Come nelle attese, un po' più che nelle attese. Alle 22 di ieri sera
aveva votato il 7,38 di elettori in meno rispetto a cinque anni fa.
Sono tanti, ma non è una notizia che possa essere interpretata -
come si faceva un tempo nella sinistra radicale, e qualche ingenuo
continua ancora a fare - come un segnale di "astensionismo", appunto,
"rivoluzionario". Vediamo perché.
Gli osservatori "scientifici" dei flussi elettorali mettono in evidenza almeno tre fattori.
Il
"generale inverno" - per la prima volta si vota sotto la neve - ha
sconsigliato molti dal recarsi alle urne. Specie i più anziani.
Questi
ultimi sono un numero crescente, in proporzione alla popolazione
complessiva, e hanno difficoltà "logistiche" anche col bel tempo,
figuriamoci in condizioni come quelle di questi giorni (discorso che
potrebbe valere più per il Nord che per il Sud, dove pure è piovuto
molto, ma i trend di non votanti sono esattamente opposti: è nel
Mezzogiorno che il crollo dei votanti è stato più ampio). Segnaliamo en passant
il fatto che i commentatori elettorali si mostrano comprensivi per le
difficoltà degli "anziani" quando devono andare a votare, mentre non ne
mostrano affatto quando devono andare a lavorare (con l'età pensionabile
a 67 anni, c'è un sacco di gente che ogni giorno deve uscire - con
qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione - per andare a fare lavori di
tutti i generi, anche quelli più faticosi e usuranti. Ci deve essere un commutatore, nella testa dei commentatori, per cui quando si parla di
lavoro salariato tutto è permesso [alle imprese]; mentre la "commozione
empatetica" scatta solo per le incombenze del tempo di non lavoro...).
Terzo.
La "disaffezione per la politica", o addirittura "il disprezzo per i
politici". Un senso comune che non ha ancora assunto le proporzioni di
una diserzione di massa dal voto solo perché c'è qualche soggetto che
canalizza la protesta, come Grillo (soprattutto) o Ingroia. Altrimenti
sarebbe il deserto dei tartari.
Bene. Ma siamo sicuri che ai
piani alti della decisione politica - la Ue, il Fondo monetario
Internazionale, la Bce - siano dispiaciuti o preoccupati per questo
fenomeno?
Il rifuggire di massa dalla partecipazione politica (così
come, tranne che quando l'azienda chiude, da quella sindacale) non
risulta affatto sgradito a un tipo di potere che non ha più soluzioni
"socialmente mediatorie" da offrire. Ai tempi del "compromesso
socialdemocratico" post bellico (welfare e salari accettabili in cambio
della pace sociale) la partecipazione popolare era un obiettivo
perseguito anche dalle classi dirigenti per il buon motivo che solo
nella "conflittualità regolata" (partiti politici e sindacati, appunto)
poteva essere trovata la garanzia contro possibili (e al tempo
esplicite) opzioni rivoluzionarie.
Chiuso quel tempo, "morte le
ideologie" e soprattutto esplosa la più grande crisi economica della
storia del capitalismo, non c'è più margine per politiche di mediazione
sociale. Si taglia il welfare, i salari, le garanzie contrattuali,
l'art. 18 e contemporaneamente si svuotano di appetibilità popolare sia i
partiti politici (con dimensioni di massa ne è rimasto in fondo
soltanto uno, il Pd) che i sindacati. Anche la "politica clientelare" -
per 60 anni pilastro del conservatorismo - ha improvvisamente perso
utilità e quindi risorse dedicate o dedicabili.
La "partecipazione"
adesso è vista come un fattore di rischio. Le politiche "da fare",
infatti, sono decise per via "tecnocratica", in sedi dove la prassi
democratico-parlamentare non è mai entrata (la Troika, chi l'ha eletta?)
e soprattutto non deve mai entrare. Ogni "mediazione" con interessi
sociali strutturati è un elemento di perturbazione dell' "ordine
tecnocratico" che non prevede ritardi o alternative alle "ricette"
prescritte (anche la metafora "medica", se ci pensate un attimo, è
piuttosto agghiacciante di suo).
In Italia, in fondo, ci si era
portati già avanti con il lavoro. Una legge elettorale per la Camera in
cui non si possono scegliere i candidati. Un'altra per il Senato che,
con meccanismo diversi, impedisce ogni scelta e anche - spesso - una
maggioranza qualsiasi (tranne quelle "imposte dall'Europa", come si è
visto di recente).
Su questo campionario di divieti, che rende la
cerimonia elettorale una ratifica di decisioni e selezione del personale
politico su cui "l'elettore" non ha alcun peso, è piombata anche la
giusta, ovvia ma non disinteressata orgia di ideologia "anti casta". In
cui "la politica" è stata ridotta ai "politici di mestiere". E questi
ultimi ai ladri di galline che infestano il Parlamento da quando - 1994,
alla fine di Tangentopoli - si aprirono le porte alle "società civile"
per sostituire un grumo di partiti senza più ragione sociale (caduto il
"Muro", contro chi mai dovevano combattere la battaglia del consenso
sociale?).
Ora è prevedibile che il Parlamento che uscirà dalle
urne stasera o domattina sarà ancor più delegittimato da una
partecipazione popolare ridotta; e affollato di "new entry" totalmente a
digiuno di procedure, legislazione, modalità di comportamento (in aula,
commissioni, ecc). Senza competenze e senza abitudini all'esercizio del
potere.
Pensate che le multinazionali o i gruppi di interesse che si
servono di lobby professionali possano non gradire uno spettacolo del
genere? Per loro sarà "carne fresca" da poter circuire a suon di
mazzette. E a prezzi addirittura più bassi...
Pensate che la Troika
farà più fatica di prima a mettere insieme una "maggioranza stabile"
incollando pezzi di coalizioni, singoli avventurieri, neofiti senz'arte
né parte?
Fonte
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