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26/02/2013

Perché la Turchia fa affari con Israele

Ankara compra sistemi di difesa militari da Tel Aviv. Nassar Ibrahim: "In Medio Oriente Erdogan ha fallito e si è isolato. Gli resta solo Israele".

I rapporti tra Turchia e Israele vivono oggi una nuova stagione: alla ragion di Stato si preferiscono gli affari. Dopo aver rotto ogni rapporto diplomatico a seguito dell'offensiva israeliana contro la nave turca Mavi Marmara nel 2010 - un assalto sanguinoso contro gli attivisti della missione Freedom Flotilla diretta verso Gaza, che provocò la morte di nove cittadini turchi - lunedì la stampa di Ankara ha annunciato la firma di un accordo per la vendita da parte di Tel Aviv di sistemi aerei militari elettronici al governo del premier Erdogan.

Il nuovo equipaggiamento aereo andrà ad integrare i sistemi già sviluppati dall'industria militare turca, il cosiddetto AWACS(Airborne Warning and Control System). L'AWACS è un sistema radar volto ad intercettare velivoli, navi e veicoli a lunga distanza e a gestire battaglie aeree contro un eventuale nemico. L'accordo in questione, del valore di oltre cento milioni di dollari, risale al lontano 2002 e prevedeva la vendita di quattro Boeing 737, dotati di controllo radar e sistema di difesa elettronico.

Il contratto, però, non era stato mai implementato a causa del rifiuto da parte israeliana di fornire gli ultimi due equipaggiamenti necessari al completamento del sistema di difesa AWACS. Un rifiuto derivante dalla decisione della Turchia di interrompere le relazioni diplomatiche con Israele e di procedere al processo in contumacia nei confronti dei soldati e degli ufficiali ritenuti colpevoli della morte dei nove attivisti.

All'epoca dell'attacco delle forze speciali dell'esercito israeliano contro la Mavi Marmara, il premier turco Erdogan chiese ad Israele scuse ufficiali e il riconoscimento di un risarcimento economico alle famiglie delle nove vittime. Una condizione per la ripresa delle relazioni bilaterali, che Israele non ha mai voluto soddisfare. Anzi, nel rapporto finale della Commissione Turkel, comitato di inchiesta governativo per indagare sui fatti del 30 maggio 2010, gli esperti di Tel Aviv hanno completamente assolto il governo e definito l'uso della forza contro attivisti disarmati "appropriato e proporzionale alla minaccia".

A sbloccare la diatriba, che aveva posto in standby l'accordo di vendita, è stato l'intervento diretto della compagnia americana Boeing. Secondo un funzionario del Ministero della Difesa turco, rimasto anonimo, "la Boeing ha detto a Israele che il loro rifiuto a completare la consegna stava danneggiando i loro affari".

Così, Israele avrebbe deciso di mettere la parola fine a due anni di "embargo" contro la Turchia: dal 2010, infatti, il governo Netanyahu aveva bandito le esportazioni verso Ankara. Insomma, rapporti ricuciti perché, si sa, gli affari sono affari. Non solo in campo militare, ma anche in quello energetico.

In ballo c'è infatti anche un accordo per un progetto congiunto turco-israeliano per la costruzione di un gasdotto sottomarino che da Israele, via Turchia, esporti gas naturale verso l'Europa. Stavolta a rallentare l'implementazione del progetto è il governo turco. La scorsa settimana il ministro dell'Energia, Taner Yildiz, ha detto che Ankara non darà il via libera fino all'approvazione definitiva del premier Erdogan.

L'offerta israeliana prevede la costruzione di un gasdotto che parta dal bacino Leviatano - il più ricco di Israele - e che prosegua lungo la costa meridionale della Turchia per giungere a soddisfare le necessità energetiche dei Paesi europei. Un totale di 425 miliardi di metri cubi di gas.

La fretta israeliana è ben comprensibile, ma la Turchia frena: prima Tel Aviv deve venire incontro alle condizioni politiche poste da Erdogan. Il premier, a parole, si è sempre dimostrato uno strenuo antagonista dello Stato ebraico: più volte il primo ministro turco ha definito quello israeliano uno Stato terrorista e l'ultima accusa in ordine di tempo è giunto a seguito del bombardamento israeliano di un convoglio in terra siriana.

