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28/01/2022

Anche la strage di Brescia porta al Comando Nato di Verona

La chiusura delle indagini sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia del 1974, hanno visto emergere due nuovi nomi tra gli accusati della bomba contro una manifestazione antifascista. Ma hanno visto nuovamente comparire il Comando FTASE di Verona (NATO) come l’incubatore della strategia stragista in Italia dalla fine degli anni Sessanta.

La strage di Brescia, otto morti e un centinaio di feriti tra sindacalisti, lavoratori e passanti, aveva già visto indicare da una sentenza della Cassazione nel 2017 due colpevoli: Carlo Maria Maggi, ex capo dell’organizzazione neofascista “Ordine Nuovo” (deceduto) e Maurizio Tramonte, legato ai servizi segreti con il nome in codice di “Tritone”. Ancora in vita Tramonte chiede da tempo la revisione del processo.

Ma adesso si sono aggiunti i nomi di altri due neofascisti: Marco Toffaloni e Roberto Zorzi. Quest’ultimo, veronese, ma attualmente residente negli Stati Uniti, non va confuso con il più noto Delfo Zorzi.

Delfo Zorzi, anche lui neofascista veneto, ma coinvolto nella strage di Piazza Fontana, è fuggito da anni in Giappone ed è stato lasciato per anni al riparo da ogni richiesta di estradizione da parte delle autorità italiane.

Nel 2005 Delfo Zorzi viene assolto dalle accuse nella clamorosa sentenza della Cassazione sul secondo processo per la strage di Piazza Fontana, quella che dichiarava colpevoli i fascisti e gli agenti dei servizi segreti assolti nel primo processo, e quindi non più perseguibili per lo stesso reato.

Delfo Zorzi è tornato però recentemente alle cronache per l’inchiesta “Pandora Paper’s” sui capitali illeciti all’estero per via della sua società Fidinam di Lugano che controlla il “Thor Trust”, vera e propria cassaforte di un intreccio azionario che controlla catene di negozi di abbigliamento (marchi Oxus e Hobbit), aziende di prodotti in pelle, imprese di import-export della moda italiana, stabilimenti e proprietà immobiliari, da Milano a Venezia, dalla Svezia al Giappone, dalla Svizzera alla Francia.

Ma nelle 280mila pagine di atti dei processi sulla strage depositati al Tribunale di Brescia, oltre ai fascisti e ai servizi segreti italiani, nell’incubazione della strage emerge anche l’indicazione di un terzo livello di responsabilità che porta al Comando FTASE di Verona (Comando Forze Terrestri Alleate per il Sud Europa della NATO).

Il luogo dove sarebbe stata elaborata la strategia stragista era Palazzo Carli, a Verona, la stessa città di Toffaloni e dei due Zorzi.

“Qui, con la copertura di generali dei paracadutisti italiani e statunitensi, si sarebbero svolte le riunioni preparatorie di un progetto stragista che avrebbe dovuto sovvertire la democrazia italiana e rinsaldare lo scricchiolante fronte dei regimi del Mediterraneo. Quello che, all’epoca, teneva insieme il Portogallo salazarista, la Grecia dei colonnelli e la Spagna franchista”, scrive Carlo Bonini su La Repubblica.

Perché la cosa non ci sorprende?

Perché anche le indagini del giudice Salvini sulla Strage di Piazza Fontana avevano portato direttamente alla pista degli “amerikani” nel nostro paese come nucleo ideatore della stagione delle stragi. E gli agenti statunitensi, almeno quelli emersi dalle indagini, erano tutti in servizio alla base militare FTASE di Verona.

Nella strategia stragista, il giudice Salvini è arrivato a individuare i i servizi segreti militari USA (non la Cia), e soprattutto quelli di stanza nella base del comando FTASE di Verona, i quali attraverso i loro agenti italiani (Digilio, Minetto, Soffiatti) agivano in modo coordinato con le cellule neofasciste di Ordine Nuovo e con gli apparati dello stato italiano nella “guerra sul fronte interno” contro i comunisti, i sindacati e i settori della DC recalcitranti a trasformare la “guerra fredda in guerra civile”.

L’amerikano supervisore della rete degli uomini neri utilizzati nella strategia delle stragi ha un nome e un cognome: Joseph Luongo è l’ufficiale Usa che cooptò nella guerra di bassa intensità anche alcuni criminali nazisti come Karl Hass (con cui Luongo si fa fotografare insieme in un matrimonio). Il suo braccio destro era un altro ufficiale statunitense: Leo Joseph Pagnotta.

Gli “uomini neri” cioè gli autori delle stragi non erano più di venticinque/trenta persone organizzate su cinque cellule collocate una a Milano e quattro nel Nordest. Ma il perno del sistema operativo era proprio Verona, lì dove tutto è cominciato ed è difficile dire che tutto sia finito.

La morte biologica o l’età avanzata di molti protagonisti non consente oggi di mettere tutte le caselle al loro posto e ricavarne una verità anche giudiziaria che renda giustizia su quanto accaduto nel nostro paese negli anni Settanta, ma che almeno si consenta, a chi ha coraggio di farlo, di affrontare la verità storica e politica, senza pagine rimosse o “maledette” che impediscano alle nuove generazioni di comprendere pienamente cosa e perché è accaduto.

