“Una volta è un incidente, due volte è una coincidenza, tre volte è un’abitudine”, recita un vecchio detto. Ed è quello che viene in mente nel sentire i racconti di diversi immigrati che in città hanno o hanno avuto difficoltà con gli uffici che si occupano delle pratiche per avere riconosciuta la cittadinanza o il permesso di soggiorno.
Le persone che abbiamo incontrato o delle quali abbiamo raccolto le storie arrivano per lo più dall’est Europa o dalla vicina Asia (extra Ue) ma anche dal Pakistan.
Diverse sono collaboratrici domestiche, quelle che chiamiamo badanti, e che normalmente godono di un discreto livello di integrazione. Non è il caso di tutte.
Carla (nome di fantasia, ha paura di rivelare la sua identità) ha lavorato per un periodo in un paese dell’interno ma dopo aver passato momenti difficili a causa dei datori di lavoro si è trasferita a Nuoro.
Ha un regolare contratto di lavoro, la sera frequenta la scuola media per ottenere il livello di italiano richiesto dalle norme vigenti in materia di immigrazione, periodicamente deve rinnovare il permesso di soggiorno.
Racconta questa esperienza quasi con terrore per le vessazioni che ha dovuto subire, dalle prese in giro per il nome e la provenienza ai veri e propri insulti, c’è chi le ha dato della prostituta.
Anche chi la accompagnava, un nuorese, è stato vittima di un becero umorismo, quasi che un fidanzamento “misto” fosse degradante.
«Si tratta di veri e propri abusi di potere – dice lui – ma a chi puoi rivolgerti per denunciare?».
Tutti, effettivamente, hanno paura di esporsi per non subire danni come pratiche bloccate o ulteriori discriminazioni, perché di questo si tratta.
L’unica contromisura è quella di recarsi presso gli uffici accompagnati da avvocati o comunque da professionisti che possano rispondere.
«Spesso – ci dicono ancora – puntano sulla nostra debolezza, sulle difficoltà di comprensione della lingua o su piccoli errori nella compilazione dei documenti. Ci vuole un carattere forte per tener loro testa ma non tutti riescono, sono per lo più impauriti e remissivi».
Un’altra donna, sempre dell’est, che ha oggi la fortuna di essere cittadina dice solo: «Non ho voglia di raccontare perché non voglio rivivere quel dolore, so solo che sopra di noi c’è un Giudice che darà a ciascuno secondo le sue azioni».
Ma ci sono anche storie di uomini che lavorano in campagna, per una azienda vitivinicola di un paese vicino. Quando si rivolgono telefonicamente agli uffici per informazioni si sentono spesso ripetere “chiami domani”.
Peggio, quando è il proprietario (sardo) dell’azienda a recarsi in città per i documenti, un uomo ormai anziano, si sente il più delle volte dire “torni domani”, quasi avesse la colpa di voler mettere in regola i propri dipendenti. Una volta, due volte, tre volte: incidente, coincidenza, abitudine.
Capita così, come racconta una struggente canzone dei Negrita che dà idealmente il titolo a questa pagina. Capita di non capire “come funziona e come va” perché si è stranieri ma anche di sentirsi stranieri nella propria città. Un posto che “non è Hollywood” e in cui la sola speranza è di dar ragione a quel tale che dice “Qui va bene così/tanto tutto è troppo e basta quel che hai/e forse un giorno lo capirai”.
Le persone che abbiamo incontrato o delle quali abbiamo raccolto le storie arrivano per lo più dall’est Europa o dalla vicina Asia (extra Ue) ma anche dal Pakistan.
Diverse sono collaboratrici domestiche, quelle che chiamiamo badanti, e che normalmente godono di un discreto livello di integrazione. Non è il caso di tutte.
Carla (nome di fantasia, ha paura di rivelare la sua identità) ha lavorato per un periodo in un paese dell’interno ma dopo aver passato momenti difficili a causa dei datori di lavoro si è trasferita a Nuoro.
Ha un regolare contratto di lavoro, la sera frequenta la scuola media per ottenere il livello di italiano richiesto dalle norme vigenti in materia di immigrazione, periodicamente deve rinnovare il permesso di soggiorno.
