Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
Visualizzazione post con etichetta Carburanti. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Carburanti. Mostra tutti i post

19/09/2024

Chi vende petrolio e carburante ad Israele?

Nel febbraio 2024, Oil Change International (OCI) ha commissionato a Data Desk una panoramica delle catene di approvvigionamento che portano petrolio greggio e prodotti petroliferi raffinati in Israele, concentrandosi sulla fornitura di carburante alle forze armate del paese. Questa ricerca è stata pubblicata nel marzo 2024 [vedi I paesi e le imprese dietro le catene di approvvigionamento israeliane di petrolio greggio e carburante].

Alla luce dell’invasione israeliana di Gaza e delle sentenze della Corte internazionale di giustizia (ICJ) sulla possibilità che le azioni di Israele abbiano violato i termini della Convenzione sul genocidio e siano illegali, L’OCI ha incaricato Data Desk di fornire un aggiornamento dei dati sulle importazioni di carburante da parte di Israele per il periodo marzo-luglio 2024.

Questa nuova analisi incorpora anche ulteriori ricerche sulle forniture di carburante per jet militari da parte degli Stati Uniti pubblicate dal Center for Research on Multinational Corporations (SOMO) con sede nei Paesi Bassi nel maggio 2024. Il presente briefing, in questo modo, copre le spedizioni di carburante in Israele arrivate durante i nove mesi dal 21 ottobre 2023 al 12 luglio 2024. Alcuni paesi hanno già preso provvedimenti in merito alle spedizioni di carburante a causa della crisi di Gaza.

Nel giugno 2024, la Colombia ha stabilito un forte precedente e ha emesso un embargo sulle esportazioni di carbone verso Israele fino a quando la sentenza della CPI non sia stata confermata. Fino all’embargo, oltre il 50% delle importazioni di carbone israeliano proveniva dalla Colombia. Resta da vedere se altri paesi seguiranno l’esempio di Bogotà.

Principali risultati

• Abbiamo tracciato un totale di 65 spedizioni di petrolio greggio e di prodotti petroliferi raffinati che sono state consegnate a Israele dal 21 ottobre 2023 al 12 luglio 2024. 35 di queste, il 54%, ha lasciato il porto d’origine dopo che la Corte internazionale di giustizia (ICJ) ha stabilito che il popolo palestinese ha dei diritti plausibili ai sensi della convenzione sul genocidio.

• Responsabilità societaria: le società petrolifere private e di proprietà degli investitori sono complici nel facilitare l’approvvigionamento di petrolio greggio a Israele attraverso le loro operazioni e proprietà. Queste società forniscono collettivamente il 66% del petrolio ad Israele. Le principali compagnie petrolifere internazionali, tra cui BP, Chevron, Eni, ExxonMobil, Shell e TotalEnergies, possono essere associate al 35% del petrolio greggio fornito da ottobre ad Israele. Queste società, così come entità di proprietà statali ed altri produttori di petrolio privati e quotati in borsa, fanno profitti dalla fornitura di petrolio alle raffinerie israeliane, dove una parte è probabilmente raffinata in combustibili per la macchina da guerra di Israele.

• Aiuti militari degli USA: gli Stati Uniti continuano ad essere un fornitore chiave di carburante per aerei JP8, utilizzato principalmente per i jet militari, e di altri combustibili raffinati.

• Azerbaigian e Kazakistan: questi due paesi rimangono i principali fornitori, procurando in questo periodo ad Israele la metà di tutto il petrolio greggio. L’Azerbaigian ha fornito il 28%, mentre il Kazakistan ne ha fornito il 22%. Tutto il greggio azero è fornito tramite l’oleodotto BTC (Baku-Tbilisi-Ceyhan), di proprietà e gestione maggioritaria della BP. Questo greggio viene caricato su navi cisterna nel porto di Ceyhan in Turchia per essere consegnato a Israele.

• Fornitori dell’Africa centrale e occidentale: i paesi africani hanno fornito il 37%, con il 22% proveniente dal Gabon. Nigeria e Congo-Brazzaville hanno fornito rispettivamente il 9% e il 6%.

• Brasile: il petrolio greggio brasiliano ha costituito il 9% dell’offerta dall’inizio della guerra. Il Brasile ha anche inviato una petroliera a Israele che è arrivata in aprile. In quanto importante fornitore di petrolio a Israele, il presidente brasiliano Lula, che ha criticato molto le azioni di Israele, ha l’opportunità di contribuire a portare a termine un cessate il fuoco perseguendo un embargo petrolifero.

• Relazioni mediterranee ed europee: l’Italia, la Grecia e l’Albania si sono aggiunte alla lista dei paesi che forniscono carburante a Israele. Nonostante sia un importante importatore di petrolio, l’Italia ha inviato una nave cisterna del suo greggio e una di nafta. La Grecia ha spedito gasolio in Israele nel mese di giugno, mentre Cipro ha fornito servizi di trasbordo alle petroliere che forniscono greggio dal Gabon, dalla Nigeria e dal Kazakistan.

• Prodotti raffinati russi: Israele ha ricevuto sette spedizioni di prodotti raffinati russi dal dicembre 2023. Si tratta per lo più di vacuum gas oil (VGO) utilizzato per aumentare la resa di benzina e diesel nelle raffinerie.


Coinvolgimento di paesi e imprese

Petrolio greggio

Abbiamo monitorato 46 spedizioni di petrolio greggio dal 21 ottobre 2023 al 12 luglio 2024. Il volume totale di petrolio greggio è stato di 4,1 milioni di tonnellate, di cui 1,9 milioni di tonnellate, o 46%, sono state fornite dopo la sentenza della CIJ. Come detto sopra, sette paesi sono noti per aver fornito a Israele petrolio grezzo dall’inizio della guerra. L’Azerbaigian e il Kazakistan hanno fornito il 50%. Due spedizioni per un totale di 125.000 tonnellate, o 3%, sono elencate con origine sconosciuta. Uno di questi è stato caricato in Egitto e potrebbe essere il petrolio greggio fornito dal gasdotto SUMED, che attraversa l’Egitto, portando petrolio dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti.

Collegare le aziende al petrolio greggio israeliano

Le compagnie petrolifere internazionali (IOC) detengono quote significative nella produzione di petrolio in molti paesi che riforniscono Israele. Ad esempio, in Azerbaigian e nel Kazakistan, da dove proviene il 50% del petrolio greggio, le IOC sono partner leader sia nella produzione di petrolio che negli oleodotti che trasportano il petrolio nei porti da cui viene spedito.

Nella seguente analisi, utilizziamo due serie di dati per attribuire alle singole imprese il petrolio greggio importato in Israele dall’inizio della guerra, concentrandoci sulle sei principali compagnie. In primo luogo, i dati di spedizione commissionati da Oil Change International e compilati da Data Desk forniscono il paese d’origine del petrolio e la qualità del greggio. In secondo luogo, il database di Rystad Energy fornisce dati sulla proprietà delle società della produzione petrolifera nei giacimenti e sui paesi identificati nei dati sulle spedizioni.



Laddove siamo stati in grado di identificare specifici giacimenti petroliferi collegati alle classificazioni del petrolio greggio elencate nei dati di spedizione, come nel caso del petrolio greggio azero, kazako e italiano, abbiamo utilizzato la quota di produzione delle compagnie in tali giacimenti. Altrove, per il Brasile, il Congo-Brazzaville, il Gabon e la Nigeria, abbiamo utilizzato la quota di produzione totale delle imprese in questi paesi. Abbiamo quindi diviso la quota di produzione di ciascuna società di ciascun paese (oppure i specifici giacimenti petroliferi identificati in alcuni paesi) per la quantità di petrolio importata da Israele da tali fonti. Ciò si traduce nella seguente ripartizione per le sei principali compagnie petrolifere.

Azerbaigian

L’Azerbaigian è il più grande fornitore con il 28% del totale del petrolio greggio spedito nel periodo considerato.
Il petrolio azero è spedito attraverso l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), gestito e al 30% di proprietà della BP. Secondo la BP, l’oleodotto BTC è prevalentemente alimentato dai giacimenti petroliferi Azeri-Chirag-Guneshli Deepwater oltre che da condensato (miscelato con il petrolio greggio) del giacimento di Shah Deniz. La proprietà del petrolio e del condensato prodotti in questi giacimenti è indicata nella tabella 2. Attribuiamo quindi il 30% del petrolio azero importato da Israele alla BP e il 5% alla Exxon.


Kazakistan

Il Kazakistan è la fonte del 22% del petrolio importato da Israele. Il petrolio kazako è fornito dalla Caspian Pipeline (CPC), una joint venture parzialmente posseduta da Chevron, Eni, Shell, Exxon e altri. Il CPC trasporta greggio kazako e russo, ma le spedizioni verso Israele sono tutte elencate come originarie del Kazakhstan. Il petrolio kazako fornito dal gasdotto CPC proviene prevalentemente dai giacimenti di Tengiz, Kashaghan e Karachaganak nel Mar Caspio e sulle sue rive. La proprietà di questa produzione è indicata nella tabella 3. Attribuiamo quindi il petrolio kazako importato da Israele a queste società in base a queste quote.

Italia

Una spedizione di 30.000 tonnellate di greggio italiano è stata importata da Israele, pari all’1% del totale. È stata elencata con la classificazione di petrolio greggio Val D’Agri, provenienti dal progetto petrolifero Val D’Agri situato in [Basilicata]. Il progetto è una joint venture tra Eni (61%) e Shell (39%).

Altri paesi

Il restante 46% dell’approvvigionamento di petrolio greggio proviene dal Gabon, dalla Nigeria, dal Brasile, dal Congo-Brazzaville, mentre non è certa l’origine del 3% rimasto. Un’analisi della proprietà delle compagnie dell’intera produzione petrolifera in questi paesi ha completato la nostra ricerca, che porta alle cifre indicate nella tabella 1 e ad altre analisi di altre società discusse qui di seguito.

