Ad aumentare le pressioni sulla Cina avevano inizialmente contribuito a fine gennaio le rivelazioni del New York Times,
secondo il quale degli hacker cinesi si erano più volte introdotti nel
sistema informatico del noto giornale americano. Subito dopo,
identiche violazioni erano state denunciate anche dal Washington Post e dal Wall Street Journal,
scatenando un coro di richieste indirizzate verso la Casa Bianca per
adottare iniziative più incisive per contrastare il cyber-crimine
internazionale di matrice cinese.
Lo stesso New York Times,
qualche giorno fa, ha poi rincarato la dose, pubblicando un lungo
articolo nel quale vengono presentate dubbie prove di operazioni di
hackeraggio ai danni di aziende private e di uffici governativi
americani, messe in atto da una struttura legata direttamente alle forze
armate cinesi.
L’indagine del Times è
il risultato del lavoro della compagnia americana Mandiant che si
occupa di sicurezza informatica sia per il settore privato che per il
governo. Nel rapporto di 60 pagine su cui si basano le accuse alla Cina
vengono analizzati 141 attacchi informatici ai danni degli Stati Uniti
a partire dal 2006, tutti attribuiti allo stesso gruppo di hacker,
conosciuto negli USA con il nome di “Comment Crew” o “Shanghai Group”.
Qui
si troverebbe un edificio che ospita l’Unità 61398 dell’Esercito
Popolare di Liberazione, cioè le forze armate cinesi, il cui operato
rimane avvolto nel mistero e forse anche per questo indicato con quasi
assoluta certezza dal Times e dal rapporto di Mandiant come
responsabile delle intrusioni nei sistemi informatici americani. Lo
stesso giornale, tuttavia, afferma chiaramente come Mandiant non sia
stata in grado di localizzare esattamente la provenienza degli attacchi.
Secondo
quanto affermato dall’amministratore delegato di Mandiant, Kevin
Mandia, o i cyber-attacchi hanno avuto origine “dall’Unità 61398 oppure
le persone che gestiscono le reti internet più controllate e monitorate
del mondo [il governo e i vertici militari cinesi] non sono a
conoscenza dell’esistenza di centinaia di hacker in questo quartiere”.
In realtà, le parole del consulente informatico del New York Times
rivelano la mancanza di prove indiscutibili delle responsabilità
dell’esercito cinese, come ha successivamente confermato alla testata
Christian Science Monitor anche un esperto di sicurezza informatica
della compagnia Dell Secureworks. Secondo quest’ultimo, “ancora non ci
sono prove schiaccianti” che le attività di hackeraggio in questione
abbiano avuto origine dall’edificio che ospita l’Unità 61398, dal
momento che quanto è stato messo assieme da Mandiant sono solo “una
serie di coincidenze che puntano in questa direzione”.
Da
parte sua, il governo cinese ha risposto duramente alle accuse,
affermando che esse “mancano di prove certe” e, soprattutto, facendo
notare come gli indirizzi dei provider rintracciati da Mandiant non
forniscano indicazioni precise circa l’origine degli attacchi, visto
che gli hacker se ne appropriano frequentemente per non essere
localizzati. Il Ministero degli Esteri di Pechino, inoltre, ha
ricordato che i sistemi informatici cinesi sono il costante bersaglio
degli hacker, gran parte dei quali operano negli Stati Uniti.
Un editoriale pubblicato mercoledì dell’agenzia di stampa cinese Xinhua ha
poi accusato la compagnia Mandiant di volere soltanto promuovere i
propri interessi commerciali, accennando anche alla possibilità che
“politici e uomini d’affari americani stiano come al solito cercando di
utilizzare la Cina per perseguire i propri interessi personali,
specialmente in un momento in cui il Congresso USA sta per approvare il
bilancio del prossimo anno fiscale”.
I
motivi principali dietro a questa nuova polemica scatenata dagli Stati
Uniti sono infatti da ricercare principalmente nell’atteggiamento
sempre più bellicoso dell’amministrazione Obama nei confronti della
Cina e, in secondo luogo, nel tentativo di sfruttare le minacce
tecnologiche provenienti da paesi ostili per rafforzare il controllo
sulle comunicazioni web e fornire alle agenzie governative preposte
strumenti più incisivi per lanciare eventuali cyber-attacchi contro i
propri nemici.
Come era ampiamente prevedibile, subito dopo l’articolo del New York Times,
la Casa Bianca ha annunciato una serie di iniziative per contrastare
la presunta cyber-guerra scatenata dalla Cina. Le misure che sarebbero
in preparazione vanno dalle pressioni diplomatiche su Pechino a nuove e
più severe leggi per punire i colpevoli degli attacchi informatici, ma
anche sanzioni e restrizioni in ambito commerciale.
Questo
nuovo fronte della campagna anti-cinese era già stato preannunciato
dallo stesso presidente Obama la scorsa settimana durante il suo
discorso sullo stato dell’Unione, nel quale aveva fatto insolitamente
riferimento proprio alla minaccia di sabotaggio a cui i sistemi
informatici dei settori nevralgici dell’economia e della sicurezza USA
sarebbero esposti.
In precedenza,
Obama aveva invece firmato un decreto esecutivo per consentire ai
militari di condurre attacchi informatici per prevenire possibili
minacce contro gli Stati Uniti, ovviamente ridefinendoli come
“operazioni difensive”, mentre il Pentagono aveva approvato un
sensibile aumento del personale da impiegare nel proprio comando
deputato alle operazioni informatiche.
Uno
dei più recenti esempi della propaganda di Washington in questo ambito
è stato infine registrato mercoledì, quando alla Casa Bianca è stata
organizzata una speciale conferenza sul cyber-crimine che ha avuto al
centro dell’attenzione le attività degli hacker cinesi, secondo il
governo impegnati, con il sostegno delle autorità di Pechino, ad
infiltrare le corporation americane per rubare preziose informazioni
commerciali, ma anche a violare i sistemi informatici di agenzie
federali e delle compagnie che gestiscono i servizi pubblici.
Dai
commenti apparsi in questi giorni sui media “mainstream” d’oltreoceano
e dalle dichiarazioni allarmate di politici e top manager americani è
rimasta invece puntualmente fuori qualsiasi critica delle stesse
attività di guerra tecnologica condotte in maniera del tutto illegale
dal governo di Washington.
Solo per
citare una delle operazioni più note tra le pochissime diventate di
dominio pubblico, gli Stati Uniti, in collaborazione con Israele, nel
2010 infiltrarono un’installazione nucleare iraniana con il malware
successivamente denominato “Stuxnet”, distruggendo centinaia di
centrifughe usate per l’arricchimento dell’uranio.
Questa
iniziativa, da considerare un vero e proprio atto di guerra secondo i
parametri dello stesso governo americano e, oltretutto, accompagnata da
una campagna di assassini di scienziati nucleari in territorio
iraniano, non ha rappresentato peraltro un episodio isolato, dal
momento che le autorità di Teheran nella primavera del 2012 avrebbero
poi scoperto un nuovo virus - “Flame” - riconducibile a “Stuxnet” ma
utilizzato principalmente per sottrarre dati classificati relativi al
programma nucleare dell’Iran.
Nessun commento:
Posta un commento