Racconta questa esperienza quasi con terrore per le vessazioni che ha dovuto subire, dalle prese in giro per il nome e la provenienza ai veri e propri insulti, c’è chi le ha dato della prostituta.
Anche chi la accompagnava, un nuorese, è stato vittima di un becero umorismo, quasi che un fidanzamento “misto” fosse degradante.
«Si tratta di veri e propri abusi di potere – dice lui – ma a chi puoi rivolgerti per denunciare?».
Tutti, effettivamente, hanno paura di esporsi per non subire danni come pratiche bloccate o ulteriori discriminazioni, perché di questo si tratta.
L’unica contromisura è quella di recarsi presso gli uffici accompagnati da avvocati o comunque da professionisti che possano rispondere.
«Spesso – ci dicono ancora – puntano sulla nostra debolezza, sulle difficoltà di comprensione della lingua o su piccoli errori nella compilazione dei documenti. Ci vuole un carattere forte per tener loro testa ma non tutti riescono, sono per lo più impauriti e remissivi».
Un’altra donna, sempre dell’est, che ha oggi la fortuna di essere cittadina dice solo: «Non ho voglia di raccontare perché non voglio rivivere quel dolore, so solo che sopra di noi c’è un Giudice che darà a ciascuno secondo le sue azioni».
Ma ci sono anche storie di uomini che lavorano in campagna, per una azienda vitivinicola di un paese vicino. Quando si rivolgono telefonicamente agli uffici per informazioni si sentono spesso ripetere “chiami domani”.
Peggio, quando è il proprietario (sardo) dell’azienda a recarsi in città per i documenti, un uomo ormai anziano, si sente il più delle volte dire “torni domani”, quasi avesse la colpa di voler mettere in regola i propri dipendenti. Una volta, due volte, tre volte: incidente, coincidenza, abitudine.
Capita così, come racconta una struggente canzone dei Negrita che dà idealmente il titolo a questa pagina. Capita di non capire “come funziona e come va” perché si è stranieri ma anche di sentirsi stranieri nella propria città. Un posto che “non è Hollywood” e in cui la sola speranza è di dar ragione a quel tale che dice “Qui va bene così/tanto tutto è troppo e basta quel che hai/e forse un giorno lo capirai”.
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Qui non è Hollywood
Qui non è Hollywood
Nel maggio scorso abbiamo raccontato su queste pagine storie di “invisibili” tra i quali rientrano le coppie cosiddette miste e le difficoltà per ottenere la cittadinanza. C’è chi ce l’ha fatta e ora può raccontare liberamente. Come Marco, nuorese doc. Dopo essersi diplomato a Nuoro ha lasciato la città per studiare in Italia e all’estero, conseguendo laurea e dottorato. Nonostante sia residente a Nuoro, si sposta spesso per lavoro continuando la sua attività di ricerca nel campo delle lingue e della storia contemporanea.
Quando hai conosciuto tua moglie e quando è iniziato l’iter per avere la cittadinanza?
«Ci siamo conosciuti nel 2011 e ci siamo sposati nel 2014. All’inizio non pensavamo a sposarci, meno che mai pensavamo alla cittadinanza: abbiamo iniziato a pensarci dopo alcuni episodi particolarmente gravi di discriminazioni istituzionali contro di noi, mia moglie era stata interrogata per ore dalla polizia in un paese europeo, senza alcun motivo, solo perché non era cittadina Ue. L’iter è iniziato nel 2019».
Cosa ha comportato in termini economici, di tempo, di energie fisiche e mentali?
«Ottenere la cittadinanza italiana non è facile, per alcuni è impossibile. Soltanto il raccogliere tutti i documenti richiesti può richiedere uno o più anni. Le spese tra tasse, documenti, traduzioni, legalizzazioni, esami, corrieri, viaggi nel paese di origine, possono arrivare a diverse migliaia di euro.
Noi ne abbiamo speso circa 4.000, ma non esiste una cifra fissa, perché dipende molto dai singoli e anche dall’arbitrio dell’ente che se ne occupa. In totale, noi ci abbiamo messo due anni, che può essere considerata una velocità supersonica.