Corporate “Responsibility”

Le principali compagnie petrolifere potrebbero aver fornito collettivamente il 35% del petrolio greggio di Israele in questo periodo. Altre società petrolifere private e di proprietà degli investitori sono responsabili di un altro 30%, mentre le società statali hanno probabilmente prodotto il 34%. Tutto questo viene mostrato nel grafico di figura 2, insieme alla ripartizione delle compagnie petrolifere. Chevron e BP si dividono il primo posto, con l’8% del l’offerta. Ciò è dovuto al fatto che esse detengono rispettivamente la maggior parte della produzione di petrolio kazaka e azera.

Secondo la dottoressa Irene Pietropaoli, Senior Fellow in Business e Diritti Umani presso lo Human Rights at the British Institute of International and Comparative Law, “Le società e i loro dirigenti, direttori ed altri leader potrebbero essere ritenuti direttamente responsabili per la commissione di atti di genocidio, nonché crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’articolo VI della Convenzione sul genocidio specifica che le ‘persone’ possono essere ritenute responsabili per atti di genocidio – che includono singoli uomini d’affari o dirigenti aziendali come persone fisiche e possono includere le società come persone giuridiche.”

La dottoressa Pietrapaoli ci ha anche detto in una dichiarazione via e-mail che “Indipendentemente dalla regolamentazione dello Stato di origine, le società che vendono petrolio e carburante e altre forniture militari al governo di Israele hanno una propria responsabilità nel rispetto dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale e del diritto penale internazionale, come riconosciuto nei principi guida delle Nazioni Unite sulle imprese e i diritti umani ‘oltre il rispetto delle leggi e dei regolamenti nazionali’. Le società che forniscono carburante e petrolio per i jet a Israele possono fornire un supporto materiale ai militari, consapevoli dei suoi prevedibili effetti dannosi, e quindi rischiano la complicità in crimini di guerra, genocidio e altri crimini secondo il diritto internazionale”.

Carburante per aerei e altri prodotti petroliferi raffinati

Abbiamo tracciato 19 spedizioni di prodotti petroliferi raffinati consegnati in Israele dal 21 ottobre 2023 al 6 luglio 2024. 15 di questi, pari al 79% del totale, hanno lasciato il porto d’origine dopo la sentenza della CIJ. Il volume totale spedito è stato di 687.000 tonnellate, di cui il 79% dopo la sentenza della CIJ. I più grandi spedizionieri sono stati gli Stati Uniti, che hanno inviato quasi 250.000 tonnellate di prodotti nel periodo considerato. Gran parte era carburante per i jet JP-8 utilizzato principalmente in jet militari. Un’altra spedizione che non è stata conteggiata nei nostri dati è stata consegnati ad Israele mentre questo rapporto era in fase di stesura. Gli USA hanno fornito il 36% dei prodotti raffinati, mentre la Russia ha fornito un altro 28%. Le spedizioni non americane erano costituite da una mix di olio combustibile, gasolio e diesel, vacuum gasoil e nafta. Gli altri paesi che hanno inviato prodotti raffinati sono il Brasile, l’Albania, la Grecia e l’Italia.

Aiuti militari degli USA

Israele ha ricevuto tre cisterne di JP-8 Jet Fuel (specificamente formulato per i jet militari) dagli USA dall’inizio della guerra. Una nave cisterna ha lasciato gli USA prima dell’inizio della guerra, mentre due sono state inviate in seguito. Tutte avevano origine dalla raffineria Bill Greehey della Valero a Corpus Christi, in Texas. All’inizio di agosto 2024, l’Overseai Santorini, registrata negli Stati Uniti, una delle principali navi cisterna coinvolte nella fornitura di carburante per jet degli Stati Uniti, è stata ormeggiata in Israele per quella che si ritiene essere un’altra spedizione di JP-8. Gli assicuratori della nave cisterna, la UK Mutual Steam Ship Assurance Association e la Lloyds Slip via Wills, Towers Watson, hanno sede nel Regno Unito. Gli Stati Uniti hanno fornito anche due spedizioni di prodotti raffinati non specificati e una spedizione di diesel e gasolio, anch’essi provenienti da Corpus Christi.

I paesi del Mediterraneo

Il ruolo dei vicini mediterranei di Israele è sempre più sotto esame. A giugno una consegna di nafta è arrivata in Israele dall’Italia, e il mese successivo una piccola spedizione di petrolio greggio. La Grecia ha anche spedito una nave cisterna di gasolio.

Turchia, Cipro e Grecia sono anche centrali per fornire servizi di trasbordo a Israele. Il porto di Ceyhan in Turchia è il capolinea del gasdotto BTC ed è elencato come paese di carico per il 26% delle spedizioni in volume. Cipro è il paese di carico per il 21%, mentre la Grecia ha caricato il 5%. Questi tre paesi sono quindi responsabili della gestione di oltre il 50% dei volumi di petrolio greggio e prodotti raffinati nei nove mesi considerati. Infine, l’analisi di Data Desk mostra che delle 37 navi cisterna identificate come merci in transito verso Israele, il 41% batteva bandiera maltese e il 22% greca.

Il parere legale pubblicato dalla dottoressa Pietropaoli sugli obblighi degli Stati terzi e delle società di prevenire e punire il genocidio a Gaza delinea la responsabilità degli Stati e solleva la questione se il ruolo di questi Stati nella fornitura di combustibile da parte di Israele violi tali obblighi. La dottoressa Pietrapaoli ci ha dichiarato in una comunicazione inviata via e-mail che “L’obbligo degli Stati di conformarsi all’Ordine provvisorio della Corte deriva direttamente dall’articolo I della Convenzione sul genocidio, che richiede l’impegno di ‘prevenire e punire il genocidio’. L’ordine della Corte internazionale di giustizia, che ha stabilito ‘un rischio reale e imminente di pregiudizio irreparabile ai diritti giudicati plausibili dalla Corte’ significa che gli Stati sono ora consapevoli del rischio di genocidio a Gaza. Gli Stati devono considerare che la loro assistenza militare o di altro tipo alle operazioni militari israeliane a Gaza può metterli a rischio di complicità nel genocidio ai sensi della Convenzione sul genocidio”.

Tratto da Oil Change International.

Traduzione di Ecor.Network. Le informazioni sulle fonti dei dati e sull’analisi completa della catena di approvvigionamento condotta dal Data Desk sono disponibili qui.

Oil Change International è un’organizzazione di ricerca, comunicazione e advocacy focalizzata sull’esposizione dei costi reali dei combustibili fossili e sul facilitare la transizione in corso verso l’energia pulita.

Dati compilati dal Data Desk, su commissione di Oil Change International.

Fonte

09/02/2024

La UE cede su pesticidi e tutela del suolo (ma non sui carburanti)

Le proteste degli agricoltori non si fermano in tutta Europa e anche in Italia cresce la mobilitazione, con i trattori che da San Remo alla capitale minacciano di bloccare il Paese.

Le ragioni di questa protesta sono diverse, in buona parte oggettive e in parte frutto di strumentalizzazioni politiche. Accanto a richieste del tutto legittime e giustificate albergano infatti rivendicazioni prive di senso e contenuto; e sono proprio queste ultime, purtroppo, quelle sostenute dal governo e dalle forze politiche della maggioranza.

Di fatto, quello che sta emergendo sempre più chiaramente è la “calata di pantaloni” da parte della Commissione europea, che dopo anni di proclami su Green New Deal e Europa a zero emissioni, si trova ora nell’impossibilità di sostenere scelte fatte con poca o nessuna cognizione di causa.

E, come spesso accade, la Commissione concede in tutta fretta le deroghe sugli obiettivi ecologici (che costano peraltro poco in termini macroeconomici), ma non molla sui processi di liberalizzazione dei mercati, né sul contrasto all’inflazione o i prezzi del carburante (operazioni decisamente più costose).

Tra le rivendicazioni portate in piazza, la questione dei sussidi troppo bassi concessi a fronte di impegni ambientali troppo onerosi per la maggior parte delle piccole e medie imprese agricole, è una delle battaglie peggio spiegate e meno comprese.

La nuova PAC, entrata in vigore l’anno scorso, ha reso infatti obbligatorie alcune misure ambientali (le cosiddette “buone pratiche agronomiche”, un tempo a carattere volontario).

Il problema è che ciò che viene richiesto è un cambio per certi versi radicale, che non può essere reso obbligatorio su scala così vasta e in tempi così brevi, ma soprattutto senza un adeguato sostegno.

Se non fosse che la coperta è improvvisamente diventata molto corta per le migliori piccole e medie imprese agricole, il tutto potrebbe essere forse sostenibile. Ma con i “se” non si fa la storia, né si porta in tavola il pane.

Altra questione è legata al costo del carburante, risorsa essenziale in un sistema di agricoltura meccanizzata. A fronte dell’inflazione galoppante – soprattutto dopo un anno in cui grazie alla guerra in Ucraina e all’embargo sulle esportazioni russe, i prezzi dei fertilizzanti sono lievitati in maniera esponenziale – e della diminuzione dei sussidi per il carburante, il gioco ancora una volta non vale la candela.

Ulteriore questione, di cui poco si parla, è l’accordo che l’EU sta per firmare con i Paesi del Mercosur, che aprirebbe le porte a una ‘concorrenza sleale’ che vedrebbe gli agricoltori e allevatori europei in netto svantaggio rispetto a prodotti quasi totalmente deregolamentati, dal punto di vista degli standard ambientali e di qualità a cui i prodotti europei sono invece costretti, senza neanche parlare della “questione OGM”.

Alla luce di tutto ciò, le proteste di questi giorni giungono fin troppo in ritardo da un punto di vista sostanziale, ma al momento giusto per far muovere le varie forze politiche europee alle prese con le prossime elezioni per il rinnovo del parlamento UE.

Risulta così quasi comprensibile perché la Commissione stia facendo marcia indietro su molti capisaldi, prima sulla questione dei ‘terreni a riposo’, e ora anche sulla questione dei pesticidi.

Oggi tutti plaudono alla retromarcia della Commissione sul 4% di superficie che doveva rimanere a riposo, non coltivata per consentire al suolo di rigenerarsi. Ma sarà una scelta lungimirante, tenendo conto che i suoli (soprattutto quelli del sud Europa) stanno diventando velocemente terra strappata al cemento?

