Le conferenze organizzate dall’associazione statunitense TED hanno da tempo conquistato un vasto seguito. Dal 2009, periodicamente, se ne organizzano anche nel nostro paese, in un clima di unanime e crescente apprezzamento.
Gli interventi, mai più lunghi di 15 minuti, sono affidati a ricercatori, economisti, imprenditori, e a volti noti del mondo dello spettacolo: cantanti, attori, presentatori.
La prassi prevede che gli oratori non vengano pagati. Tra questi, dalle pagine del proprio sito c’è chi racconta come si svolge la preparazione dell’intervento: “...ho partecipato a skype call, incontri con la coach speaker e con la vocal speaker”.
Un altro osserva che “...TED non è una conferenza! È un’immersione di umanità e pensiero”.
Il pubblico, giovani donne e uomini presumibilmente acculturati, soggiace invece a sorti alterne: talvolta sborsa cifre robustissime, talaltra nemmeno un euro.
L’acronimo TED sta ad indicare Technology, Entertainment e Design. Già programmaticamente, ci si muove nel solco di una modernità orgogliosamente rivendicata.
L’oratore fa il suo ingresso sul palco in rigorosa solitudine, e si posiziona all’interno di un cerchio di moquette rosso, che pare richiamare il perimetro di un fascio di luce (quel che in teatro viene chiamato occhio di bue). Manca la luce, ma non la sua funzione intrinseca: sottolineare come lì sopra si muova l’assoluto protagonista di quel momento, il destinatario di tutti le nostre attenzioni. Lui, più che i suoi argomenti. Lui, e la sua capacità di conquistare l’approvazione del pubblico.
La performance, qui, è tutto. Le argomentazioni, seppure talvolta stimolanti, sono invece ridotte ai minimi termini, e spesso suggerite più per via emotiva che non intellettuale. Sensazioni, più che nozioni. Non a caso, la narrazione spesso verte su esperienze personali, spaccati di quotidianità, piccoli o grandi drammi che hanno segnato un periodo della vita (regolarmente superati), a ribadire una plateale personalizzazione del testo.
L’oratore non dispone di appunti e guarda l’uditorio frontalmente, accingendosi a raccontare qualcosa di “illuminante”, dall’alto di un riconosciuto successo in qualche campo. È però attentissimo a non dare l’impressione di ergersi al ruolo di professore. Un leader amico, che in cambio chiede ai presenti un timbro di approvazione.
È chiaro come si intenda ridurre la percezione di ogni separazione fra chi parla e chi ascolta (in alcune conferenze statunitensi l’oratore si trova praticamente a ridosso del pubblico), e al tempo stesso amplificare la sensazione che il conferenziere si stia giocando il tutto per tutto, in quel pugno di minuti.
Al suo ingresso avvertiamo infatti una sottile angoscia, una tensione strisciante coniugata al gusto un po’ perfido di ergersi a giudici, comodamente seduti in poltrona o davanti a un pc.
L’apparente informalità del contesto (benché amplificato da un clima da tesi di laurea, il tutto deve sembrare spontaneo come una chiacchierata) è in realtà funzionale a rendere piacevole, confortevole, condivisa la separazione di fatto tra l’uno e gli altri: da una parte il leader di successo, l’eroe omerico che affronta un piccolo viaggio verso l’ignoto (e lo vince regolarmente, adeguatamente istruito da un attentissimo staff), dall’altra il pubblico, giunto ad avallare non tanto gli argomenti presentati quanto la personale riuscita dell’oratore, la sua specificità, il suo “avercela fatta” ed essersi distinto da loro, anonimamente seduti in platea e paghi del contentino di dispensare o meno il proprio applauso.
Applaudiranno, naturalmente. Perché non è previsto nulla di diverso. Ma quel che realmente porteranno a casa non è una più ricca visione del mondo, al di là di qualche stimolo, quanto la sensazione sottopelle che ognuno di loro, un giorno, potrà forse trovarsi al posto di quell’uomo o di quella donna al centro del palco. La possibilità è aperta a tutti, basta crederci, basta volerlo davvero.
Nonostante alcuni interventi sinceramente interessanti, dunque (si veda la conferenza di Vera Gheno), l’impressione di fondo è che l’aspetto più persuasivo della proposta sia, come sempre, ciò che viene dato per implicito: il definitivo sdoganamento di un individualismo di stampo mediatico, televisivo, pubblicitario, del tutto figlio della cultura statunitense d’origine, e ormai tracimato anche in campi apparentemente estranei.