Un immigrato che non ha parenti italiani ci può mettere tranquillamente 15, 20 anni, o semplicemente non ottenerla mai. Occorrono dieci anni di residenza per fare domanda (ma in Italia si può avere il permesso di soggiorno senza avere la residenza, e questo complica le cose); il tempo per raccogliere i documenti, ammesso che vi si riesca; 4, 5 o più anni di attesa per la risposta, che può essere anche negativa e senza nessuna possibilità di modifica del verdetto.
Certamente il dispendio di energie mentali necessario è molto grande, perché si ha a che fare con una macchina discriminatoria infernale che esercita su di te l’arbitrio più totale, e senza possibilità di appello, un po’ come nel processo di Kafka. La persona che fa domanda ha paura a lamentarsi, perché sa che qualunque scusa può essere buona per negare ciò cui ha diritto».
Cosa significa essere oggi una famiglia “mista”?
«Voglio precisare che in Italia e in Europa solo i cittadini non europei sono vittime di discriminazioni istituzionali. Per esempio non definirei mista una famiglia col marito italiano e la moglie francese.
Molto dipende anche dal colore: il fatto che noi siamo bianchi certamente ci ha aiutato. In generale, anche se una persona extra-Ue è sposata con un cittadino italiano, lo Stato la considera in tutto e per tutto “immigrata”, la sottopone quindi a tutte o quasi le discriminazioni delle quali sono vittima gli altri immigrati».
Pensi che la vostra sia una storia di “ordinaria burocrazia” o un caso di “razzismo di Stato” (per richiamare il titolo di un libro curato da Pietro Basso)?
«Conosco il libro curato da Pietro Basso e conosco anche l’autore. Non c’è dubbio, la sua definizione è particolarmente azzeccata e centra in pieno il punto. Razzismo di Stato sono tutte le discriminazioni istituzionali contro gli immigrati e le famiglie miste. È ben diverso dal razzismo nella società.
Parlare di “burocrazia” è quanto meno riduttivo, dato che la qualità, la quantità e la gravità di quello che subiscono gli immigrati non ha paragone con quello che subiscono gli italiani».
Credi che a Nuoro esista il razzismo?
«Certo, esiste anche a Nuoro. Devo dire che l’essere vittima di razzismo nel luogo dove sono nato e cresciuto è stata un’esperienza che è difficile descrivere. In particolare ho sofferto molto il fatto che le persone negassero sfacciatamente e spudoratamente i nostri problemi quando io li raccontavo. È un caso lampante di falsa coscienza: se gli italiani sapessero quello che passano gli immigrati e le famiglie miste in Italia, si vergognerebbero di guardarsi allo specchio».
Per te e tua moglie c’è stato un lieto fine, la cittadinanza è finalmente arrivata. Perché continui a occuparti di queste vicende?
«Tutte le discriminazioni che io e mia moglie abbiamo sofferto hanno cambiato per sempre la mia vita. Ho capito che cosa vuol dire essere I dannati della terra, per citare un libro di Fanon. Prima che ne fossi vittima ne ero a conoscenza solo in modo indiretto. Ma l’esperienza diretta cambia tutto.
Appena mi sono reso conto che quello che subivamo non era un caso isolato ma generale, mi sono messo in contatto con partiti, associazioni, movimenti sensibili a questi temi. Io non ho mai pensato che il razzismo di Stato potesse essere ridotto a un caso individuale. Non ho mai pensato che le famiglie miste dovessero ottenere un trattamento preferenziale rispetto agli altri immigrati, né che la mia famiglia fosse speciale e che dovesse subire un trattamento speciale.
Il razzismo di Stato è un crimine. Personalmente, sono sempre stato disgustato dall’egoismo delle persone. Così come ne sono stato disgustato quando la vittima ero io, sarei un ipocrita se ora facessi l’egoista e l’indifferente nei confronti delle altre persone che sono rimaste in questa situazione.
Ho deciso che continuerò a lottare a fianco degli altri immigrati con i poveri mezzi che ho a disposizione. Il fatto che mi sia occupato per anni di storia contemporanea mi dà degli strumenti particolari per capire come il razzismo si è evoluto nel tempo. Pertanto, cerco di pubblicare ricerche sul tema e di presentarle pubblicamente. Ma naturalmente questo non basta.
La soluzione deve essere politica e può passare solo attraverso la mobilitazione degli immigrati stessi e dei pochi italiani disposti a sostenerli. Vedo dei segnali positivi in questo senso, ma non basta».
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