Il ritiro della proposta di regolamento sull’uso sostenibile dei fitofarmaci (SUR) “salva” il 30% delle produzioni più redditizie, come il vino o i frutteti, messe a rischio dall’obiettivo di dimezzare l’uso di agrofarmaci, che avrebbe comportato necessariamente maggiori investimenti in ricerca per trovare varietà e pratiche agronomiche più resistenti, e prodotti meno tossici per l’aria che tutti respiriamo (andate a chiedere agli abitanti della Val di Non come si vive vicino ai frutteti industriali...).

Perché di questo stiamo parlando: piccoli agricoltori preoccupati di poter restare a galla con i prezzi del carburante in aumento e quelli in costante diminuzione offerti dalla grande industria dell’agrobusiness, preoccupati di dover inoltre diminuire la produzione per favorire l’ambiente.

In tutto ciò, l’operazione di governi come quello che ci ritroviamo, con il megafono strumentale della Lega “a sostegno delle lotte degli agricoltori” risulta qualcosa di peggio di uno uno schiaffo in faccia.

A pochi mesi dal rinnovo del parlamento europeo emerge chiaramente come tutte le chiacchiere che abbiamo sentito in questi anni su un’ipotetica “Unione Europea green” e a “emissioni zero” stia lentamente andando in fumo, a prescindere dal colore e dalla direzione politica che il prossimo Parlamento prenderà.

Fonte

23/08/2023

L’onda d’Urso

Dice che le accise sulla benzina servono a finanziare la flat tax.

Però della flat tax ne beneficeranno solo alcune categorie del ceto medio, dunque la morale della favola che racconta Urso è semplice: con l’aumento della benzina stiamo pagando tutti un privilegio per pochi, i quali verseranno meno tasse, sottraendoci ulteriori risorse che servirebbero a erogare i servizi pubblici.

Ce la fanno pagare due volte.

Se poi consideriamo che l’aumento dei carburanti e direttamente proporzionale all’aumento dei prezzi all’ingrosso prima e al dettaglio poi, ecco che paghiamo tre volte cara questa politica scellerata, tanto per rientrare nel perverso circuito del “non c’è due senza tre”.

Insomma, Urso confessa che stiamo pagando di più la benzina non per via dell’aumento della bolletta energetica nazionale, né per l’ingordigia della compagnie petrolifere, ma per favorire un governo servile a piccole e grandi corporazioni, le loro lobby e relative camarille.

E così si indeboliscono i più deboli, s’impoveriscono i più poveri, si alimentano ingiustizie sociali, disuguaglianze e frustrazioni, che è il risultato dell’onda d’urto di queste politiche del governo.

Fonte

19/08/2023

Caro carburanti: le misure del governo Meloni sono inutili

I prezzi alla pompa continuano a salire, nonostante l’inutile obbligo ai distributori di esporre i cartelli col prezzo medio dei carburanti.

Dall’aggiornamento dei dati forniti dal Mimit (Ministero delle Imprese e del Made in Italy), i carburanti risultano ancora in salita per il self service sulla rete autostradale, con un prezzo medio di 2,019 euro al litro.

Il 14 agosto il prezzo era di 2,015 euro. Il gasolio self, sempre in autostrada è a 1,928 (1,921 alla vigilia di ferragosto), il Gpl servito è stabile a 0,842 euro come il metano a 1,528 euro.

Il ministro Adolfo Urso continua a concionare affermando che: “Il prezzo industriale della benzina depurato dalle accise è inferiore rispetto ad altri Paesi europei come Francia, Spagna e Germania“. E rivendica che l’esposizione dei cartelloni con il prezzo medio, è una misura “risultata pienamente efficace che ha consentito, in un sistema di mercato, di contrastare la speculazione, dando piena trasparenza e quindi consapevolezza e capacità di scelta al consumatore“.

A Ferragosto la Guardia di finanza ha “intensificato i controlli a tutela dei cittadini“, ma i primi risultati evidenziano che l’adeguamento alle nuove regole è del tutto insufficiente. Dal primo agosto sono stati effettuati 1.230 interventi trovando irregolarità in 325 casi, con 789 violazioni contestate.

Il ministro Urso in un’intervista ha affermato che “i prezzi dei carburanti hanno cominciato a salire da quando l’Opec, il cartello dei paesi arabi alleati con la Russia ha cominciato a tagliare la produzione per far salire i prezzi del barile. Un aumento che si scarica sul consumatore“.

Il prezzo del carburante è determinato da diverse voci. Il 58% della cifra riguarda la componente fiscale, ovvero Iva e accise mentre il 42% è costituita dal prezzo industriale che include i costi della materia prima e quelli commerciali, amministrativi e logistici.

Alcune associazioni dei consumatori hanno presentato un esposto alla Guardia di Finanza chiedendo al governo di modificare i prezzi estremamente alti dei carburanti. Complessivamente lo Stato ha già incassato 2,27 miliardi in una sola settimana di esodo estivo. Il taglio delle accise costerebbe circa un miliardo di euro al mese.

Fonte

17/08/2023

Benzina e vacanze, la trappola infernale

Il fenomeno è storico: quando cominciano i periodi dell’anno dedicati alle ferie – per chi si può permettere di allontanarsi da casa – regolarmente scattano aumenti consistenti per carburanti, ombrelloni, ristoranti e bar in tutte le location turistiche, a qualsiasi livello.

Quest’anno, con ogni evidenza, si è esagerato parecchio...

Il governo parafascista che aveva promesso di tagliare le accise sui carburanti, fatti due conti nel bilancio dello Stato, ha pensato bene di lasciarle intatte. Anche perché ogni aumento, comunque originato e motivato, si traduce automaticamente in un incremento delle entrate fiscali.

Il meccanismo è noto, ma se ne parla molto poco. Sui carburanti – non solo in Italia, ma altrove in misura minore – vige una doppia tassazione.

Una, specifica, sono le “accise”. Ovvero “tasse di scopo” introdotte per affrontare eventi imprevisti e poi lasciate diventare “perpetue”, anche ad emergenza finita. Per chi non lo sapesse continuiamo a pagare l’accisa per la guerra d’Etiopia (1936, “quando c’era lui”, il dio innominato del Pantheon meloniano), quella per l’alluvione di Firenze (1966), per i terremoti del Belice, del Friuli e dell’Irpinia, le guerre in Libano e Bosnia, e tante altre ragioni più o meno lontane nel tempo.

Ognuna per uno o pochi centesimi, certo, ma – come diceva Totò – “è la somma che fa il totale”, che diventa alto…

La seconda è l’Iva, che c’è su tutte le merci, ma per i carburanti si applica non solo al prezzo industriale del prodotto ma anche sulle accise. Per cui, di fatto, si paga una passa sulla tassa. Geniale, no?

Sta di fatto che alla fine la parte delle tasse rappresenta oltre il 50% del prezzo finale. Sicché, è stato calcolato, solo con gli aumenti di questi giorni lo Stato finirà per incamerare oltre 2 miliardi “straordinari”. Che poi la Meloni o chi per lei ci rivenderanno come “risorsa” reperita “per far fronte alle esigenze dei più deboli”.

Ma naturalmente non c’è solo lo Stato a taglieggiare. Le multinazionali dell’energia fanno anche loro la propria parte nell’aumentare “a soggetto”, e anche gli esercenti alla pompa ci mettono la loro quota...

Ci sarà pure una ragione per cui il prezzo del prodotto finito – uguale per tutti gli operatori, visto che il prezzo del petrolio è uno soltanto (a seconda delle qualità ai fini della raffinazione) e che le raffinerie riforniscono tutti i diversi marchi facendo pagare ovviamente lo stesso prezzo – diventa poi al distributore una incognita differenziatissima, ma univocamente verso l’alto.

Il governo Meloni, sull’argomento, ha dato il peggio di sé.

Prima Adolfo Urso, ministro, si diverte con la barzelletta “Il prezzo industriale della benzina depurato dalle accise è inferiore rispetto ad altri Paesi europei come Francia, Spagna e Germania“. In cui mente due volte: a) il prezzo europeo del prodotto industriale varia di un’inezia irrilevante nei vari paesi e b) le accise dipendono dal governo, non dallo spirito santo.

Non pago, lo stesso Urso ha poi vantato le virtù invisibili della “misura risultata pienamente efficace che ha consentito, in un sistema di mercato, di contrastare la speculazione, dando piena trasparenza e quindi consapevolezza e capacità di scelta al consumatore“. Il “risultato pienamente efficace” sarebbero insomma i sedici giorni consecutivi di aumenti dall’inizio di agosto…

Fioccano gli esposti e gli interventi della Guardia di Finanza, ma intanto tutto resta com’è e se ne riparlerà come sempre a babbo morto. Ossia a ferie finite, quando l’orgia dei prezzi arbitrari dovrà rientrare. Se non altro per il rischio di restare senza clienti.

È una considerazione che vale soprattutto per stabilimenti e locali (ristoranti, bar, pub, ecc.), che mai come quest’anno sembrano posseduto dalla volontà di spremere all’inverosimile lo sfortunato che osa sedersi dalle loro parti.

Sarà anche questo certamente colpa del governo che, rinviando di un altro anno l’adeguamento alle normative di assegnazione delle concessioni stabilite dalla UE, ha di fatto segnalato ai “balneari” che dal prossimo anno le concessioni saranno più care e quindi li ha incentivati a “darsi da fare” per accumulare più grasso ora.

Ma è anche colpa della miopia macroecomica di questa piccolissima “imprenditoria”, che appare affascinata del “modello Briatore-Santanché” per cui la clientela “giusta” è solo quella che può pagare cifre folli per non vedersi al tavolo vicino un parvenu.

Dimenticando che i ricchi veri, in definitiva, sono molto pochi. E dunque rischiano in questo modo di vedersi rarefare la massa dei turisti. Ovvero quelli che “fanno Pil” (come si vede ogni volta che si ragiona sulle tasse, regolarmente evase dai pochi che dovrebbero pagare molto, ma obbligatorie “alla fonte” per i percettori del solo stipendio).

In conclusione: qualcuno di questi rapaci farà pure qualche buon affare quest’anno, ma lo pagherà caro nei prossimi. Come già si vede dalla riduzione delle presenze nelle località dove si è esagerato di più e, soprattutto, dalla riduzione degli “italiani in vacanza”.

