato “in via definitiva”. Sappiamo di dire una cosa impopolare, in
tempi di forconi levati contro i Batman di turno, ma è bene ragionare
sempre per non ritrovarsi infilzati dalle idiozie di moda che ci sono
sembrate per un momento accattivanti. Perché nella società della
comunicazione le mode cambiano, e anche spesso, ma le conseguenze
restano. Ed anche a lungo.
Venti anni di populismo virato sul
tema della “legalità” hanno partorito prima 20 anni di Berlusconi (e
nessuno si rassegna a cogliere questo esito solo apparentemente
paradossale), poi un anno di “montismo” che aspira a dominare per anche
più di un ventennio.
Che cosa è infatti la “legalità”? Sono le
leggi esistenti, in vigore in questo momento in un territorio delimitato
da confini certi, e fatte rispettare da una serie di istituzioni ed
apparati (magistratura e polizie di vario tipo). Anche un asino dovrebbe
dunque sapere che una cosa è la legge e tutt'altra la giustizia.
Dipende dal periodo storico, dalla classe sociale e dalla cultura
dominanti, dall'evoluzione della società. Quarant'anni fa il divorzio
era illegale, ed anche l'aborto. Settant'anni fa il razzismo antiebraico era legale, così come i campi di concentramento e sterminio. Pochi anni fa il falso in bilancio era
reato, poi non lo è stato più; e nonostante al governo siano arrivati i
“moralizzatori” continua a non esserlo. La legalità delle dittature e
quella delle democrazie dovrebbero essere molto diverse, ma hanno anche
molti punti in comune. Battersi per una democratizzazione sotto un
regime dittatoriale è illegale, ma tutti – in questa parte del
mondo e in questo periodo storico – lo consideriamo un diritto e persino
un dovere. Pericoloso ma giusto, ancorché illegale in quel paese e in quel tempo.
Come si vede, la definizione di cosa sia legale e cosa no è una
questione altamente opinabile, materia di conflitto politico e quindi
molla del progresso sociale e culturale; non un assoluto della morale o
dell'etica, fuori dalla Storia.
A) Vediamo a
questo punto come il governo pensa di impostare la questione del divieto
di candidatura per chiunque abbia una condanna penale passata in
giudicato (dopo i classici tre gradi di giudizio). Vuole varare “un
decreto legislativo recante un testo unico della normativa in materia di
incandidabilità alla carica di membro del Parlamento europeo, di deputato e di senatore della Repubblica, di incandidabilità
alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e di
divieto di ricoprire le cariche di presidente e di componente del
consiglio di amministrazione dei consorzi, di presidente e di componente
dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, di consigliere di
amministrazione e di presidente delle aziende speciali”.
Le nuove norme mirano a impedire di essere eletto a chi ha una condanna passata in giudicato per pene superiori a due anni.
Stop anche per gli incarichi di governo per impedire di diventare
presidente del Consiglio, ministro o sottosegretario a chi ha commesso
reati gravi.
Di fatto, è la selezione della classe dirigente pubblica in base al certificato penale.
Segnaliamo che non viene minimamente specificata la natura del reato,
ma solo la quantificazione della pena (due anni). Peraltro molto bassa e
applicabile in una serie di fattispecie che copre in pratica l'intero
codice penale.
Non viene specificato nemmeno se il blocco della candidabilità è a vita oppure
se vale fino a che non interviene una sentenza di “riabilitazione”, che
estingue ogni conseguenza civile della condanna penale. Un dettaglio
non insignificante, ma relativamente secondario all'interno del
ragionamento che stiamo facendo.
Perché diciamo che si tratta di
una soluzione stupida e reazionaria? In fondo, dovrebbe essere una
rassicurazione per tutti il fatto che un amministratore pubblico sia
“vergine” sul piano penale... Non è così. La distinzione tra i “reati” è
fondamentale.
Nessuno vuole ovviamente più vedere un “Batman” o
un Saggese (quello di Tributi Italia) in posti da cui possano
appropriarsi di risorse collettive. Ma un manifestante di Genova 2001 o
di cento altre vertenze sindacali, finito denunciato e condannato per
quelle stronzate di accuse che ogni volta ti affibbiano (resistenza a
pubblico ufficiale, vilipendio, ecc), perché mai dovrebbe essere
considerato un amministratore pubblico inaffidabile?
Facciamo il
caso di uno arrestato perché stava protestando contro le ruberie di uno
dei tanti “er Batman” al momento presenti nei palazzi del potere:
possiamo metterlo sullo stesso piano del secondo e renderlo ineleggibile
a vita come giustamente andrebbe fatto col Fiorito di turno? Di fatto
si tratta della messa fuori gioco (per sempre) di chiunque abbia
maturato la propria consapevolezza politica all'interno dei diversi
movimenti sociali, antagonisti, conflittuali, incappando – come spesso
capita – in una denuncia.
L'esclusione dalle liste elettorali
(o dagli incarichi in uffici pubblici) sulla base dell'entità della
condanna, invece che sulle tipologie di “reato”, produce conseguenze
irrazionali e immorali come questa. Reazionarie in senso "tecnico"
(soluzioni ultra-conservatrici con l'apparenza dell'innovazione).
B)
Ma il governo vuol rendere incandidabili per dieci anni anche gli
amministratori pubblici che non abbiano rispettato il “pareggio di
bilancio”. Qui la questione diventa ancora più evidente. Se non si
distingue tra le varie ragioni per cui è mancato questo “rispetto dei
vincoli finanziari”, in realtà si costringe l'amministratore a obbedire
al vincolo astratto senza riguardi per le necessità concrete. E questo
senza nemmeno entrare nel merito della discussione sull'assurdità del
“pareggio di bilancio” per legge o Costituzione...
Facciamo un
esempio. Ovviamente nessuno vuole un consiglio regionale o comunale che
fa esplodere la spesa per nutrire i consiglieri e le loro clientele. Ma
se un povero sindaco spende un po' di più per costruire case popolari e
far fronte all'emergenza abitativa, davvero possiamo considerarlo un
pessimo amministratore e quindi vietargli di tornare in pista per dieci
anni? Quando c'erano i partiti con una struttura organizzativa forte e
una capacità di selezione severa non sarebbe stato un grande problema:
bastava mettere un altro dirigente nello stesso posto e fare la stessa
politica. Ma nell'epoca dei “grumi sociali” (come li chiama il Censis),
in cui “il candidato” è automaticamente il principale collettore o no di
certi consensi, “fucilare” un amministratore significa di fatto
eliminare una scelta politica. Che è entrata in conflitto con il governo
centrale.
Concludiamo. A noi sembra dunque palese che il
governo stia cogliendo l'occasione degli scandali in alcuni importanti
enti locali per delineare regole che selezionano la classe dirigente
locale del futuro. Una classe “allineata e coperta”, che mai – nel corso
dell'intera vita – deve entrare in conflitto (anche solo finanziario)
col potere centrale. Potere che nel frattempo è stato “aussunto” dalla
troika e dai “mercati internazionali”, ricordiamo.
Fonte
Ecco uno dei tanti aspetti su cui dovrebbero riflettere i militanti del Movimento 5 Stelle sia in visione attuale che immediatamente futura.
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