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25/02/2013

C’era una volta la meccanica italiana

Orizzonte nero, nessuna luce in fondo al tunnel. Federmeccanica, presentando la sua relazione trimestrale, non ha lasciato spazio a intepretazioni ottimistiche, né sul recente passato né sull’immediato futuro.

Oggi lo si capiva ancora prima che Roberto Santarelli, direttore generale dell’associazione delle imprese metalmeccaniche, e Angelo Megaro, capo dell’Ufficio studi, cominciassero a snocciolare le cifre di una crisi senza vie d’uscita. Non solo dai volti, non proprio gioviali. Manca infatti il vicepresidente delegato a queste presentazioni, Roberto Maglione. Il quale è anche vicepresidente di Finmeccanica – uno dei pochi scampati all’inchiesta giudiziaria che ha mandato in carcere il presidente Orsi – impegnato perciò nella vasta “riorganizzazione” del gruppo industriale controllato dallo Stato dopo gli arresti al vertice e i contratti internazionali congelati (l’India, in primo luogo).

Disavventure giudiziarie a parte, tutto il settore metallurgico italiano sembra aver fatto un passo oltre il limite del baratro. La recessione “tecnica” dura ormai da 18 mesi, con sei trimestri che hanno inanellato un segno meno dopo l’altro, con l’unica eccezione dell’estate di quest’anno, dove però – come spiega Megaro – “hanno avuto un ruolo i criteri statistici di destagionalizzazione” che servono a compensare i volumi di produzione con i giorni effettivamente lavorati.

Anche l’ultimo trimestre del 2012 si è così chiuso con un -2,2% che va ad sommarsi ad altri dati negativi, riportando la meccanica italiana al 30% di produzione in meno rispetto al gennaio del 2008, data convenzionale di inizio della “grande crisi” finanziaria attuale. Peggio di noi sta solo la Spagna, i cui volumi sono nello stesso periodo calati del 40%. Il risultato finale dell’anno dà il senso pieno della caduta realizzata nell’intero anno: -6,3%.

Ma il peggio non sembra affatto passato. Il futuro, in questo mondo, non si misura solo dal fatturato, ma si scrutano con ansia gli ordinativi, ovvero le commesse per almeno i prossimi sei mesi. E qui la situazione è forse anche peggiore: il “portafoglio ordini” segna infatti un arretramento ulteriore. E’ vero che si tratta di dati “qualitativi” – ossia basati sulle risposte delle aziende, ma senza quantificare dettagliatamente; in altri termini, il numero delle imprese che denunciano ordini in calo è (molto) superiore a quello di chi mantiene o svilupperà i livelli produttivi – ma è statisticamente impossibile che poi i “quantitativi” diano un risultato molto diverso.

Se cala la produzione, cala anche l’occupazione. E infatti le imprese dichiarano di essere pronte a programmare una quantità di licenziamenti che potrebbe diventare valanga. Li hanno già realizzati, in parte, ma il dato resta fin qui nascosto dal ricorso alla cassa integrazione: 385, 6 milioni di ore. Quasi come nel 2011, certo. Ma nella prima parte dell’anno il trend delle richieste di cig era andato diminuendo, mentre nella seconda parte ha ripreso a salire. Non solo. È cambiata anche la tipologia della cig: calo drastico per quelle “straordinarie” e in deroga”, aumento vertiginoso (+55,3%) per quella “ordinaria”. Tradotto: si vanno a chiudere (col licenziamento effettivo) le vecchie situazioni di crisi aziendale e se ne stanno aprendo di nuove.

Dalla dinamica import/export si comprende benissimo quanto sta avvenendo nella struttura profonda delle imprese e della società italiana. Chi produce soprattutto per il mercato interno sta scontando un autentico crollo della domanda, mentre reggono meglio gli esportatori, che sono riusciti addirittura a crescere del 2,7%. Migliora così, ma per il crollo della voce importazioni (-14,4%), l’interscambio metalmeccanico con l’estero: quasi 61 miliardi, a consuntivo. Un record di cui però è difficile menar vanto.

Anche perché, guardando ancora all’immediato futuro, anche il principale partner verso cui indirizziamo la produzione nazionale – la Germania – ha impattato pesantemente con la recessione nel quarto trimestre 2012: un -4,5% che si è riflesso anche nelle esportazioni verso Berlino (un calo dell’1,7%, ma nei confronti del paese che da solo assorbe quasi un quarto delle esportazioni meccaniche italiane). Altrettanto avviene con la Francia, che assorbe un altro 19,1% (in calo del 3,1). Sembra essersi chiusa anche la “grande speranza asiatica”: Cina e India hanno assorbito molto meno di prima (-19,1 e -15,4%, rispettivamente). E non bastano a compensare, in prospettiva, i relativi aumenti verso Usa, Gran Bretagna e Giappone, perché la connessione con questi paesi è assai meno forte (si dice spesso che la meccanica italiana è “contoterzista” di quella tedesca; se cala l’export in questa direzione vuol dire che ci stanno in qualche modo sostituendo con altri fornitori di “componentistica”).

Come se ne esce? Qui lo sguardo di Federmeccanica diventa davvero sconsolato. Le formule rituali (“riforme strutturali”, “abbassare il costo del lavoro”, “il peso della burocrazia”, ecc) si scontrano con la domanda che ormai aleggia da tempo nell’aria: sono 30 anni che i governi fanno quello che le imprese chiedono, e i risultati sono quelli tragici davanti agli occhi di tutti (la “domanda interna” crolla quando si bastona su lavoro, salari e pensioni, come si è visto).

Ma soprattutto per il fatto che gli altri paesi dell’eurozona – gli altri governi – reagiscono alla crisi anche con strumenti diversi. La Francia, nei giorni scorsi, ha avviato una sorta di “svalutazione competitiva” – teoricamente impossibile, in zona euro – annunciando l’abolizione dell’Iva e incentivi per le imprese che assumono. In Spagna stanno pensando a qualcosa di simile, a breve termine. In Italia, nonostante i governi Berlusconi e Monti, che le imprese hanno sponsorizzato a morte, su questo fronte “competitivo” tutto è rimasto fermo. “Rigore” e basta. Ma di solo “rigore” si muore. O, come ammette anche Santarelli, “intervenendo sul solo costo del lavoro non si va da nessuna parte”.

Da una parte si è andati, in effetti. Basta guardarsi attorno.

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