Stretti tra salari bloccati, inflazione core crescente e speculazione da strozzini. E un governo di contafrottole loro complici…

Fonte

17/01/2023

Benzinai, lo sciopero non è scongiurato

Questa mattina le associazioni dei gestori degli impianti di servizio in tutta Italia (Faib-Confesercenti, Fegica e Figisc Confcommercio) si riuniscono e voteranno per confermare lo sciopero proclamato la scorsa settimana poi sospeso dopo il primo incontro a Palazzo Chigi. “Andiamo avanti: dal decreto ci aspettavamo delle aperture che non ci sono state e invece sono arrivate sanzioni altissime per una misura come quella dei prezzi sui cartelli che non serve a nulla” affermano in una nota le associazioni dei benzinai.

Il decreto carburanti pubblicato ieri sulla Gazzetta ufficiale prevede fino a 6 mila euro di multa se sui cartelli mancherà la segnalazione del prezzo medio dei carburanti. In caso di recidiva, è prevista la sospensione dell’attività fino ad un massimo di 90 giorni.

Sotto accusa da parte dei benzinai è la sospensione dell’attività prevista dopo la terza violazione, un provvedimento che, secondo i benzinai, rischia di trasformarsi in chiusura definitiva e rischia di metterli in difficoltà con le imprese di fornitura.

Venerdì scorso c’era stato l’incontro con il governo che aveva avuto come risultato il congelamento dello sciopero in attesa della pubblicazione del decreto carburanti, ma da quanto emerge non è andata così.

“È inaccettabile. Così ricade ancora una volta tutto su di noi, come se fossimo i colpevoli degli aumenti dei prezzi, non ci stiamo”, dicono i gestori delle pompe di benzina dando per certo, a 24 ore dal nuovo incontro col governo che dovrebbe scongiurarlo, lo sciopero dei benzinai in programma il 25 e 26 gennaio prossimi, su strade e autostrade.

Ma il governo tira dritto e per ora ha confermato l’incontro di domani con le associazioni di categoria. Il governo ribadisce che solo in caso di rialzi dei prezzi, ci sarà la sterilizzazione delle accise.

Intanto l’Antitrust ha avviato istruttorie con ispezioni nei confronti di Eni, Esso, IP, Kuwait Petroleum Italia e Tamoil. Le irregolarità riscontrate, spiega l’Authority, riguardano l’applicazione alla pompa di un prezzo diverso da quello pubblicizzato, nonché l’omessa comunicazione dei prezzi dei carburanti.

Fonte

14/01/2023

Accise - Dalla guerra d’Etiopia al Decreto “Fare”. Novanta anni di furbissime tasse di scopo

L’accisa, vale la pena ricordarlo, è una imposta sulla fabbricazione e sulla vendita di prodotti di consumo. Come la benzina, il gasolio e il gas da autotrazione.

Le accise attualmente in vigore si applicano solo su alcuni beni, quali: oli minerali e loro derivati (benzina, gasolio, gpl, gas metano); bevande alcooliche (liquori, grappe, brandy); fiammiferi; tabacchi lavorati (sigarette); energia elettrica; oli lubrificanti.

Le accise sono presenti in tutto il mondo, ma con modalità e percentuali che variano da paese a paese.

Di seguito le 18 voci che fanno parte dell’elenco delle accise sulla benzina e gasolio ripristinate nel 2023. Da inizio anno infatti, il governo ha deciso di non rifinanziare lo sconto, introdotto dal governo Draghi.

Finanziamento della guerra d’Etiopia del 1935-1936.

Finanziamento della crisi di Suez del 1956.

Ricostruzione dopo il disastro del Vajont del 1963.

Ricostruzione dopo l’alluvione di Firenze del 1966.

Ricostruzione dopo il terremoto del Belice del 1968.

Ricostruzione dopo il terremoto del Friuli del 1976.

Ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980.

Finanziamento della missione Nato in Bosnia del 1996.

Rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004.

Acquisto di autobus ecologici nel 2005.

Terremoto dell’Aquila del 2009.

Finanziamento alla cultura nel 2011.

Crisi libica del 2011.

Alluvione che ha colpito Liguria e Toscana nel 2011.

Ricostruzione dopo il terremoto in Emilia del 2012.

Per il decreto “Salva Italia” del 2011.

Finanziamento del “Bonus gestori” nel 2014.

Finanziamento del “Decreto fare” nel 2014.

Insomma in qualche modo quando mettiamo benzina stiamo ancora finanziando le battaglie sull’Amba Alagi o i container per i terremotati del Belice (qualcuno ci abita ancora), gli “Angeli del fango” di Firenze, ma anche le conseguenze dell’aggressione alla Libia nel 2011. Praticamente alla pompa di benzina, con i numeri che girano, vediamo scorrere la storia degli ultimi novanta anni, dal 1936 a oggi.

Secondo l’ultimo monitoraggio del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, la somma delle imposte (Iva) e delle varie accise, ammonta addirittura al 58,2% del prezzo che si paga per la benzina e al 51,1% di quello del gasolio.

Secondo i dati forniti dal Ministero per l’Ambiente, tra l’1 e l’8 gennaio, la benzina in modalità self service è passata da 1,644 a 1,812 euro al litro, con un incremento di 16,8 centesimi, mentre il gasolio è salito da 1,708 a 1,868 euro con un rialzo di 16 centesimi.

Il prezzo attuale della benzina è composto sostanzialmente da tre voci: il costo netto del combustibile, incluso il guadagno dei gestori delle pompe, le accise e l’IVA (imposta sul valore aggiunto), quindi da due fattori fiscali e solo da uno derivante dal prodotto e dagli andamenti di prezzi.

Le sole accise pesano per più di un terzo e sono composte in buona parte da imposte di scopo, introdotte dai vari governi per raggiungere determinati obiettivi fissati nel tempo.

Il 27% del prezzo della benzina è determinato dal “platts”, che è il prezzo all’ingrosso sul mercato internazionale, deciso da una agenzia specializzata con sede a Londra (così come il gas deciso ad Amsterdam). Questa agenzia definisce il prezzo dei carburanti a livello internazionale. Sul prezzo del gasolio il “platts” pesa di più di quello sulla benzina (il 32%).

I ricavi della filiera distributiva petrolifera, incidono sul prezzo dei carburanti per una minima parte rispetto alle altre due voci (quelle fiscali): siamo più o meno intorno all’8% per la benzina e il 9% per il gasolio.

Il margine lordo serve a coprire tutti i costi di distribuzione primaria e secondaria, ma anche altri oneri, come tasse e canoni. Ed è su quest’ultimo segmento, che pesa per poco meno del 12% sull’intero ammontare pagato alla pompa dagli automobilisti per la benzina e per circa l’8% sul gasolio, che l’operatore può intervenire per modificare il prezzo. Mentre sulla materia prima, pari al 30% del costo complessivo per la benzina e al 41% per il gasolio, agiscono le quotazioni internazionali e l’effetto cambio euro/dollaro.

In ultimo, ma non per importanza, c’è da considerare l'abbondante fetta di tasse. Accise e Iva insieme coprono il restante 65% per la benzina e il 59% per il gasolio, sul prezzo totale del carburante.

In definitiva, se non ci fossero le accise, la benzina e il gasolio costerebbero insomma tra il 30 e il 40% in meno rispetto al prezzo che oggi paghiamo alla pompa.

La decisione di congelare o ripristinare le accise sui carburanti è tutta politica, non dipende affatto dall’andamento dei mercati. Un governo può decidere di toglierle (rinunciando a circa un miliardo di introiti fiscali al mese), di lasciarle o di ripristinarle come ha fatto il governo Meloni dopo il congelamento deciso dal governo Draghi.

Quello che non si può fare è promettere di togliere le accise in campagne elettorale e poi rimangiarsela quando si arriva al governo.

Fonte

Il senso del ridicolo contro mano

Una delle più esilaranti parodie di Maurizio Crozza è quando, impersonando Flavio Briatore, gli fa dire che i poveri inquinano, perché le loro auto sono lente, consumano e creano ingorghi ai caselli autostradali. Mentre lui, che con le sue auto di lusso, da casello a casello ci mette un lampo e passa senza creare code, abbatte l’inquinamento.

Ecco prendete questa visione satirica del mondo reale, capovolgetela e avrete l’ultima trovata retorica di Meloni.

“Abbassare le accise favorirebbe i ricchi che di benzina ne comprano di più e quindi risparmierebbero di più di quelli che faticano ad arrivare a fine mese”.

Meloni è una che il ridicolo non si accontenta di sfiorarlo... Lei il senso del ridicolo lo imbocca contromano a tutta velocità e gli si schianta contro.

Affermare che l’aumento del costo della benzina sia solo un problema della cilindrata di un’auto e non invece dell’intero sistema della grande distribuzione italiana è da dilettanti.

Se è vero che oltre l’80 per cento delle merci di largo consumo viaggia su gomma, l’aumento dei carburanti, combinato con l’aumento del prezzo dei pedaggi autostradali, significa l’automatico rincaro dei prezzi sulle bancherelle dei mercati, sugli scaffali dei supermercati, alla cassa del negozietto sotto casa, rincari che sono già enormi.

“L’impennata dell’inflazione pesa sul carrello degli italiani che hanno speso quasi 13 miliardi in più per acquistare cibi e bevande nel 2022 a causa dell’effetto valanga dei rincari energetici e della dipendenza dall’estero, in un contesto di aumento dei costi dovuto alla guerra in Ucraina che fa soffrire l’intera filiera, dai campi alle tavole”. Lo dice Coldiretti.

Quei 13 miliardi sono all’incirca la metà della prima manovra finanziaria varata dal governo, che non ha voluto bloccare le accise sui carburanti.

La realtà sociale del paese sfugge ai ciarlatani della comunicazione di Palazzo Chigi, o per meglio dire glene importa poco. La verità sta nell’aumento medio del 9,1% dei prezzi dei beni alimentari e delle bevande nel 2022 rispetto all’anno precedente.

Secondo l’analisi Coldiretti/Censis il 72% degli italiani fa ormai solo acquisti nei discount, mentre l’83% punta su prodotti in offerta, in promozione.

Quella che costa più di tutto è la verdura, poi ci sono pane, pasta e riso, a seguire la carne e i salumi, al quarto posto la frutta che precede il pesce, poi il latte, i formaggi e le uova e infine l’olio e il burro. È proprio il famoso cibo made in Italy che tanto eccita la propaganda governativa.

Chissà se “er cognato”, ministro dell’agricoltura, è a conoscenza che – secondo la Coldiretti – l’intera filiera agroalimentare sta con l’acqua alla gola: l’agricoltura italiana subisce aumenti dei costi che vanno dal +170% dei concimi al +90% dei mangimi, al +129% per il gasolio fino al +500% delle bollette per pompare l’acqua per l’irrigazione dei raccolti.

Dire roboanti castronerie è nel Dna della destra di origine fascista, come quando c’era Lui che voleva spezzare le reni alla Grecia o fermare l’invasione sul bagnasciuga (linea di galleggiamento dello scafo delle barche).

Però dire che bloccare le accise della benzina favorisce i ricchi è sensazionale. Dà l’idea di quello che ci si può aspettare dall’attuale governo.

Magari qualcosa di più serio e concreto della pezza che Giorgetti ha cercato di cucire per mettere una toppa alla toppata di Meloni.

Fonte

10/01/2023

Scaricabarile tra governo e petrolieri sull’aumento della benzina

Il governo Meloni ha eliminato dal 1 gennaio la riduzione delle accise sulle benzine e il prezzo dei carburanti è di nuovo schizzato alle stelle. A fronte della evidente impopolarità (e al tradimento delle promesse sul taglio delle accise sulla benzina), alcuni esponenti del governo l’hanno “buttata in caciara” ventilando l’ipotesi di speculazione sui prezzi.

In particolare il ministro Pichetto, ha spiegato che ai livelli attuali dei prezzi del gas e del petrolio un eventuale sforamento della soglia dei 2 euro (cosa già verificatasi in alcune pompe sulle autostrade, ndr) andrebbe considerato come un effetto speculativo, uno scenario che potrebbe richiedere un qualche intervento del governo. Il ministro dell’Economia Giorgetti, prima di Natale, aveva deciso di attivare la Guardia di Finanza per effettuare un monitoraggio contro possibili anomalie e speculazioni sui prezzi alla pompa. La prossima settimana dovrebbero essere pubblicati i risultati dei controlli effettuati e il governo deciderà se e come procedere.

Nel 2022 la riduzione delle imposte sui carburanti ha pesato per circa 1 miliardo di euro al mese. Il governo Draghi era riuscito a coprire i mancati introiti dalle accise grazie all’extragettito assicurato proprio dagli aumenti del prezzo dei carburanti. Il problema, adesso, è che questo meccanismo è saltato perché il governo Meloni ha deciso di considerare l’extragettito non più una maggiore entrata per i conti pubblici, ma un incasso ordinario, dunque non utilizzabile per finanziare gli sconti.

Ma i petrolieri italiani hanno rispedito l’accusa al mittente. I rincari sui carburanti, secondo la loro versione, sono stati determinati dalla cancellazione del taglio delle accise da parte del Governo: ne è prova che gli effetti economici del provvedimento sui prezzi di benzina e diesel, pari a 0,183 euro al litro, sono più o meno uguali agli aumenti alla pompa.

Fonte

17/08/2021

Libano - Esplode deposito di benzina “accaparrata” dai soliti noti. Decine di morti

Dopo il panico scatenato dalla sospensione dei sussidi sui carburanti, ieri pomeriggio una riunione straordinaria del governo ha dato mandato all’esercito per ispezionare le stazioni di benzina su tutto il territorio nazionale per verificare che non stessero stoccando indebitamente carburante sussudiato per rivenderlo a prezzi maggiorati. Il governo ha altresì dato mandato affinché, qualora trovati depositi illegali, questi venissero requisiti e i beni redistribuiti alla popolazione.

La totale assenza di trasparenza e di meccanismi di controllo con cui dal giorno zero l’intera questione dell’acquisto, dello stoccaggio e della distribuzione dei beni sussidiati è stata gestita, infatti, ha lasciato campo libero affinché importatori, distributori, e rivenditori potessero mettere in campo pratiche illecite di varia natura, dalla speculazione, alla distribuzione clientelare, al contrabbando verso la Siria che, a causa delle sanzioni imposte dal Cesar Act, è drammaticamente mancante di medicine, benzina, corrente elettrica.

Bene, si dirà. E, in effetti, qualcosa si è recuperato.

Non sono mancati tuttavia i punti oscuri e le contraddizioni.

Ieri pomeriggio, ad esempio, un’ispezione in una stazione di benzina di proprietà del Ministro dell’Agricoltura Abbas Mortada (Amal) aveva portato alla confisca di circa 65.000 litri (sì, mila) di benzina detenuti illegalmente. Per ordine dello stesso ministro, tuttavia, l’esercito è stato costretto dopo poco a restituirli al mittente.

Soprattutto, nella notte, è arrivata la tragedia.

La regione settentrionale dell’Akkar rappresenta storicamente una delle più povere e politicamente abbandonate del paese.

Data la prossimità con la Siria, nei mesi scorsi è diventata uno snodo di primo piano del contrabbando organizzato al di là del confine.

Nel pomeriggio di ieri, un gruppo di attivisti della zona segnala all’esercito la presenza di un deposito illegale di carburante nella cittadina di Tleil, che viene dunque identificato e sequestrato. Il bottino è di circa 20.000 litri, di cui la metà viene lasciata sul posto a disposizione dei cittadini.

Il terreno del deposito in questione è di proprietà di Georges Rachid, imprenditore locale con solide relazioni – come da queste parti è tristemente costume – con un deputato in quota al partito del presidente della repubblica.

A gestirlo pare fosse invece tale ‘al-Faraj’, contrabbandiere di Wadi Khaled arrestato quattro mesi fa per i suoi traffici illeciti verso la Siria.

Nel corso della notte, appena la notizia della disponibilità di carburante si diffonde, un gruppo di circa 200 persone, composto perlopiù da giovani uomini, accorre sul posto da varie località limitrofe. Non è dato sapere se e quanti uomini dell’esercito fossero presenti a presidiare le operazioni di distribuzione. Fatto sta che, non appena iniziate, il camion cisterna contenente la benzina esplode.

Il bilancio è da bollettino di guerra.

In questo momento i morti accertati sono almeno 25, più circa 80 tra feriti (di cui tantissimi grandi ustionati) e dispersi, che probabilmente verranno identificati nelle prossime ore dal solo DNA.

Date le dimensioni e le capacità ridotte degli ospedali locali, i casi più gravi sono stati affidati ai maggiori ospedali della capitale, i soli che in questo momento dispongono dei medicinali e del sangue necessario per poter tentare un salvataggio.

È altresì importante segnalare che le loro cure sono state possibili solo grazie alla presa in carico – date le dinamiche della tragedia – delle spese sanitarie da parte del Ministero della Salute, essendo la sanità Libanese quasi completamente privatizzata e dunque se non si è tra i pochi privilegiati ad avere abbastanza soldi o un’assicurazione sanitaria, si viene rispediti a casa.

Le dinamiche che hanno innescato l’esplosione sono ancora poco chiare. L’ipotesi che si sta facendo più strada tramite varie testimonianze è che sia scaturita da un colpo di pistola sparato dal figlio di Rachid per disperdere la folla. Il condizionale resta comunque d’obbligo.

Nel frattempo, mentre il balletto dello sciacallaggio politico ‘non si mette scuorno’ nemmeno di fronte alle morti che provoca, un gruppo di cittadini dell’Akkar ha da poco assaltato e dato fuoco alla villa di Rachid.

Spero che per oggi sia davvero tutto perché nessun luogo al mondo si merita tutto questo male.

Fonte

01/03/2019

Fare soldi facendo finta di “salvare l’ambiente”

Come si fa a far cassa senza essere accusati di aumentare le tasse? Il rebus è antico e le soluzioni del potere sempre ingegnose. Il Re di Napoli, per esempio, avendo ormai esaurito il parco tasse disponibile, inventò il gioco del lotto, introducendo così la “tassa sulla speranza” contando sul fatto che sarebbe stata presa dal popolino come un’occasione di arricchimento.

Quel rebus antico oggi trova nuovi stratagemmi, a partire dalla messa a profitto della “difesa dell’ambiente”.

Ci spieghiamo subito. Il governo giallo verde, a partire da oggi primo marzo, ha introdotto un disincentivo alla vendita di auto diesel e un incentivo a favore di quelle ibride. Una misura che vale solo per le nuove immatricolazioni e che, in una fase di mercato automobilistico particolarmente depresso (-3,1% le vendite, -10% la produzione 2018), avrà effetti moderatamente recessivi.

Ma la tendenza, come emerge da molti “si dice” in ambienti ministeriali, è chiara: aumentare le accise sui carburanti, e soprattutto del gasolio, con la scusa della “transizione ecologica”. E’ la stessa linea scelta da Emmanuel Macron e che ha portato all’esplosione del movimento dei gilet gialli, non a caso partiti dai grandi insediamenti periurbani e dall’immensa provincia francese; ossia lì dove l’utilizzo dell’automobile privata non ha alternative.

Come scrive Business Insider, il ministero dell’economia sta preparando un “taglio delle tax expenditures (agevolazioni e sconti fiscali) per i ‘sussidi ambientali dannosi’: un’operazione da circa 16,2 miliardi di euro che risolverebbe non pochi problemi al Mef”.

Il trucco contabile è relativamente semplice: “il gasolio, in particolare, vanta un’accisa inferiore del 23% rispetto alla benzina”. Dunque basterebbe ridurre o eliminare questo sconto per avere immediatamente un consistente aumento delle entrate fiscali.

La giustificazione “nobile” è già ora offerta dall’Ufficio valutazione impatto del Senato: “la maggior efficienza energetica del motore diesel rispetto al motore a benzina non giustifica di per sé questa differenza di trattamento. Essa, infatti, dipende dall’effettiva caratterizzazione del parco circolante auto a gasolio rispetto a quello a benzina”, per questo “il mantenimento in Italia di un’accisa sul gasolio più bassa rispetto alla benzina non è giustificato sotto il profilo ambientale e rischia di provocare effetti distorsivi e indesiderati nella composizione del parco auto circolante, aumentando i costi esterni della mobilità passeggeri e favorendo il trasporto delle merci su strada rispetto alle modalità alternative più ecocompatibili”.

La “narrazione” è pronta, insomma, la difficoltà sta nel fatto che nessuno vi presterebbe attenzione, perché quando la gente arriva davanti alla pompa del distributore legge il prezzo, vede che il carburante imbarcato è di meno... e si incazza. Magari non blocca l’Italia col gilet giallo addosso, ma alle elezioni te la farà comunque pagare.

E’ il problema che Giovanni Tria è chiamato a risolvere, anche se non sembra avere soluzione facile.

Del resto la “transizione ecologica” non è solo un argomento retorico, ma una necessità impellente. Se la comunità scientifica ha quantificato in dodici anni lo spazio temporale per invertire la tendenza, ci sarebbe bisogno di risposte straordinarie e globali per tentare – solo tentare, perché questo lasso di tempo è davvero pochissimo – di impedire al riscaldamento climatico di superare la soglia di non ritorno. Per restare solo al settore automobilistico, per esempio, si dovrebbe imporre a tutte le case produttrici nel mondo di sfornare da ora solo modelli ecocompatibili a prezzi bassissimi, in modo da programmare una sostituzione integrale del parco auto circolante nell’arco di una decina di anni. Praticamente un sogno da illusi...

Di fonte a un problema di queste dimensioni le risposte degli Stati capitalistici avanzati sono sostanzialmente ZERO.

In Italia, per restare al noto, abbiamo avuto il divieto di vendita dei cotton fioc (sconsigliati peraltro da tutti gli otorino, ma il cui consumo annuale individuale equivale a meno della plastica da imballaggio che ci portiamo in casa con una sola spesa al supermercato) ed ora questa accoppiata disincentivi-aumento delle accise.

E’ qui che si rivela la “logica” con cui l’establishment approccia la “transizione ecologica”: scaricarne i costi sulla popolazione, senza peraltro fare assolutamente nulla nei confronti dell’apparato industriale pubblico e soprattutto privato. Abbiamo così contemporaneamente una serie di misure ecologicamente inefficaci ma economicamente redditizie. Che non risolvono alcun problema (se non in misura astronomicamente marginale), ma garantiscono profitti ed entrate fiscali.

Lo si può verificare, peraltro, con tutte le campagne para-ecologiste sfornate in ogni trasmissione o pubblicità televisiva. In cui i problemi ambientali e la loro soluzione vengono addossati ai comportamenti individuali, non al funzionamento sistemico, ossia al modo e al tipo di produzione.

Facciamo due esempi? E facciamoli...

Su tutti i prodotti – dagli alimentari ai cosmetici, dai giocattoli ai veicoli, ecc. – vengono illustrati una serie pressoché sconfinata di “consigli” perché sia il consumatore finale a scegliere una cosa invece di un’altra (es: “cosmetici non contenenti microplatische”), come se ognuno di noi, al supermercato, avesse tempo, possibilità e competenze scientifiche per fare uno screening ambientalista di ogni confezione presente sugli scaffali, leggendo e confrontando etichette (sulla cui attendibilità, peraltro...).

Anche il meno intelligente di questi consumatori disperati (poco tempo e pochi soldi in tasca) consiglierebbe a sua volta la soluzione più semplice: impedite che i prodotti “sbagliati” arrivino sul mercato, lasciando circolare soltanto quelli ecocompatibili. “Non si può”, ci risponderebbero dall’alto dei cieli di Bruxelles o del ministero di Tria, perché “il mercato è libero e le imprese non devono essere ostacolate”.

Questo è il problema, a questo livello vanno pensate le soluzioni. E nessuna sarà indolore.

Fonte

04/12/2018

Macron cede sugli aumenti e prova a indebolire il movimento

Se bussi alla porta con la dovuta energia c’è una probabilità più alta che la porta si apra. O almeno si incrini la lastra d’acciaio eretta contro la mobilitazione e i bisogni popolari.

Tutti i media mainstream stanno dado in queste ore un’anticipazione: il primo ministro francese Edouard Philippe annuncerà una moratoria di alcuni mesi sull’aumento delle tasse sui carburanti, goccia che aveva fatto traboccare il vaso del malcontento e fatto scattare la mobilitazione generale sotto il segno dei gilet gialli.

L’annuncio viene dopo tre giornate di blocchi e scontri in tutta la Francia (qui in Italia si è parlato solo di Parigi, ma a Marsiglia è morta una donna anziana colpita dai lacrimogeni dentro casa, a Tolosa c’è un manifestante in coma) e in seguito all’annullamento di un incontro – anch’esso annunciato – tra il primo ministro e la cosiddetta “ala dialogante” dei Gilets Jaune.

L’aumento delle tasse su benzina e diesel sarebbe dovuto scattare dal primo gennaio, ma ora il governo dovrebbe rinviare – non annullare – la decisione a “tempi migliori”.

Diciamo che si tratta di una classica mossa per uscire dall’angolo (oltre l’80% della popolazione vede positivamente i gilets) senza concedere nulla. Il rinvio, infatti, è un modo per far sbollire la rabbia, far emergere le anime più “dialoganti”, sedare la mobilitazione dando l’impressione che si accetti di fare marcia indietro. E nel frattempo preparare meglio la seconda ondata dell’offensiva.

A questo punto si potrà misurare il livello di maturità politica del movimento nel suo insieme. Nel corso di queste settimane, infatti, la lista delle rivendicazioni si è molto arricchita, prendendo la forma di una complessiva piattaforma sociale (salario, welfare, casa, integrazione, trasporti pubblici, ecc), in gran parte condivisibile da qualsiasi altro movimento del Vecchio Continente.

Anche i pestaggi della polizia, con centinaia di feriti e arresti, hanno fatto maturare una volontà di scontro politico più alta, riassunta nella richiesta principale del movimento: le dimissioni di Macron.

Ma può valere anche l’opposto, come in ogni conflitto seri che si rispetti. Il primo “cedimento”, se il movimento francese riuscirà a mantenere la sua capacità di allargarsi a tutti i settori popolari mostrata in queste settimane, può trasformarsi in una ritirata progressiva (o rapidissima, dipende da molte condizioni) dell’establishment macroniano. Ossia nella prima seria sconfitta del “neoliberismo europeista” ad opera di un movimento che ha molte anime, ma dove è ormai chiaro che non ha alcun serio peso il “populismo nazionalista”.

Come ha sottolineato qualcuno che non appartiene affatto al fronte progressista, e anzi simpatizza con Macron, si tratta della “prima aggregazione transpartitica dai tempi della rivolta della farina di fine Settecento, quando esplose la Rivoluzione Francese”. Anche in quel caso per uno dei tanti “aumenti dei prezzi” decisi da un’autorità centrale (la monarchia di Luigi XVI).

Fonte

01/12/2018

En guerre: una rivolta sociale che coinvolge studenti e Cgt

Nel mentre scriviamo, in tutta la Francia gli studenti delle scuole medio-superiori, rispondendo all’appello di una delle maggiori organizzazioni studentesche, l’UNL, stanno bloccando numerosi istituti, di fatto affiancando i “giltes jaunes” ma con contenuti propri, su cui era stata proclamata per oggi la giornata della “collera studentesca”.

Negli scorsi giorni c’erano stati diversi episodi di “fraternizzazione” tra la “marea gialla” e le realtà studentesche, anche universitarie. Si tratta per lo più di città della Francia peri-urbana, di quella rurale e delle zone che hanno subito una pesante de-industrializzazione.

Il cuore dei blocchi, ormai è statisticamente certo, il 17 novembre ha riguardato cittadine tra i 5.000 e i 20.000 abitanti, con una presenza importante in quelle anche sotto i 5.000.

Si moltiplicano le iniziative congiunte, molte previste per questo fine settimana – non ci sarà solo la manifestazione ai “Campi Elisi” – tra i gilets jaunes e i militanti sindacali della CGT, SUD e del settore trasporti e logistica di FO.

Le giacche arancioni della CGT, saranno insieme ai Gilets Jaune un po’ in tutta la Francia, il segretario del maggior sindacato francese, Martinez, ha ribadito martedì che non si tratta di due movimenti concorrenziali; e questo sabato nella Capitale, su una ampia piattaforma sul caro-vita ha chiamato alla mobilitazione, indicendo lo sciopero nei settori che non avrebbero potuto partecipare alla manifestazione.

Sempre sabato, il Comitato Adama, una delle espressioni più avanzate della lotta alle violenze della polizia e al razzismo, e portatore dei bisogni dei quartieri popolari, sfilerà insieme ai Gilets Jaunes a Parigi, chiamando alla mobilitazione questa parte importante delle classi subalterne.

Intanto, Ruffin, deputato degli Insoumises ed ex-animatore delle nuit debout prima, e della “festa a Macron” poi, ha promosso ieri una importante assemblea all’aperto in place Republique, chiamando “le metropoli” a mobilitarsi insieme alle giacche gialle.

L’attivismo di Ruffin parte dal presupposto di compattare un “blocco storico” contro le politiche governative, in cui la variegata mouvance della sinistra alternativa, come per la campagna sul referendum del 2005 di adesione alla UE, deve intervenire anche per sottrarre vittoriosamente il terreno da sotto i piedi alla destra, neutralizzando il possibile recupero del Rassamblement National (ex-FN).

RN, è una formazione, aggiungiamo noi, il cui maggiore sponsor politico è lo stesso Macron, che l’ha eletta suo “falso nemico” in previsione delle europee di maggio prossimo, nella falsa opposizione tra “progressisti” (lui?) contro “nazionalisti”, o liberali contro “illiberali”.

Ma procediamo con calma e riassumiamo telegraficamente ciò che è successo dall’inizio di questa settimana fino ad oggi.

L’incontro tra i due portavoce (degli otto nominati dai Gilets Jaune) con alcuni esponenti del governo – questo martedì sulla piattaforma rivendicativa ufficializzata – non ha sortito alcun effetto ed è stata confermata la mobilitazione di sabato.

Il previsto incontro di oggi tra i portavoce dei Gilets Jaune e membri dell’esecutivo è saltato per volontà dei primi. Il governo, ha fatto sapere che procederà per la sua strada, non abolendo la “tassa carbone” e mantenendo gli aumenti previsti dal primo gennaio, ed allo stesso tempo non toccherà al rialzo il salario minimo intercategoriale – lo SMIC – come richiesto dai JG e dalla CGT.

Mercoledì Macron ha tenuto un discorso-fiume sulla “transizione ecologica”. In sostanza il presidente non ha assunto nessun impegno, che non fosse stato previsto nel precedente piano energetico, elaborato durante la presidenza Hollande, e nessun nuovo impegno concreto durante il suo Quinquennat, tranne che per un aumento di investimenti nelle rinnovabili e il superamento degli impianti di riscaldamento domestici a “fuel”.

Ciò che inficia alla base il suo discorso è la dilazione dell’obiettivo della parziale diminuzione della dipendenza dal nucleare per la produzione di energia elettrica – di dieci anni, dal 2025 al 2035 – e il non spegnimento in futuro di reattori nucleari che supereranno presto i quarant’anni di attività; una soglia che alza i rischi di sicurezza di non poco.

Bisogna ricordare che l’ultimo progetto di reattore di ultima generazione, l’EPR, non è entrato ancora in funzione, né in Francia né altrove, e nell’Esagono questo è in un ormai cronico ritardo – rispetto ai tempi di attivazione previsti – e ha portato i livelli di indebitamento della società EDF (controllata dallo stato) a cifre stratosferiche, senza che sia stata approntata una exit strategy da questa situazione, tra impianti che diventano obsoleti, con una drastica riduzione delle capacità di gestione e know how in declino, e costosissimi nuovi impianti di cui non si vedono i risultati, se non di aumento del debito pubblico.

Dall’ex ministro dell’ecologia del governo Hollande, passando per le ONG e le forze di opposizione che fanno della “transizione ecologica” il perno del proprio agire e del proprio programma, come i “verdi” di EELV e la France Insoumise, sono arrivate piogge di critiche su questa ennesima “trasformazione” mancata, che pure era al centro del programma di En Marche!

Il movimento dei Gilets Jaune, come hanno evidenziato i commentatori più intelligenti, ha rimesso al centro del gioco politico una questione, quella “sociale” in primis, e la frattura tra un centro metropolitano ed una variegata “periferia”, lungo la linea dello sviluppo diseguale che inizia in una banlieue ed arriva fino ai DOM-TOM, i territori d’Oltre Mare, passando per la Francia peri-urbana, quella rurale e quella pesantemente de-industrializzata.

Infatti non si placa in alcun modo la mobilitazione alla Reunion e in Guyana c’è stato lo sciopero generale sulle rivendicazioni che attendono risposta rispetto a quelle espresse nei moti insurrezionali della primavera del 2017; mentre in Nuova Caledonia c’è stato da poco un referendum sull’indipendenza, che ha visto una grossa mobilitazione popolare ed un ottimo risultato per le forze eredi della resistenza Kanak.

Come uscirà il governo da questa situazione, che vede nella ingombrante presenza dei decisori politici della UE un convitato di pietra pronto a “bacchettare” qualsiasi tentennamento nelle politiche di Austerity?

La risposta non è facile, tenendo conto che Moscovici ha “invitato” la Francia a fare “ancora uno sforzo”, soprattutto per ciò che riguarda la riduzione del deficit strutturale: la UE ha posto l’Esagono nei Paesi “a rischio di non conformità”.

La doppia strategia macroniana, suggerita da un establishment politico-economico veramente preoccupato, è quella di rinunciare, almeno a livello di narrazione, alla “verticalità” che l’ha finora contraddistinto, mutandola in un atteggiamento di maggior ascolto e condivisione con le “collettività” territoriali” a livello locale e i “corpi intermedi”, forse le uniche ancore di salvezza in grado di fargli recuperare un gap di consenso che l’ha portato ad un altro picco negativo nei sondaggi: solo il 19% dei francesi approverebbe il suo operato, contro i quattro quinti, stando ad altre rilevazioni, che invece sostengono i Gilets Juanes.

Ma il dialogo sociale reale – di cui non si vede traccia, nonostante le avances di alcuni corpi intermedi, il sindacato CFDT in primis – è una cosa; la narrazione fittizia a scopo propagandistico un altra.

Un’ultima nota: anche media e polizia sono dentro questa crisi di legittimità delle élites.

I primi, dopo avere coperto come mai prima un movimento sociale – ed il confronto con il misto di censura e stigmatizzazione negativa con cui avevano trattato la lotta degli cheminots contro la privatizzazione di SNCF è l’esempio più eclatante – dopo la manifestazione parigina hanno usato la clava e una buona dose di disinformazione facendo il gioco del governo, tra l’altro nascondendo spudoratamente la pesante azione repressiva delle forze dell’ordine, emersa sui social e nei media d’inchiesta indipendenti.

Altrettanto era successo per la giornata della collera a Marsiglia, a pochi giorni di distanza dal crollo di due edifici “insalubri” in pieno centro, gestiti da una azienda comunale mista pubblico-privato.

Molti francesi hanno appreso la vera funzione delle forze dell’ordine che gli abitanti dei quartieri popolari, i militanti sindacali e gli attivisti conoscono invece da tempo.

Dal 17 novembre la mobilitazione ha cambiato in parte forma, soggetti coinvolti e quadro rivendicativo, portando l’idea-forza delle dimissioni di Macron nella testa di sempre maggiori persone, ma non è mai scemata.

In conclusione, non sarà un sabato come gli altri in Francia, non solo per le vie della capitale, e senz’altro non è che una tappa: fino a Natale compreso, ed anche oltre, come ha dichiarato un gilet jaune dei Pirenei.

E se vogliamo chiamare le cose con il proprio nome, ciò che stiamo vedendo è una rivolta popolare, e non accenna a fermarsi.

Fonte

29/11/2018

Il movimento dei “gilets gialli” in Francia. Un contributo per l’azione

Una settimana fa, sabato 17 novembre, almeno 282.000 “gilet jaunes” si sono mobilitati in tutta la Francia per protestare contro l’aumento del prezzo della benzina. Occupazioni di incroci e rotonde e blocchi stradali, “operazioni lumaca” e “operazioni pedaggio gratuito”... sono stati più di 2.000 i presidi nel paese. Quasi 400 arresti, diverse centinaia di feriti, un morto, scontri con la polizia.

Da oltre dieci giorni, nonostante una repressione crescente, il movimento non si è dato tregua. Sabato scorso erano più di 106.000 in tutto l’Esagono, secondo il Ministero dell’Interno, di cui 8.000 «saliti» a Parigi per manifestare il loro scontento. Il divieto della prefettura di avvicinarsi all’Eliseo non ha impedito ai manifestanti di prendere l’Avenue des Champs Elysées, dove violenti scontri con la polizia sono avvenuti tutto il giorno. Alcuni gilets gialli hanno già annunciato la loro intenzione di tornare a Parigi sabato prossimo...

Chi sono i “gilets gialli” e cosa vogliono?

Mai movimento sociale francese ha avuto una visibilità mediatica pari a quella del cosiddetto “movimento dei gilets gialli”. Da dieci giorni, tutta la stampa francese è indaffarata a capire chi sono questi improbabili manifestanti che non si erano mai visti prima, di cui una buona parte dichiara orgogliosamente ai microfoni dei giornalisti che non aveva mai manifestato in vita sua; un movimento che si proclama “cittadino” e “apolitico” ed è nato fuori dai quadri politici o sindacali che solitamente dominano le grandi mobilitazioni del paese.

Il bilancio unanime è che si tratta di un movimento composito e proteiforme dai molti volti: donne e uomini, lavoratori dipendenti, precari, percettori di reddito di disoccupazione, inattivi, pensionati, professori, padroncini, operai. Qualche sindacalista e qualche partigiano si confondono nella massa. Sono sia di destra sia di sinistra, o anche no. Il loro punto comune è uno: a malapena riescono ad arrivare alla fine del mese.

In poche parole, il popolo. Ma non tutto il popolo. Il popolo che si sta mobilitando è il popolo della Francia periferica – non quella dei grandi centri urbani ma quella dei centri minori e delle zone rurali – una parte del paese che solitamente non si vede e che oggi si solleva e indossa un gilet giallo fluorescente per essere visibile, uno di quei giubbotti catarifrangenti che ogni automobilista è obbligato ad avere in macchina.

Si sono incontrati e organizzati sui social – su facebook sono apparsi da qualche settimana decina di gruppi di gilets gialli per ogni département – e a volte hanno fatto qualche assemblea di preparazione prima di ritrovarsi per strada all’alba di sabato 17, giorno di inizio del movimento.

I gilets gialli si sono organizzati per protestare contro l’aumento del prezzo del carburante. Ed hanno buone ragioni: il prezzo del gasolio è aumentato del 23% in Francia e la benzina del 14% a causa del balzo del prezzo del barile di petrolio di quest’anno. Inoltre, il governo ha annunciato di recente che i prezzi di gasolio e benzina aumenteranno ulteriormente – rispettivamente di 4 e 7 centesimi a litro in più – presentando l’aumento come rivolto a finanziare la transizione energetica in senso ecologico.

Quest’annuncio ha provocato, poco sorprendentemente, un largo scontento nelle classi basse e medie, in particolar modo quelle della Francia periferica, sulle quali le spese di trasporto incidono tanto, perché si tratta di persone che devono spostarsi ogni giorno per chilometri e chilometri, e sui cui redditi l’aumento del prezzo del carburante incide necessariamente di più.

Dal punto di vista vertenziale i gilets gialli vogliono innanzitutto l’abrogazione di questa nuova “tassa carbonio”. Ma dietro la rabbia c’è altro. La benzina è solo “la goccia d’acqua che ha fatto traboccare il vaso”, come ribadiscono continuamente da dieci giorni i gilets gialli e i loro sostenitori per giustificare le loro azioni, che hanno creato non poco scontento.

Dalle tanti voci che si sono fatte sentire nei giorni scorsi emerge chiaro il sentimento di esasperazione, la sensazione di essere l’oggetto di esclusione e di disprezzo, in particolare da parte di quella classe politica verso la quale si avverte un rigetto generalizzato. Sono molto numerosi i gilet gialli che reclamano la destituzione del governo e del Presidente della Repubblica Emmanuel Macron. Ricordano continuamente che Macron è stato eletto con un consenso basso (solo il 24% dei francesi lo hanno votato) e che la sua legittimità è scarsa. Ormai c’è una parola d’ordine scandita da tutte e tutti, sui Champs Elysées come in provincia: “Macron, démission!”.

