Orizzonte nero, nessuna luce in fondo al tunnel. Federmeccanica,
presentando la sua relazione trimestrale, non ha lasciato spazio a
intepretazioni ottimistiche, né sul recente passato né sull’immediato
futuro.
Oggi lo si capiva ancora prima che Roberto Santarelli, direttore generale dell’associazione delle imprese metalmeccaniche, e Angelo Megaro,
capo dell’Ufficio studi, cominciassero a snocciolare le cifre di una
crisi senza vie d’uscita. Non solo dai volti, non proprio gioviali.
Manca infatti il vicepresidente delegato a queste presentazioni, Roberto Maglione. Il quale è anche vicepresidente di Finmeccanica
– uno dei pochi scampati all’inchiesta giudiziaria che ha mandato in
carcere il presidente Orsi – impegnato perciò nella vasta
“riorganizzazione” del gruppo industriale controllato dallo Stato dopo
gli arresti al vertice e i contratti internazionali congelati (l’India,
in primo luogo).
Disavventure giudiziarie a parte, tutto il settore metallurgico
italiano sembra aver fatto un passo oltre il limite del baratro. La
recessione “tecnica” dura ormai da 18 mesi, con sei trimestri che hanno
inanellato un segno meno dopo l’altro, con l’unica eccezione dell’estate
di quest’anno, dove però – come spiega Megaro – “hanno avuto un ruolo i
criteri statistici di destagionalizzazione” che servono a compensare i
volumi di produzione con i giorni effettivamente lavorati.
Anche l’ultimo trimestre del 2012 si è così chiuso con un -2,2%
che va ad sommarsi ad altri dati negativi, riportando la meccanica
italiana al 30% di produzione in meno rispetto al gennaio del 2008, data
convenzionale di inizio della “grande crisi” finanziaria attuale.
Peggio di noi sta solo la Spagna, i cui volumi sono nello stesso periodo
calati del 40%. Il risultato finale dell’anno dà il senso pieno della
caduta realizzata nell’intero anno: -6,3%.
Ma il peggio non sembra affatto passato. Il futuro,
in questo mondo, non si misura solo dal fatturato, ma si scrutano con
ansia gli ordinativi, ovvero le commesse per almeno i prossimi sei
mesi. E qui la situazione è forse anche peggiore: il “portafoglio
ordini” segna infatti un arretramento ulteriore. E’ vero che si tratta di
dati “qualitativi” – ossia basati sulle risposte delle aziende, ma senza
quantificare dettagliatamente; in altri termini, il numero delle
imprese che denunciano ordini in calo è (molto) superiore a quello di
chi mantiene o svilupperà i livelli produttivi – ma è statisticamente
impossibile che poi i “quantitativi” diano un risultato molto diverso.
Se cala la produzione, cala anche l’occupazione. E
infatti le imprese dichiarano di essere pronte a programmare una
quantità di licenziamenti che potrebbe diventare valanga. Li hanno già
realizzati, in parte, ma il dato resta fin qui nascosto dal ricorso alla
cassa integrazione: 385, 6 milioni di ore. Quasi come nel 2011, certo.
Ma nella prima parte dell’anno il trend delle richieste di cig era
andato diminuendo, mentre nella seconda parte ha ripreso a salire. Non
solo. È cambiata anche la tipologia della cig: calo drastico per quelle
“straordinarie” e in deroga”, aumento vertiginoso (+55,3%) per quella
“ordinaria”. Tradotto: si vanno a chiudere (col licenziamento effettivo)
le vecchie situazioni di crisi aziendale e se ne stanno aprendo di
nuove.
Dalla dinamica import/export si comprende benissimo quanto sta
avvenendo nella struttura profonda delle imprese e della società
italiana. Chi produce soprattutto per il mercato interno sta scontando un autentico crollo della domanda,
mentre reggono meglio gli esportatori, che sono riusciti addirittura a
crescere del 2,7%. Migliora così, ma per il crollo della voce
importazioni (-14,4%), l’interscambio metalmeccanico con l’estero: quasi
61 miliardi, a consuntivo. Un record di cui però è difficile menar
vanto.
Anche perché, guardando ancora all’immediato futuro, anche il
principale partner verso cui indirizziamo la produzione nazionale – la
Germania – ha impattato pesantemente con la recessione nel quarto
trimestre 2012: un -4,5% che si è riflesso anche nelle esportazioni
verso Berlino (un calo dell’1,7%, ma nei confronti del paese che da solo
assorbe quasi un quarto delle esportazioni meccaniche italiane).
Altrettanto avviene con la Francia, che assorbe un altro 19,1% (in calo
del 3,1). Sembra essersi chiusa anche la “grande speranza asiatica”:
Cina e India hanno assorbito molto meno di prima (-19,1 e -15,4%,
rispettivamente). E non bastano a compensare, in prospettiva, i relativi
aumenti verso Usa, Gran Bretagna e Giappone, perché la connessione con
questi paesi è assai meno forte (si dice spesso che la meccanica
italiana è “contoterzista” di quella tedesca; se cala l’export in questa
direzione vuol dire che ci stanno in qualche modo sostituendo con altri
fornitori di “componentistica”).
Come se ne esce? Qui lo sguardo di Federmeccanica diventa davvero
sconsolato. Le formule rituali (“riforme strutturali”, “abbassare il
costo del lavoro”, “il peso della burocrazia”, ecc) si scontrano con la
domanda che ormai aleggia da tempo nell’aria: sono 30 anni che i governi fanno quello che le imprese chiedono,
e i risultati sono quelli tragici davanti agli occhi di tutti (la
“domanda interna” crolla quando si bastona su lavoro, salari e pensioni,
come si è visto).
Ma soprattutto per il fatto che gli altri paesi dell’eurozona – gli
altri governi – reagiscono alla crisi anche con strumenti diversi. La
Francia, nei giorni scorsi, ha avviato una sorta di “svalutazione
competitiva” – teoricamente impossibile, in zona euro – annunciando
l’abolizione dell’Iva e incentivi per le imprese che assumono. In Spagna
stanno pensando a qualcosa di simile, a breve termine. In Italia,
nonostante i governi Berlusconi e Monti, che le imprese hanno
sponsorizzato a morte, su questo fronte “competitivo” tutto è rimasto
fermo. “Rigore” e basta. Ma di solo “rigore” si muore. O, come ammette
anche Santarelli, “intervenendo sul solo costo del lavoro non si va da
nessuna parte”.
Da una parte si è andati, in effetti. Basta guardarsi attorno.
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