In questo senso appare illuminante, tra gli altri, l’intervento di Paolo Bonolis (reperibile su YouTube). E soprattutto, i relativi commenti: ad una timida osservazione sul contenuto ne seguono almeno venti totalmente incentrate sull’oratore, che viene definito ora colto, ora brillante, e finanche immaginato come il docente che tutti vorrebbero avere.
I temi affrontati nelle talks (così definite, con il conformistico vezzo di un inutile ricorso alla lingua inglese), per quanto accuratamente selezionati e tra loro coerenti rappresentano poco più che aspetti secondari e di puro richiamo: la lucida buccia di una mela, rossa e appariscente, che ne preserva e nasconde la polpa, l’aspetto prioritario e tutto interno alla rappresentazione.
Le coordinate del TED-pensiero si contano sulle dita di una mano, e non contrastano con l’analisi sinora avanzata: una visione ipertecnologica ed entusiastica del futuro; la volontà di leggere come opportunità di crescita ogni difficoltà lavorativa o esistenziale; l’assenza di qualunque analisi critica dell’esistente, sostituita dall’individuazione delle opportunità dalle quali possiamo trarre profitto.
Tutto, in sostanza, è caricato sulle spalle del singolo, che come unica prospettiva (ma quanto ricca di occasioni!) ha l’accettazione dell’esistente, indiscutibile in quanto già dato. Il solo spazio di movimento possibile è individuale, e consiste nel modificare di volta in volta i nostri atteggiamenti e i nostri obiettivi. Ognuno, di fatto, lotta per sé stesso. Ed essendo solo, lotta sempre.
Nulla di precisamente sbagliato, in realtà. Non mancano interventi sacrosanti e godibili. Ma tutto volutamente parziale, e pedissequamente corrispondente al sentire contemporaneo. Non c’è un solo elemento di attrito, in TED, rispetto ai valori correnti. Questo spiega perché reperire testimonianze di una qualsiasi perplessità rispetto a questo format sia così difficile (quantomeno in Italia, dove l’iniziativa è relativamente recente). Ed è cosa che fa luce sul sostanziale conformismo del progetto.
Considerare la realtà come “già data”, sfruttando a nostro vantaggio gli eventuali margini di manovra, a ben vedere è cosa del tutto interna alla logica capitalistica. Le stesse società capitalistiche concepiscono sé stesse come realtà immutabili, qualcosa su cui è impensabile intervenire a fondo. I valori di cui siamo imbevuti sono ormai talmente interiorizzati da non riuscire più a percepirne il portato ideologico.
Assai significativa, in questo senso, una delle conferenze statunitensi, in cui sin dal titolo (fin troppo scoperto) ci viene spiegato che “il capitalismo non è un’ideologia, è un sistema operativo”. Un realtà indiscutibile, dunque, che per sua natura è in costante aggiornamento ma non prevede stravolgimenti, e che necessita soltanto di essere compresa e utilizzata.
Nelle conferenze di TED risulta totalmente assente, invece, qualsiasi accenno alla necessità di una ritrovata consapevolezza della nostra dimensione collettiva. Ed è cosa che non sorprende.
Il realistico obiettivo di TED, dunque, non è contribuire a traghettare la società verso più agevoli lidi. La sua funzione, piuttosto, è paragonabile al ruolo di uno psicologo che, trovandosi di fronte ad un paziente impossibilitato a recuperare un sereno equilibrio rispetto al quotidiano, gli insegni finalmente ad imporre sé stesso, nel modo più conveniente possibile, per riuscire a sopravvivere in un mondo di squali.
Per convincerlo, però, dovrà raccontargli che può diventare davvero qualcuno, una guida, il leader che tutti vorrebbero essere.
Non lo diventerà, al pari della quasi totalità delle persone che lo circondano, per una semplice questione numerica: i leader sono tali perché guidano persone che non lo sono. Ma ingannandosi riuscirà probabilmente a tirare avanti, e a non inceppare il meccanismo.
Come cantava Bob Dylan, nel lontano 1965, “....Cartelloni pubblicitari ti portano a pensare / che tu sia colui che può fare / ciò che non è mai stato fatto / Che può vincere ciò che non è mai stato vinto / E intanto, intorno a te, la vita fa il suo corso”.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento