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03/02/2013

L’uomo, la rete e la minaccia cyber-utopista (prima parte)


Il telegrafo lega con un filo vitale tutti i paesi del Mondo. […] è impossibile che i vecchi pregiudizi e le ostilità esistano ancora, quando uno strumento simile è stato creato per lo scambio di idee fra tutti i paesi della Terra.

New Englander, 1858


“Vi basta un click! Dai un click e metteremo gente che ha la fedina penale pulita, gente che ha voglia di fare […] è una cosa fatta bene, è gente vera! è il popolo che deve andare a Montecitorio!”

Beppe Grillo su contattonews, 2012

Se c’è qualcosa in cui l’essere umano eccelle è il saper ripetere continuamente i propri errori. Negli ultimi tempi, tra il malcontento generale e una diffusa mancanza di aspettativa nei confronti dei movimenti, forse alimentata dalla comodità della poltrona, è emersa una fiducia smoderata nei confronti della Rete, Internet, considerata da tanti lo strumento con il quale e sul quale le masse possono finalmente organizzarsi per giungere ad un cambiamento sociale.

Nel 1993, il produttore televisivo Rupert Murdoch affermò che la TV satellitare rappresentava una forza incontrastabile per l’esportazione della democrazia nel Mondo, perché oltrepassando i confini territoriali poteva fornire ad ogni popolo le informazioni necessarie per acquisire una consapevolezza globale tale da permettere l’abbattimento di ogni dittatura. Una previsione che già all’epoca risultava risibile, visto quanto già allora la televisione fosse veicolo di messaggi sessisti, razzisti e di propaganda, ed è proprio partendo da questo esempio che possiamo trarre le prime argomentazioni per smontare la visione web-utopistica.

La visione ottimistica della Rete è fondata sul presupposto che Internet sia uno strumento tecnologico esclusivamente in mano alle forze democratiche della società, dimenticando il ruolo che svolge, come d’altronde ogni tecnologia, nell’intensificazione del controllo sociale e per il mantenimento dello status-quo. La Rete è semplicemente una rete, e la Rete è la rete degli individui che abitano questo pianeta, dalle casalinghe ai serial-killer. Così come ogni baldo giovine può effettivamente comunicare al Mondo intero le sue opinioni, così circolano in gran quantità messaggi inneggianti all’odio razziale e vengono ogni giorno aperte su Facebook pagine di gruppi neofascisti.

Per di più oltre a proseguire grazie a cookies e tracciamenti le pratiche di sorveglianza a cui siamo abituati, grazie al Web 2.0 e ai social network il controllo sociale è riuscito a creare profitto, grazie alla vendita di dati personali ad agenzie di marketing. Gli stessi social network che, per giunta, hanno realizzato come non mai il concetto di pluslavoro, riuscendo a guadagnare interamente sulla produzione immateriale dei propri utenti, veri creatori del prodotto finale.

Oltre che ridimensionare notevolmente l’immagine utopistica della Rete, è anche necessario comprendere meglio i meccanismi di causa e strumentalizzazione che vengono fatti di questa concezione.

Un tweet non fa primavera


Un caso di rilevanza internazionale che ha portato questi temi sulle prime pagine dei giornali è stata senza dubbio la rivolta iraniana, addirittura passata alla Storia come la “rivoluzione di Twitter”.

Nel giugno del 2009 migliaia di iraniani affollavano le strade di Teheran per contestare l’irregolare rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad. È a questo punto che Andrew Sullivan, giornalista della rivista americana “Atlantic”, propone per primo il ruolo che twitter avrebbe avuto nella vicenda. Nel post The revolution will be tweettered definisce twitter “lo strumento cruciale per l’organizzazione della resistenza in Iran”, a quanto pare basando la sua analisi esclusivamente sulla circolazione di tweets, senza verificare quanti di questi fossero stati inviati da iraniani residenti all’estero.

La teoria prende immediatamente piede, in parte sostenuta da editori di destra (Michelle Malkin definì twitter uno strumento rivoluzionario clandestino), in parte accresciuta dall’entusiasmo di tecnofili e esperti di telecomunicazioni, fino ad approdare su testate come Wall Street Journal e New York Times.

Chi sostiene il protagonismo di twitter nell’organizzazione delle rivolte arabe dimentica che questa teoria è nata e diffusa esclusivamente da fonti occidentali che non si sono preoccupate di analizzare i veri processi di strada e di piazza che hanno portato a questa mobilitazione, senza contare l’enorme influenza che hanno le multinazionali di Silicon Valley sull’agenda governativa statunitense.

Ad essere ancora più celato è il ruolo che Internet ha avuto successivamente, quando il governo iraniano, apprendendo dalla stampa estera le voci che circolavano in merito, ha creato un team di 12 specialisti incaricati di cercare sui social network foto di cybercriminali da pubblicare su siti governativi per far partire la caccia all’uomo.

Nel dicembre 2009 il sito pro-Ahmadinejad Raja News ha pubblicato più di un centinaio di foto che segnalavano volti cerchiati in rosso e hanno permesso di arrestare almeno 40 attivisti.

Più di un attivista ha inoltre smentito la teoria twitter-centrica (si vedano le testimonianze dei blogger Vahid Online e Alireza Rezai), mentre è sicuro che la tensione creatasi ha portato il governo ad una durissima politica di controllo dei mezzi di comunicazione, includendo la telefonia mobile.
Ma ormai era troppo tardi per fermare il tecno-entusiasmo, tanto che a fine 2009 il consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush, Mark Pfeifle, propone di candidare Twitter a Premio Nobel per la Pace, un po’ come proporre la piazza del mercato per il Premio Nobel per l’Economia.

 

Rete libera tutti!


Caso vuole che proprio nel 2009 era già arrivata una proposta simile, quando Wired Italia, lanciando il progetto “Internet for Peace”, aveva candidato ufficialmente il Web al Premio tanto agognato. 
L’ iniziativa viene sostenuta da molti, tra cui il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi, il Professor Umberto Veronesi, lo stilista Giorgio Armani, e le redazioni di Wired USA e Wired Uk.
Alla presentazione del progetto il direttore Riccardo Luna ha così commentato l’iniziativa:
Dobbiamo guardare ad Internet come ad una grande community in cui uomini e donne di tutte le nazionalità e di qualsiasi religione riescono a comunicare, a solidarizzare e a diffondere, contro ogni barriera, una nuova cultura di collaborazione e condivisione della conoscenza. Internet può essere considerato per questo la prima arma di costruzione di massa, in grado di abbattere l’odio e il conflitto per propagare la democrazia e la pace.
È interessante come in questo discorso a dir poco spaesante si ritrovino gran parte delle fallacie che caratterizzano la visione distorta della Rete.

Come già sottolineato in precedenza, Internet appare come un mezzo in mano a “tutti”, o meglio in mano a tutti coloro che vogliono “solidarizzare, diffondere cultura e conoscenza”, mentre ogni altro utilizzo viene furbamente eclissato. Ma è la conoscenza che gioca un ruolo fondamentale nella costruzione dell’argomento.

Come in tanti, tantissimi casi storici precedenti ad Internet siamo davanti alla convinzione che l’unico ostacolo che impedisce la liberazione dei popoli dalla tirannia sia la mancanza di informazione, come se il motivo per cui le masse non si mobilitano, per cui non si attivano processi collettivi costituenti, sia esclusivamente la mancata consapevolezza di ognuno di noi di ciò che accade nel resto del Mondo, e nel momento in cui ognuno è a conoscenza dello sfruttamento minorile del Pakistan ecco che, come per magia, le piazze si riempiono di manifestanti incalliti.

È il mito della trasparenza assoluta, che tralascia ogni analisi sociale, dimentica i rapporti di forza che determinano i processi, ma nel quale le uniche parti contrapposte che vengono evidenziate sono “l’odio e il conflitto” contro “la democrazia e la pace”. Altro che classi, conflitto di interessi e strati sociali, niente di tutto ciò, solo una fiabesca visione di “bene” contro “male”.

La mancanza di parti in gioco si traduce in prima istanza nella mancanza della necessità di uno scontro, e la “rivoluzione” appare come un processo indolore, automatico e umanitario, nel quale è sufficiente abbandonarsi al potere della tecnologia, che dotata di forza autonoma conduce i popoli verso la Terra Promessa dai grandi player dell’information technology.

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