Non ci sono solo Obama e Romney. Ci sono
altri 24 candidati alle elezioni per la presidenza degli Stati Uniti
del prossimo 6 novembre. Le loro possibilità di vittoria sono meno di
zero, la partita ovviamente si giocherà tra i due principali
contendenti. Anche perché il sistema elettorale americano è stato
pensato e costruito per ostacolare in tutte le maniere l'affermazione
di un "terzo" candidato oltre a quelli dei due partiti che si
alternano al potere.
Innanzitutto non è vero che chi prende più voti diventa presidente.
Ne sa qualcosa Al Gore che nel 2000 prese più voti di George W. Bush e
risultò sconfitto. L'elezione è indiretta, si eleggono 538 grandi
elettori che esprimeranno a maggioranza (il quorum è 270) il presidente.
Se si vince di un solo voto in uno stato si prendono tutti i grandi
elettori di quello stato che sono stati precedentemente selezionati dai
candidati. Le commissioni elettorali dei singoli stati generalmente
chiudono un occhio, o entrambi, sulla validità delle firme necessarie
alla presentazione per i due partiti maggiori e usano la lente di
ingrandimento per tutti gli altri candidati. Le decine, se non centinaia
di cause civili e penali intentate dai candidati discriminati contro
le commissioni elettorali generalmente si concludono ad elezione
avvenuta. L'accesso ai grandi media diventa
praticamente impossibile ai candidati "terzi". In breve una democrazia
talmente selettiva da diventare statica e autoreferenziale, che
riconosce se stessa solo in base all'esclusione ed alla discriminazione
- alla repressione nel caso dei movimenti sociali - dei soggetti
politici che potenzialmente potrebbero introdurre anche solo dei
piccoli cambiamenti.
Ma chi sono e cosa rappresentano questi candidati? Tralasciamo il folklore
di gran parte di loro, veri e propri personaggi di una commedia
improbabile, che predicano la maledizione divina prossima ventura, la
centralità della rivendicazione di confezionarsi i vestiti con marijauna
sintetica e lo scioglimento della National Security Agency, cosa di
per se buona e giusta ma con una motivazione degna di un film horror:
tutte le notti la NSA spargerebbe polvere d'amianto nelle case con lo
scopo di sterminare i patriottici cittadini americani.
Poi ci sono i rappresentanti di piccoli e storici partiti della sinistra americana come il Partito socialista degli Stati Uniti,
presente a queste elezioni presidenziali in soli 8 stati su 50, che si
batte per un welfare gratuito ed esteso a tutti, la tassazione
progressiva dei grandi patrimoni, i diritti dei lavoratori. Il Socialist Workers Party,
presente in 4 stati, residuo della vecchia organizzazione trotskista
ed ormai simulacro di un comunismo nostalgico e congelato. Il Partito della Pace e della Libertà,
presente solo in California, in Colorado e in Florida testimone
invecchiato della grande stagione della controcultura della West Coast
degli anni ' 60. Fin qui sembrerebbe, più o meno, il solito scenario
delle elezioni presidenziali americane con due candidati in corsa, un
pacchetto di candidati inverosimili e un contorno a sinistra e destra
di piccolissimi partiti che non vanno oltre la propaganda.
Ma dopo la debacle di Obama
nel primo dibattito televisivo con Romney l'attenzione dei grandi media
e dei due partiti maggiori si è fatta più viva verso il Libertarian Party (qui più che libertario forse la traduzione più corretta è partito libertariano) e il Green Party,
il partito Verde, dati dai sondaggi rispettivamente tra il 5 e il 6%
il primo e tra il 2 e il 3% il secondo. I repubblicani sono preoccupati
di uno smottamento percentuale non insignificante verso il puro e duro
darwinismo sociale dei cosiddetti "libertari", i democratici temono
che la percentuale dei Verdi possa influire negli stati in bilico tra
Obama e Romney. I cosiddetti "libertari" rappresentano un sentimento diffuso tra la destra antistatalista e antigovernativa americana.
L'abolizione dei sindacati è combinata con la legalizzazione della
marijuana, l'uscita degli Stati Uniti dall'Onu, dalla Nato, dal Wto e
l'abolizione della Federal Reserve va di pari passo con il
riconoscimento dei matrimoni gay, lo schieramento dell'esercito
americano ai confini del Messico per impedire l'immigrazione con chiari
intenti razzisti fa il paio con la battaglia contro qualsiasi controllo
di Internet da parte di governi o multinazionali. Visto dall'Europa
sembrerebbe il partito dei paradossi, visto da qui invece coglie in
pieno una concezione dell'individuo - più libero se non tiene conto
delle istanze collettive e se meno governato - presente in strati non
indifferenti della popolazione.
Lo slogan della campagna di Jill Stein, candidata verde,"Un'altra America è possibile, un altro partito è necessario"
riecheggia il movimento altermondialista e cerca di parlare
direttamente ai settori moderati del movimento Occupy. Il programma è di
stampo neokeynesiano e prevede un massiccio intervento statale per la
riconversione "verde" dell'economia che di per sé produrrebbe in pochi
anni 25 milioni di posti di lavoro senza mettere in discussione alla
radice il modo di produzione capitalistico. Tutta la colpa della crisi e
delle ingiustizie è addebitata agli squali di Wall Street che
agirebbero senza regole ed avrebbero instaurato una sorta di "dittatura
finanziaria". Insomma basterebbe smascherare i complotti di natura
finanziaria per sconfiggere l'1 % a vantaggio del 99%.
Se a New York, Filadelfia e in parte Chicago questi discorsi hanno una certa presa in alcuni settori del movimento Occupy,
sulla West Coast - tra Oakland, Portland e Seattle - non trovano
udienza non tanto e non solo per un radicalismo intrinseco di quelle
esperienze di movimento ma per una composizione politica e un impianto
sociale che fa della sperimentazione delle forme autorganizzate e dei luoghi del conflitto
il tema centrale della propria soggettività. Una combinazione tra
composizione del movimento e radicamento sociale tale da risultare
incompatibile, nei fatti, con la solita concezione che mette al centro
la rappresentazione politico-istituzionale del conflitto sociale a
discapito di un percorso di politicizzazione non confinato in una
griglia già predisposta dalla somma aritmetica delle resistenze al
neoliberismo e alle politiche di austerità. In questo non c'è nessuna
"lezione americana" da trarre ed applicare in Italia. Però più che
domandarsi continuamente perché non ci sia un movimento Occupy in Italia
nonostante il governo Monti sarebbe forse il caso di mettere
radicalmente in discussione le forme di rappresentanza politica,
sindacale e di movimento che si danno oggi in Italia ed iniziare a
ripensarle.
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