Ankara compra sistemi di difesa militari da Tel Aviv. Nassar Ibrahim: "In Medio Oriente Erdogan ha fallito e si è isolato. Gli resta solo Israele".
I rapporti tra Turchia e Israele vivono oggi una nuova stagione: alla
ragion di Stato si preferiscono gli affari. Dopo aver rotto ogni
rapporto diplomatico a seguito dell'offensiva israeliana contro la nave
turca Mavi Marmara nel 2010 - un assalto sanguinoso contro gli attivisti
della missione Freedom Flotilla diretta verso Gaza, che provocò la
morte di nove cittadini turchi - lunedì la stampa di Ankara ha
annunciato la firma di un accordo per la vendita da parte di Tel Aviv di
sistemi aerei militari elettronici al governo del premier Erdogan.
Il nuovo equipaggiamento aereo andrà ad integrare i sistemi già
sviluppati dall'industria militare turca, il cosiddetto AWACS(Airborne
Warning and Control System). L'AWACS è un sistema radar volto ad
intercettare velivoli, navi e veicoli a lunga distanza e a gestire
battaglie aeree contro un eventuale nemico. L'accordo in questione, del valore di oltre cento milioni di dollari, risale al lontano 2002 e prevedeva la vendita di quattro Boeing 737, dotati di controllo radar e sistema di difesa elettronico.
Il contratto, però, non era stato mai implementato a causa del rifiuto
da parte israeliana di fornire gli ultimi due equipaggiamenti necessari
al completamento del sistema di difesa AWACS. Un rifiuto derivante dalla
decisione della Turchia di interrompere le relazioni diplomatiche con
Israele e di procedere al processo in contumacia nei confronti dei
soldati e degli ufficiali ritenuti colpevoli della morte dei nove
attivisti.
All'epoca dell'attacco delle forze speciali dell'esercito israeliano
contro la Mavi Marmara, il premier turco Erdogan chiese ad Israele scuse
ufficiali e il riconoscimento di un risarcimento economico alle
famiglie delle nove vittime. Una condizione per la ripresa delle
relazioni bilaterali, che Israele non ha mai voluto soddisfare.
Anzi, nel rapporto finale della Commissione Turkel, comitato di
inchiesta governativo per indagare sui fatti del 30 maggio 2010, gli
esperti di Tel Aviv hanno completamente assolto il governo e definito
l'uso della forza contro attivisti disarmati "appropriato e
proporzionale alla minaccia".
A sbloccare la diatriba, che aveva posto in standby l'accordo di
vendita, è stato l'intervento diretto della compagnia americana Boeing.
Secondo un funzionario del Ministero della Difesa turco, rimasto
anonimo, "la Boeing ha detto a Israele che il loro rifiuto a completare
la consegna stava danneggiando i loro affari".
Così, Israele avrebbe deciso di mettere la parola fine a due anni di
"embargo" contro la Turchia: dal 2010, infatti, il governo Netanyahu
aveva bandito le esportazioni verso Ankara. Insomma, rapporti ricuciti
perché, si sa, gli affari sono affari. Non solo in campo militare, ma
anche in quello energetico.
In ballo c'è infatti anche un accordo per un progetto congiunto
turco-israeliano per la costruzione di un gasdotto sottomarino che da
Israele, via Turchia, esporti gas naturale verso l'Europa. Stavolta a
rallentare l'implementazione del progetto è il governo turco. La scorsa
settimana il ministro dell'Energia, Taner Yildiz, ha detto che Ankara
non darà il via libera fino all'approvazione definitiva del premier
Erdogan.
L'offerta israeliana prevede la costruzione di un gasdotto che parta dal
bacino Leviatano - il più ricco di Israele - e che prosegua lungo la
costa meridionale della Turchia per giungere a soddisfare le necessità
energetiche dei Paesi europei. Un totale di 425 miliardi di metri cubi
di gas.
La fretta israeliana è ben comprensibile, ma la Turchia frena: prima
Tel Aviv deve venire incontro alle condizioni politiche poste da
Erdogan. Il premier, a parole, si è sempre dimostrato uno strenuo
antagonista dello Stato ebraico: più volte il primo ministro turco ha
definito quello israeliano uno Stato terrorista e l'ultima accusa in
ordine di tempo è giunto a seguito del bombardamento israeliano di un
convoglio in terra siriana.