Non va dimenticato un elemento fondamentale a comprendere le attuali relazioni tra i due Paesi: l'intenzione di Ankara di assumere il ruolo di leader del mondo arabo, approfittando di un Egitto ancora troppo instabile e una Siria in piena guerra civile. Da tempo Erdogan non nasconde il desiderio di fare della Turchia il nuovo potere regionale, rompendo ogni relazione con l'ex alleato di ferro Bashar al-Assad e facendo dell'Iran il nemico comune.

In un simile eventuale contesto, Israele ha tutto l'interesse di riavvicinarsi alla Turchia, visti i rapporti a dir poco tesi (quasi da guerra fredda) con Damasco e Teheran. La Turchia potrebbe diventare per Israele quello che è stato per anni l'Egitto: sotto la dittatura quarantennale di Mubarak, Israele si è garantito il sostegno e la non belligeranza del Cairo, una garanzia di enorme valore all'interno del mondo arabo.

Ma cosa spinge la Turchia a riavvicinarsi allo Stato ebraico? Ne parliamo con l'analista politico e scrittore palestinese Nassar Ibrahim: "Per comprendere l'attuale gioco di alleanze, è necessario partire dalla storia: per decenni Turchia e Israele hanno mantenuto ottimi rapporti, politici e militari. L'attacco alla Mavi Marmara è l'eccezione, non la regola. Il premier turco Erdogan ne ha subito approfittato per mostrarsi al mondo arabo come l'unico leader in grado di affrontare Israele e difendere i diritti del popolo palestinese, tanto che in quei mesi erano moltissime le bandiere turche che sventolavano nelle manifestazioni in Cisgiordania e in altri Paesi della regione. Il suo successo derivava, però, non tanto dalla sua figura di leader quanto dalla frustrazione per il silenzio degli altri regimi arabi".

Fino allo scoppio delle Primavere Arabe. "Erdogan, a capo di un partito che è figlio dei Fratelli Musulmani - prosegue Ibrahim - ha capito che quello era il momento della Turchia: Ankara avrebbe potuto fare la differenza e diventare il nuovo leader in un Medio Oriente guidato dalla Fratellanza Musulmana. Per questo Erdogan si è subito lanciato contro il regime di Mubarak, quello di Ben Alì, quello di Gheddafi e infine contro il siriano Bashar al-Assad. Compiendo un errore strategico di grande portata: la Siria è stata fedele alleata della Turchia per decenni. I due Paesi intessevano ottimi rapporti politici, economici e militari. Fino alla decisione di Erdogan di abbandonare il vecchio amico Assad, nella convinzione che sarebbe presto caduto per fare spazio ad un governo nuovo, guidato - come in Tunisia e Egitto - dai Fratelli Musulmani".

Ma a due anni dall'inizio della guerra civile siriana, il governo di Damasco non cade e, mentre i gruppi di opposizione islamici tradizionali (tra cui gli stessi Fratelli Musulmani) perdono terreno, avanzano le milizie di Al Qaeda. "Erdogan è entrato in crisi, la sua strategia è entrata in crisi anche a causa del malcontento interno: il popolo turco è tradizionalmente e storicamente vicino a quello siriano e nessuno ha compreso la necessità di abbandonare Damasco. In particolare l'esercito, potere forte e radicato in Turchia, sta duramente criticando Erdogan: per favorire interessi di partito (ovvero diventare il punto di riferimento di tutti i partiti di governo dei Fratelli Musulmani), ha sacrificato gli interessi politici ed economici della Turchia".

"In tale contesto va letto il riavvicinamento a Israele - conclude Ibrahim - La Turchia si è isolata, è ormai circondata da Stati antagonisti. La Siria, l'Iran, l'Iraq. Ad Erdogan restano la NATO, l'Europa e gli Stati Uniti, ovvero i più stretti alleati di Israele. Se Ankara vuole garantirsi l'appoggio occidentale e i missili Patriot dell'Alleanza Atlantica, ha bisogno di rinnovare i rapporti con Tel Aviv".

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