Il 17 dicembre 1981 un commando delle Brigate Rosse sequestrava clamorosamente un generale statunitense del Comando militare FTASE di Verona: il generale Dozier. L’alto ufficiale venne liberato il 28 gennaio 1982 da un gruppo operativo dei NOCS (corpi speciali della Polizia).

Per raggiungere questo obiettivo non furono risparmiate torture ai militanti delle BR – sia uomini che donne – arrestati prima e dopo il sequestro. Il caso esplose nei mesi successivi e portò all’arresto di un giornalista de L’Espresso, Pier Vittorio Buffa, che aveva reso pubblici i casi di tortura.

Un anno e mezzo prima del sequestro Dozier, c’era stata la strage con la bomba nella stazione di Bologna nell’agosto del 1980. Non fu l’ultima strage, perchè tre anni dopo – dicembre 1984 – ci fu quella del treno 904. Nel 1981 la stagione delle stragi di stato ancora non aveva esaurito le sue code velenose e sanguinose.

Nessuno, all’epoca come oggi, si è mai posto la domanda del perché l’obiettivo di quell’azione fosse un generale statunitense della base FTASE di Verona. Si trattava di una operazione complessa e rischiosa, sia per le caratteristiche del bersaglio sia per il contesto politico dell’epoca. Insomma tirarsi addosso non solo la reazione degli apparati repressivi italiani ma anche quelli statunitensi – nel quadro della Guerra Fredda – significava alzare il tiro ben al di sopra di quanto fosse avvenuto fino ad allora nel paese.

Ma un comandante della base militare FTASE di Verona, non poteva non sapere che cosa avessero combinato i suoi uomini nei sette/dodici anni precedenti e forse avrebbe dovuto e potuto rispondere a domande che fino ad allora nessuno gli aveva posto, né la magistratura né le autorità italiane.

Verona è il comando delle forze terrestri Usa e NATO. In quella fase storica, Verona era il perno dei comandi operativi militari statunitensi e NATO nella frontiera del Nordest, quella al confine con la cortina di ferro dei paesi del Patto di Varsavia, anche se il “nemico” alle frontiere era la Repubblica Federale Jugoslava che con quel patto aveva rotto già dalla fine degli anni Quaranta.

Ma Verona era e resta molte cose. Era e resta il “cuore nero” di questo paese. Non solo perché era la capitale della Repubblica fascista di Salò, ma anche perché nei decenni successivi alla caduta del fascismo, è dalle strutture operative in questa città – e nel Triveneto in particolare – che la collaborazione tra fascisti, servizi segreti italiani e Usa, carabinieri e forze armate statunitensi produrrà la stagione delle stragi.

In Italia dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta, sul cosiddetto “Fronte Interno” si è combattuta per anni una guerra di bassa intensità che ha fatto molte vittime, ha dispensato secoli di galera per alcuni (i militanti dei gruppi rivoluzionari della sinistra) ma anche coperture e carriere per altri (i fascisti e gli uomini degli apparati dello Stato).

Le evidenti responsabilità degli apparati militari e di intelligence Usa nella strategia delle stragi hanno sempre impedito che questo elemento venisse a galla in modo chiaro. Le ripercussioni sul piano delle relazioni con gli Stati Uniti per un paese come l’Italia che deve assicurare sempre di essere un fedele alleato “atlantico”, era scomodissimo allora e sembra esserlo anche oggi.

A ricordarcelo è l’impedimento di Stato alla richiesta di estradizione dei magistrati italiani degli agenti Cia condannati nel 2009 per il sequestro a Milano dell’imam Abu Omar.

Alcuni degli agenti Cia condannati sono stati addirittura “graziati”, prima dal Presidente Giorgio Napolitano e poi dal Presidente Mattarella.

Mentre i file diffusi di Wikileaks (raccolti in “Il Potere Segreto”, di Stefania Maurizi, ndr) ci raccontano di vari incontri tra il 2006 e il 2010 di Enrico Letta, Massimo D’Alema e Berlusconi che con l’ambasciata degli Stati Uniti si impegnano a bloccare ogni richiesta di estradizione degli agenti della Cia.

Quando sentiamo ancora dire che un presidente italiano deve assolutamente essere di “fede atlantista” è qualcosa peggiore dell’indignazione e del vomito quella che sale. Sono troppe le pagine nere e sanguinose di cui gli apparati Usa sono responsabili nel nostro paese.

Sono i convitati di pietra come l’alleanza servile con gli Usa e la “grande paura” della borghesia italiana negli anni Settanta che portano responsabilità pesantissime nella guerra sul “fronte interno” che è stata pianificata e combattuta in Italia.

Ma anche e soprattutto l'aver voluto impedire con ogni mezzo – dalla rimozione alla criminalizzazione, dalla retorica alla demonizzazione – ogni serio dibattito pubblico su quanto avvenuto e sulle soluzioni politiche per chiudere dopo tanti anni le ferite rimaste aperte, e non solo alcune o quelle funzionali alla “ragion di stato”.

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