Non va dimenticato un elemento fondamentale a comprendere le attuali relazioni tra i due Paesi: l'intenzione
di Ankara di assumere il ruolo di leader del mondo arabo, approfittando
di un Egitto ancora troppo instabile e una Siria in piena guerra
civile. Da tempo Erdogan non nasconde il desiderio di fare della
Turchia il nuovo potere regionale, rompendo ogni relazione con l'ex
alleato di ferro Bashar al-Assad e facendo dell'Iran il nemico comune.
In un simile eventuale contesto, Israele ha tutto l'interesse di
riavvicinarsi alla Turchia, visti i rapporti a dir poco tesi (quasi da
guerra fredda) con Damasco e Teheran. La Turchia potrebbe diventare
per Israele quello che è stato per anni l'Egitto: sotto la dittatura
quarantennale di Mubarak, Israele si è garantito il sostegno e la non
belligeranza del Cairo, una garanzia di enorme valore all'interno del mondo arabo.
Ma cosa spinge la Turchia a riavvicinarsi allo Stato ebraico? Ne
parliamo con l'analista politico e scrittore palestinese Nassar Ibrahim:
"Per comprendere l'attuale gioco di alleanze, è necessario partire
dalla storia: per decenni Turchia e Israele hanno mantenuto ottimi
rapporti, politici e militari. L'attacco alla Mavi Marmara è
l'eccezione, non la regola. Il premier turco Erdogan ne ha subito
approfittato per mostrarsi al mondo arabo come l'unico leader in grado
di affrontare Israele e difendere i diritti del popolo palestinese,
tanto che in quei mesi erano moltissime le bandiere turche che
sventolavano nelle manifestazioni in Cisgiordania e in altri Paesi della
regione. Il suo successo derivava, però, non tanto dalla sua figura di
leader quanto dalla frustrazione per il silenzio degli altri regimi
arabi".
Fino allo scoppio delle Primavere Arabe. "Erdogan, a capo di un
partito che è figlio dei Fratelli Musulmani - prosegue Ibrahim - ha
capito che quello era il momento della Turchia: Ankara avrebbe
potuto fare la differenza e diventare il nuovo leader in un Medio
Oriente guidato dalla Fratellanza Musulmana. Per questo Erdogan si è
subito lanciato contro il regime di Mubarak, quello di Ben Alì, quello
di Gheddafi e infine contro il siriano Bashar al-Assad. Compiendo un
errore strategico di grande portata: la Siria è stata fedele alleata
della Turchia per decenni. I due Paesi intessevano ottimi rapporti
politici, economici e militari. Fino alla decisione di Erdogan di
abbandonare il vecchio amico Assad, nella convinzione che sarebbe presto
caduto per fare spazio ad un governo nuovo, guidato - come in Tunisia e
Egitto - dai Fratelli Musulmani".
Ma a due anni dall'inizio della guerra civile siriana, il governo di
Damasco non cade e, mentre i gruppi di opposizione islamici tradizionali
(tra cui gli stessi Fratelli Musulmani) perdono terreno, avanzano le
milizie di Al Qaeda. "Erdogan è entrato in crisi, la sua strategia è
entrata in crisi anche a causa del malcontento interno: il popolo turco
è tradizionalmente e storicamente vicino a quello siriano e nessuno ha
compreso la necessità di abbandonare Damasco. In particolare l'esercito,
potere forte e radicato in Turchia, sta duramente criticando Erdogan:
per favorire interessi di partito (ovvero diventare il punto di
riferimento di tutti i partiti di governo dei Fratelli Musulmani), ha
sacrificato gli interessi politici ed economici della Turchia".
"In tale contesto va letto il riavvicinamento a Israele - conclude Ibrahim - La
Turchia si è isolata, è ormai circondata da Stati antagonisti. La
Siria, l'Iran, l'Iraq. Ad Erdogan restano la NATO, l'Europa e gli Stati
Uniti, ovvero i più stretti alleati di Israele. Se Ankara vuole
garantirsi l'appoggio occidentale e i missili Patriot dell'Alleanza
Atlantica, ha bisogno di rinnovare i rapporti con Tel Aviv".
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