Ricordate i ristoratori che protestavano contro il reddito di cittadinanza perché non trovavano più gente disposta a lavorare per meno di 581 euro al mese?
Beh, nel trevigiano hanno imposto la loro legge, in senso tecnico. Nell marca, infatti viene imposta nei contratti – precari e a termine, ci mancherebbe – una clausola capestro per impedire ai giovani dipendenti di esercizi pubblici e ristoranti di lasciare il posto di lavoro anzitempo.
In pratica, una vera e propria “penale”, una tassa di mille euro indicata nel contratto di assunzione per impedire licenziamenti volontari anticipati.
Tutta colpa della “ricchezza dell’offerta” (di lavoro). Nella zona, infatti, c’è una grande quantità di ristoranti, bar e trattorie. I giovani hanno di fronte diverse opportunità occupazionali, con offerte spesso al rialzo per la scarsità di manodopera, e quindi sono spinti a lasciare i posti meno pagati per quelli che offrono un salario superiore, anche di poco.
Il testo della clausola recita così: “Resta inteso che il rapporto, per tutta la sua durata pari a circa 2 mesi, sarà regolato dal Contratto nazionale del settore Turismo – Pubblici esercizi e si intenderà automaticamente risolto il 31 gennaio 2022 senza preavviso da parte”.
Cui segue il riferimento all’articolo 2119 del Codice civile. “Lei, salvo le motivazioni per giusta causa, si vincola a non dimettersi durante tutta la durata del rapporto di lavoro”.
Sembra quasi tutto regolare, se non fosse per la condizione finale: “Le parti qui firmatarie concordano che le eventuali dimissioni anticipate comporteranno l’applicazione di una penale pecuniaria valutata consensualmente in € 1000 (mille), fatta salva l’ulteriore possibilità di richiesta di risarcimento del danno”.
Di fatto, si penalizza – fino ad annullarla – la libertà del dipendente (temporaneo, ci mancherebbe) di accettare un lavoro meglio retribuito, mentre il “datore di lavoro” conserva non solo quelli di licenziarlo quando vuole, pur pagandolo cifre spesso irrisorie, ma si attribuisce anche il potere di cancellare la retribuzione dovuta nel caso di “pre-morienza” del rapporto di lavoro.
Tradotto: nei primi 30 giorni di “prova”, mentre il datore di lavoro può licenziare, il dipendente non se ne può andare, altrimenti deve pagare mille euro. Un “servo della gleba” in tempo postmoderni.
Ovviamente esisteva anche prima una legge che imponeva ai dipendenti qualche obbligo riguardo alla cancellazione del rapporto di lavoro (giorni di preavviso, ecc.), ma non una “penale” superiore al salario e tanto meno il “diritto di rivalersi” (chiedere soldi in più) da parte dell’imprenditore.
Come spiega addirittura un sindacalista Cgil al Fatto Quotidiano, per esempio, capita spesso che “il giovane lascia il posto di lavoro temporaneo, non solo perché ha prospettive di assunzioni a tempo indeterminato da qualche altra parte, ma anche perché non ha trovato nel primo lavoro le condizioni che gli erano state prospettate.”
In ogni caso, è prassi che i giovani che vanno a lavorare soffrono di una minor conoscenza di leggi e regole, e dunque che si ritrovino a firmare contratti che non hanno letto integralmente, comprese le clausole scritte in caratteri infinitesimali.
Quindi, l'“invenzione” dei padroncini trevigiani si configura come una vera e propria truffa legalizzata, che consente di ottenere lavoro pagato pochissimo o addirittura non pagato, tramite la clausola contenente la “penale”. Basta infatti “mobbizzare” i dipendenti precari per spingerli – in molti casi, e anche in assenza di prospettive lavorative migliori – a lasciare il lavoro e ritrovarsi nella posizione di “debitore” rispetto allo sfruttatore.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento