La
sentenza della Corte d’Appello sull’abbattimento nel cielo di Ustica
del DC-9 dell’Itavia è uno dei pochi atti di giustizia che la vicenda
in sé possa esibire. Si condanna lo Stato italiano a risarcire le
famiglie delle vittime, perché la negligenza e l’incapacità di
monitorare e difendere adeguatamente lo spazio aereo e l’incolumità dei
cittadini viene giustamente considerata mancanza grave di cui dover
rispondere.
Ma la sentenza non si
limita solo a definire le responsabilità dei vertici militari, perché
assume in toto la tesi sostenuta a suo tempo dal giudice Priore e dai
familiari delle vittime che hanno sempre sostenuto come il DC9 fu
colpito da un missile. E riconoscere che sia stato un missile lanciato
da un aereo militare ad abbattere il DC9 e non una bomba a bordo, come
per decenni hanno tentato di spacciare per depistare e disinformare i
vertici militari e politici, significa ammettere che vi fu un atto di
guerra nei cieli italiani. Non fu infatti lanciato per errore il
missile che abbatté l’aereo uccidendo 81 persone, tra cui 11 bambini,
tra passeggeri ed equipaggio.
Quella
maledetta sera del 27 Giugno del 1980, l’aereo che copriva la rotta
Bologna-Palermo, partì con due ore di ritardo rispetto all’orario
schedulato. Venne seguito nella parte finale del suo volo dai radar di
Ciampino e Licola fino a quando scomparve, intorno alle 20,00, mentre
era in discesa per atterrare all’aeroporto palermitano di Punta Raisi.
Non vi arrivò mai causa coinvolgimento in un combattimento aereo. Ci
sono state diverse versioni sull’accaduto, ma quelle fornita dal
presidente Cossiga è certamente la più veritiera, peraltro
corrispondente a quella fornita dagli stessi libici pur se mai in forma
aperta.
Il DC9 dell’Itavia non era,
ovviamente, un obiettivo per nessuno, solo si trovò sulla linea di
fuoco del combattimento aereo. Tra chi? Tra due Mirage francesi, (la
portaerei Clemenceau era di stanza nel Mediterraneo) e due dei Mig
libici di scorta all’aereo presidenziale di Muammar Gheddafi, che
sorvolava in direzione opposta la stessa tratta per recarsi a Belgrado
in occasione di un vertice dei Paesi Non Allineati (NOAL). L’obiettivo,
appunto, era Gheddafi.
I killer
designati dalla Nato, per l’occasione, erano i Mirage francesi con
l’appoggio degli americani. L’operazione, che era un obiettivo primario
degli Usa (ci riprovarono bombardando Tripoli e la casa di Gheddafi nel
1986) venne condivisa con la Francia. Parigi d’altra parte non era
certo ritrosa ad occuparsi del problema, visto lo scontro con la Libia
in Africa, dove era ormai palese l'incremento del ruolo di Tripoli,
particolarmente in Ciad.
I servizi di
sicurezza libici vennero avvertiti all’ultimo momento (presumibilmente
dai russi, gli stessi che li avvisarono dell’attacco su Tripoli nel
1986 e diedero di nuovo il tempo di mettere in salvo Gheddafi) di ciò
che attendeva il loro leader sull’Adriatico. I libici invertirono così
immediatamente verso Malta la rotta dell’aereo presidenziale con
Gheddafi a bordo e mandarono due dei quattro Mig di scorta ad impegnare
i Mirage per evitare che inseguissero l’aereo con il leader libico.
Uno dei due Mig libici venne ritrovato sulla Sila, abbattuto nello
scontro con i francesi, l’altro, presumibilmente, si trova nei fondali
dello Jonio.
Il
DC9 dell’Itavia è stato quindi vittima di un’azione di guerra
destinata all’eliminazione fisica di un Capo di Stato straniero. La
domanda di fondo è sostanzialmente una: l’Italia, intesa come sua
intelligence e vertice politico-militare, era al corrente di quanto era
in programma? Oppure venne tenuta all’oscuro per evitare che i ben
noti buoni rapporti di Roma con la Libia potessero determinare un
sabotaggio del piano criminale?
A
sostegno della prima ipotesi c’è il modello operativo consueto della
Nato, che prevede sempre il coinvolgimento attivo del suo paese-membro
di maggiore prossimità territoriale nelle operazioni. Difficile dunque
che la Nato potesse pensare ad un’azione di guerra nelle nostre acque
territoriali senza consultarci. Difficile, ma non impossibile.
A
sostegno della seconda ipotesi c’è invece la storia di relazioni
positive tra l’Italia e buona parte del Medio Oriente (libici e
palestinesi in particolare) che in diverse occasioni ha garantito gli
interessi italiani, non senza irritare profondamente l’asse
Washington-Tel Aviv. Dal caso Mattei alla vicenda di Argo 16, l’aereo
dei servizi segreti italiani esploso sul cielo di Marghera nel 1973
(vendetta degli israeliani in risposta alla liberazione dei palestinesi
accusati di voler programmare un attentato a Roma contro la compagnia
israeliana El Al) sono numerosi gli avvenimenti che hanno
caratterizzato la differenza tra Italia e USA nella politica
verso il Medio Oriente.
