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28/02/2013

Permission To Land


Per la serie sia dato a Cesare quel ch'è di Cesare, oggi butto giù due righe su un disco ri-capitatomi in cuffia come una bomba.

Correva l'anno 2003 e sul mercato irrompevano i The Darkness. Se avete fatto i dovuto collegamenti spazio - tempo vi sarà chiaro che non sto scrivendo della derivativa e sopravvalutata band thrash tedesca, ma del gruppo dei fratelli Hawkins, gente inglese. A mia memoria quella fu la prima riuscita operazione di revival degli anni 2000.

In un mercato ammorbato dal filone boy/girl band ormai alla canna del gas e da un hip hop lanciato verso il dominio - purtroppo non ancora conclusosi - la Atlantic uscì con un album rock smaccatamente ispirato ai classici del genere di 30 anni prima, AC/DC in testa. Il risultato è un lavoro ruffiano quanto ben riuscito che musicalmente non presenta punti deboli - a parte il fatto di non dire nulla di nuovo pur facendolo benissimo - a iniziare dalle chitarre eccezionalmente incisive sia in fase ritmica sia solista, passando per suoni che riconducono la memoria a pietre miliari del calibro di Highway to Hell, per arrivare a melodie e ritornelli che trascinano e sì stampano in testa con facilità disarmante - Growing on me miglior pezzo rock dello scorso decennio! -. I testi, va da se, sono quanto di più superficiale ci si possa attendere, ma non poteva essere diversamente, i temi impegnati meglio lasciarli a gente che non sì monta la testa al primo tour mandando a puttane la carriera infarinandosi il naso un giorno si e l'altro pure...

A fronte di quanto scritto fin'ora sarà chiaro che questo è un lavoro che vive di singoli e - con qualche eccezione come nel caso di Friday night - pezzi più deboli ma non rovinosi, come capita di trovare in quasi tutte le uscite costruite per certe operazioni commerciali.

Chi è tignoso ascriverà ai punti deboli il già citato fatto che il gruppo non propose assolutamente nulla d'originale - si tratta di una questione relativa come ho già avuto modo di precisare - e per chi ha orecchie come le mie, la voce del cantante Justin Hawkins, che col suo falsetto diventa spesso irritante e in alcune occasioni limita brani che si avvantaggerebbero del supporto di un'ugola meno acuta e più cattiva.

Un lavoro da avere dunque? Sì, soprattutto per gli amanti del genere e per tutti quelli convinti che Angus Young abbia avuto il suono di chitarra più bello della storia del rock insieme a un paio di altri colleghi - a voi l'onere di scoprire quali - ma anche perché, ogni tanto, le ciambelle da esposizione così ben riuscite meritano d'essere riconosciute per il valore che hanno.


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