Mai come in questi mesi la parola guerra, e le tensioni che ne derivano, sta circolando nel mondo. Non si tratta solo di articoli o lanci di agenzia, ma anche di documenti ufficiali della Nato o di singoli paesi.
Due “particolari” scrittori statunitensi – un ex generale e un ex membro delle forze speciali – in un loro recente romanzo fissano addirittura una data: il 2034. E sarà una “guerra totale” tra Usa e Cina per via di Taiwan.
Quattro anni fa lo statistico statunitense Aaron Clauset realizzò una proiezione che giungeva alla conclusione che, sì, una simulazione sui dati portava alla conclusione che la terza guerra mondiale è diventata possibile.
Così come è prevedibile che negli ultimi dieci anni, vertici militari e scienziati del settore abbiano cominciato a elaborare gli inquietanti calcoli su “costi e benefici”.
Per prudenza o presa d’atto, molti vertici politici e militari occidentali definiscono la guerra oggi possibile come una “guerra ibrida”, spesso declinata al plurale perché in corso ce n’è già più di una su vari teatri.
Le guerre ibride sono un mix di strumenti messi in campo per danneggiare il nemico: sanzioni economiche, attacchi informatici, omicidi mirati, campagne mediatiche particolarmente insistenti ed ostili, manovre militari ai confini o in luoghi strategici oggetto di contesa.
L’ultimo rapporto del Sipri di Stoccolma parla di un vertiginoso aumento delle spese militari nell’ultimo decennio. Assistiamo ad un riarmo generalizzato che non riguarda più solo le grandi potenze, ma anche potenze regionali come Turchia, Israele, Iran, Pakistan, India, Arabia Saudita.
Potenze minori certo, ma con interessi e ambizioni crescenti e tassi di imprevedibilità non sistematizzabili nelle vecchie organizzazioni come la Nato.
Intensificare il ricorso alle “guerre ibride” è un modo per convivere con lo stallo sul piano militare globale, per via delle armi nucleari in mano ad almeno nove potenze, ma anche per indicare che ormai non si esclude più il ricorso alla guerra come strumento di “difesa” o affermazione delle proprie ambizioni egemoniche.
Su tutto questo incombe poi una crisi sistemica del capitalismo che è diventata anche crisi di civiltà. La contrapposizione tra Occidente liberista e “dispotismo asiatico” oggi è meno persuasiva che in passato.
La diversa gestione della pandemia, la diffusione degli investimenti esteri – non più solo statunitensi ed europei – il risentimento dei paesi in via di sviluppo per le briciole (o addirittura la regressione sociale) lasciate dalla fase espansiva della globalizzazione capitalista, non assicurano più agli Usa e all’Europa il monopolio mondiale dell’economia, ma neanche del fattore ideologico dell’egemonia.
Resta loro a disposizione solo lo strumento pericoloso della supremazia militare, e da questo possono nascere le tentazioni del ricorso alla guerra come strumento per ristabilire il vecchio ordine e le vecchie gerarchie.
I resoconti delle riunioni della Nato o dell’Aukus e le dichiarazioni ufficiali dei governi vedono alzarsi i toni, minacciare ritorsioni, muovere pezzi sui vari scacchieri regionali (Europa dell’est e Pacifico soprattutto).
Quella che somiglia ad una nuova Guerra Fredda vede l’asse euroatlantico (Ue e Usa) contrapporsi a quello euroasiatico (Russia e Cina).
Ma è evidente che anche questo schema semplificato rappresenti la materializzazione del peggiore incubo degli Stati Uniti: la rinascita di potenze rivali in grado di contestarne l’egemonia. E proprio mentre il paese si presenta profondamente spaccato, a livello politico e sociale, come mai prima.
Questo era l’incubo che i neoconservatori statunitensi – do you remember il Progetto per un “Nuovo Secolo Americano”? (1) – volevano impedire sin dal 1992, cioè appena sconfitta l’Urss e avendo il mondo a propria disposizione.
Così evidentemente non è stato, ed oggi il sogno unipolarista Usa è diventato per loro l’incubo di un mondo multipolare con più potenze a contendersi mercati, risorse, tecnologie, transazioni monetarie, filiere produttive, spazi di influenza geopolitica.
Ma l’ambizione Usa di riportare il mondo ad una contrapposizione tra blocchi – alzando sistematicamente la tensione per costringere alleati e partner ad arruolarsi – non funziona più, o comunque non come prima.
L’Unione Europea ad esempio, durante la Guerra Fredda non esisteva come tale ed oggi invece si.
Gli alleati europei, oggi tendenzialmente più indipendenti, mettono continuamente sul piatto due problemi: a) nella Nato deve cessare la primàzia Usa per diventare alleanza paritaria, pena il suo superamento; b) l’Europa non ha molto interesse a rompere totalmente con la Russia e neanche con la Cina, ragione per cui lo scontro può salire nei toni, ma assai meno nei fatti.
Infine, ma non per importanza, il bellicismo Usa attraverso la Nato costringe l’Europa ad essere ancora volta la prima linea dell’eventuale scontro con la Russia. Insomma “fare i guerrafondai con le città e le popolazioni degli altri” non è proprio uno scenario piacevole né accettabile per gli europei.
Il rischio di un “incidente” o di un fatto compiuto dal quale diventa difficile tornare indietro senza perdere la faccia (vedi l’umiliazione in Afghanistan) non può più essere escluso da un scenario di tensioni crescenti.
Ed è su questa contraddizione che in Italia e in Europa diventa auspicabile che riprenda l’iniziativa un movimento popolare contro la guerra e, ovviamente, per l’uscita dalla Nato. Prima è, meglio è.
Note
(1) Nato nella primavera del 1997, il Progetto per il Nuovo Secolo Americano è una organizzazione il cui scopo è di promuovere la leadership americana globale. Praticamente “L’America First” come destino manifesto.Il presidente del progetto era William Kristel. Robert Kagan, Devon Gaffney Cross, Bruce P. Jackson e John R. Bolton ne erano i direttori. Gary Schmitt era il direttore esecutivo del progetto.
Al termine del 20° secolo, gli Stati Uniti si presentano come la potenza mondiale dominante. Dopo aver guidato l’occidente alla vittoria della Guerra Fredda, l’America è ora davanti ad una opportunità ed una sfida: gli Stati Uniti hanno la lungimiranza di costruire ancora sui successi ottenuti nei decenni passati? Gli Stati Uniti hanno la risolutezza per configurare un nuovo secolo che sia favorevole ai principi e agli interessi Americani?
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