Nell'ambito
di questo scontro ci furono i reciproci atti di sfida sulla gestione
dei detenuti palestinesi tra Stati Uniti, Israele. Il più eclatante si
registrò a Sigonella, dove il governo Craxi-Andreotti schierò i VAM
dell’aereonautica militare contro la Delta Force statunitense che
pensava di togliere con la forza dalle mani del governo italiano Abu
Abbas, capo del commando che sequestrò l’Achille Lauro dove venne
ucciso il cittadino americano Leo Klingoffer. Lo scontro tra Roma e
Washington divenne una dimostrazione eclatante di come le strategie
occidentali raramente coincidevano con quelle italiane nell'area,
quando l'Italia era un paese.
C’è
comunque ad avviso di molti una parte di entrambe le ipotesi in quanto
avvenne in quelle ore. I vertici politici del governo italiano furono
probabilmente ignorati nella costruzione dell’attentato. Probabilmente
si ritenne che informare gli italiani avrebbe potuto mettere a rischio
la riuscita dell’operazione, dal momento che Roma non aveva nessun
interesse nella fine del regime.
Non
solo con Gheddafi i rapporti erano improntati alla reciproca
convenienza, ma l’incertezza che sarebbe seguita alla sua uccisione
avrebbe messo fortemente a rischio il rapporto privilegiato tra Eni e
aziende italiane con la Libia.
Dunque
Parigi e Washington decisero con tutta probabilità di non ingaggiare
il governo italiano nell’operazione. A conforto ulteriore di un’ipotesi
di estraneità delle autorità politiche italiane nella specifica
vicenda del DC9 Itavia, c’è poi da dire che difficilmente le autorità
italiane avrebbero scelto le rotte civili dello spazio aereo nazionale
per un’operazione che poteva essere realizzata in qualunque altro
luogo e momento.
Ma questo non
esclude affatto la responsabilità dei vertici militari italiani nella
gestione delle indagini successive a quanto accaduto nel cielo di
Ustica. Responsabilità attiva al momento non provata ma certamente non
esclusa. Ci si riferisce, ovviamente, allo sbarramento offerto ad ogni
tentativo di ricerca della verità.
La
clausola della “doppia obbedienza” (al governo e alla Nato), infatti,
può benissimo aver determinato un ruolo attivo della nostra
aereonautica militare nell’insabbiamento delle responsabilità
nell’operazione, attraverso il “muro di gomma” alzato negli anni
successivi. Un muro fatto di bugie, depistaggi e dimenticanze strane che
ha visto alcuni generali impegnati a fondo nell’ignominia
dell’occultamento della verità ai propri vertici politici e alla
nazione.
Nell’abbattimento dell’aereo
dell’Itavia sono numerosi i tasselli del mosaico che ha caratterizzato
in negativo la storia del nostro paese.
La
servitù militare nei confronti della Nato, l’uso della forza da parte
dei nostri alleati contro il ruolo dell’Italia in Medio Oriente, la
doppia obbedienza dei nostri vertici militari e l’opera di depistaggio e
disinformazione operata dai nostri servizi segreti civili e militari
sono stati elementi decisivi. La rinuncia ad ogni elemento di sovranità
nazionale e la gelosa custodia del segreto che si vorrebbe di Stato ma
che in realtà riguarda spesso le attività dei settori deviati della
nostra sicurezza nazionale e la copertura delle azioni d’intelligence
occidentale con le connivenze italiane, sono alcuni dei tasselli del
puzzle italiano, che da Mattei fino a Calipari raccontano la verità
nascosta di un'alleanza a senso unico.
La
sentenza arriva 33 anni dopo i fatti e spazza via d’un colpo
trent'anni di menzogne raccontate da militari felloni e traditori.
Spazza via anche le vergognose scelte dello Stato che schierò la sua
avocatura per difenderli, salvo poi scoprire trattarsi di funzionari
infedeli.
Per Daria Bonfietti,
instancabile presidente dell’associazione dei familiari delle vittime
di Ustica, il governo italiano deve agire coerentemente: qualcuno
sapeva e ha taciuto, qualcuno ha negato, qualcuno ha intralciato. Ha
pienamente ragione: ora bisogna arrivare alla verità. Perché serve la
verità storica, e non solo politica, sull’accaduto.
Ma
perché questo sia possibile, è necessario che il prossimo governo
italiano ponga con fermezza inderogabile sul tavolo della Nato e su
quello del Quay D’Orsay la questione Ustica. L’Italia dispone dei mezzi
necessari per ottenere la verità; conosce le leve da azionare per
sollecitarla ed è in grado di determinare con esattezza la differenza
che separa l’alleanza dal fuoco amico. Se solo vuole farlo. Se non ha
paura di sentir dire quello che è successo la notte del 27 Giugno del
1980 e di voler smascherare le coperture utilizzate negli anni a venire
per nascondere la verità.
Fabrizio Casari tratto da http://www.altrenotizie.org 30 gennaio 2013
vedi anche
Ustica: Usa, Francia o Israele?
I costi di un'alleanza
Fonte
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