Questo sentimento di esasperazione è il risultato di anni di politiche fiscali e sociali che hanno progressivamente strozzato le classi basse e medie. Appena giunto al governo, Macron ha abolito l’ISF (Tassa patrimoniale di solidarietà), regalando 4 miliardi di euro ai più ricchi; e ha potenziato il CICE (Credito d’imposta per la solidarietà e l’occupazione), il programma di taglio dei contributi dovuti e di sgravi fiscali che permettono di trasferire 41 miliardi di euro all’anno alle imprese francesi, incluso le multinazionali.

Poco dopo, con la legge di bilancio 2018, Macron ha instaurato una flat tax che ha permesso un abbassamento della imposizione sul capitale, regalando altri 10 miliardi di euro ai più ricchi. Nello stesso tempo, ha aumentato la CSG (Contributo sociale generalizzato, è una tassa sul reddito) dei pensionati, mentre le pensioni hanno smesso di essere indicizzate sull’inflazione; ha soppresso i contratti sussidiati (che permettevano ad una fascia consistente di persone di lavorare con un contratto in parte finanziato dagli enti pubblici); ha abbassato l’entità dei contributi alloggio (APL) di 5 euro al mese per i più svantaggiati.

Come se non bastasse, la nuova “tassa carbonio” andrà a pesare molto di più sui budget delle classi medio-basse che su quello delle classi agiate – 5 volte di più per la precisione. Eppure il governo non prevede alcuna misura per controbilanciare questa evidente disparità di trattamento – per esempio dando aiuti alle famiglie più modeste.

L’effetto di queste politiche, prosecuzione di quelle già attuate dai precedenti governi Sarkozy e Hollande, è un aumento fenomenale delle diseguaglianze. Mentre le più grandi fortune di Francia si sono moltiplicate per 10 negli ultimi 20 anni,1 nello stesso lasso di tempo le classe medie e le classi popolari hanno visto i loro redditi precipitare.

Secondo un recente studio dell’OFCE e dell’INSEE, il “potere d’acquisto” – ossia il reddito disponibile – delle famiglie francesi è calato di 440 euro all’anno tra il 2008 e il 2016.2 In questo contesto, sorprende assai poco il sentimento di ingiustizia e di umiliazione che si va diffondendo. Soprattutto se pensiamo che durante la sua campagna presidenziale, Macron prometteva di aumentare il potere d’acquisto dei francesi.

L’immagine di “presidente dei ricchi” e di presidente arrogante calza ormai a pennello sull’immagine pubblica di Macron, e la frattura che si è determinata tra il popolo e l’élite di privilegiati da lui rappresentata è stata ulteriormente approfondita da una serie di scandali fiscali che hanno scandito la vita politica francese degli ultimi anni: l’affaire Bettencourt, l’affaire Thévenoud, l’affaire Cahuzac.

Nel frattempo, l’occupazione tarda a ripartire. Negli anni i vari governi che si sono susseguiti non mai hanno smesso di affermare che i regali fiscali alle imprese e ai più ricchi avrebbero stimolato gli investimenti, rilanciato la crescita e creato nuovi posti di lavoro. La verità però non mente: stiamo ancora aspettando il milione di impieghi promessi da Hollande e dal suo allora consigliere Macron grazie alla creazione del CICE nel 2012.

Il movimento non si limita alla Francia esagonale; ha raggiunto i territori d’oltremare (le “ex”-colonie), in particolare l’isola de La Réunion che è scossa da dieci giorni. In questo territorio dove il tasso di disoccupazione è molto alto la povertà è endemica – il 42% delle persone vive sotto la soglia di povertà – e dove i prezzi aumentano in continuazione, in particolare quelli della benzina, del gas e dell’elettricità, il movimento dei gilets gialli ha assunto proporzioni impressionanti.

Scontri con le forze dell’ordine, macchine incendiate e autoriduzioni nei centri commerciali, introduzione già da martedì scorso di un coprifuoco imposto dal prefetto dell’isola... il movimento non si limita più alla questione del prezzo della benzina. E infatti, benché il consiglio regionale abbia annunciato, già da mercoledì 21 l’ottenimento in deroga del blocco dei prezzi del carburante per i prossimi tre anni, le tensioni non si sono affatto placate.

Questo in primo luogo è dovuto al fatto che i gilets gialli chiedono un abbassamento, e non solo un congelamento, del prezzo della benzina. Ma c’è anche un altro elemento: le rivendicazioni del movimento vanno ben oltre la benzina, riguardano le diseguaglianze, il caro-vita, l’accesso al lavoro, ed una più generale domanda di rispetto e di poter vivere una vita degna.

Questi territori, cosi come quelli della Francia periferica e rurale, hanno sofferto particolarmente la degradazione dei servizi pubblici organizzata dai governi da oltre un decennio. Dove ospedali, tribunali, o stazioni ferrovie chiudono, è proprio il servizio che l’imposta dovrebbe finanziare che scompare dalla quotidianità delle persone. E’ così che il sentimento del “contratto sociale” si affievolisce fino a svanire, lasciando il posto alla rabbia.

Da ieri, lunedì 26 novembre, i gilets gialli si sono dotati di 8 “comunicanti nazionali” nominati su facebook e incaricati di avviare un dialogo con il governo. Pur essendo la loro rappresentatività contestata all’interno del movimento, questi portavoce hanno chiesto un incontro con il governo per portare le rivendicazioni dei gilets gialli. Le due proposte principali formulate ad oggi sono l’abbassamento di tutte le tasse e la creazione di un’”assemblea di cittadini” per discutere della transizione ecologica, della presa in considerazione della voce dei cittadini, dell’aumento del “potere d’acquisto” e della rivalorizzazione del lavoro.

Tra i temi che quest’assemblea dovrebbe discutere, c’è il divieto di utilizzo del glifosfato, la commercializzazione di bio-carburanti, la soppressione del Senato, l’organizzazione di referendum frequenti al livello nazionale e locale, l’aumento di sovvenzioni per la creazione di lavori non-precari a tempo determinato e indeterminato, il rispetto della parità di genere e dell’eguaglianza di trattamento, un innalzamento del salario minimo e un abbassamento dei contributi sociali per i padroni.

Verso una convergenza delle lotte?

È dunque tutta la politica del presidente dei ricchi, dell’anti-Robin Hood che ruba ai poveri per dare ai ricchi, che è chiamata in causa? Non si contano più i cartelli e gli slogan che invocano le dimissioni di Macron. Da un lato, dunque, questo movimento potrebbe apparire in continuità con gli altri movimenti di contestazione che hanno scosso il paese negli ultimi anni.

In effetti, la Francia è in fibrillazione da molto prima del 17 novembre, a causa degli attacchi che i lavoratori hanno subito e continuano a subire, delle due leggi sul lavoro, della riforma dell’accesso all’università, della repressione del dissenso operata in nome della lotta al terrorismo, della soppressione di ospedali, tribunali e servizi sociali. Nonostante questo, la tanto ricercata “convergenza delle lotte” sembra oggi più che mai difficile da ottenere.

I gilets gialli sono guardati con una buona dose di perplessità, sospetto e diffidenza e non parliamo della condiscendenza e del disprezzo che hanno dominato il discorso mediatico, bensì di una parte consistente dei commenti provenienti dal variegato mondo della sinistra. Bisogna infatti notare che la critica ai gilets gialli è stata influenzata da un evidente disprezzo di classe. Non si contano i commenti e le battute su questi “beaufs”, questi “imbecilli” della “France d’en bas”.3 Un certo sentimento di derisione ha attraversato anche i social vicini alla sinistra autonoma “di movimento”, prima della dimostrazione di forza del 17 novembre.

Certo, a volte le perplessità hanno avuto anche ragioni legittime. In primo luogo, i difensori della natura e della lotta ecologista sono a dir poco sconcertati dal clamore che sta avendo un movimento che chiede fondamentalmente di poter bruciare più carburante a minor prezzo e che sembra fottersene delle sedicenti intenzioni del governo di usare parte di questa “tassa carbonio” per finanziare la transizione ecologica. Questo è uno dei principali motivi per cui i sindacati e le forze di sinistra inizialmente non avevano appoggiato il movimento.

Di fronte all’ampiezza della mobilizzazione, però, molti hanno riconsiderato il loro posizionamento; tutte le forze politiche dell’opposizione (ad esclusione dei verdi) hanno allora mostrato un discreto sostegno al movimento, stando però attente a non essere accusate di operare un opportunistico “recupero” politico. Mélenchon, Ruffin e altre personalità della France Insoumise, nonché molti dei suoi militanti di base, hanno preso parte alle mobilitazioni a fianco dei gilets jaunes.

Il sindacato moderato FO Transports ha chiamato per primo martedì a raggiungere il movimento. Anche Philippe Martinez, il segretario generale del principale sindacato francese, la GGT, inizialmente scettico, ha finalmente espresso un prudente sostegno e chiamato ad una manifestazione unitaria il 1 dicembre. Anche dalla sinistra di movimento, sono arrivate le adesioni. Il comitato “La Vérité pour Adama” ad esempio – che lotta per ottenere giustizia e verità sulla morte del giovane Adama Traoré, ucciso due anni fa in un commissariato del quartiere popolare di Beaumont-sur-Oise nella banlieue parigina – ha annunciato che scenderà in piazza con i gilets sabato prossimo.

Malgrado queste adesioni tardive, molti a sinistra continuano a dubitare e a vedere di cattivo occhio questa mobilitazione. La caratterizzazione “apolitica” del movimento, e il fatto che molti gillets gialli dichiarino di non essere mai scesi in piazza prima, attrae al movimento le accuse di “egoismo” o di avere una natura “piccolo-borghese”. Gli stessi difensori della “convergenza delle lotte” stentano a sostenere le rivendicazioni di persone che non si sono mobilitate l’anno scorso contro la tripla offensiva del governo contro lavoratori delle ferrovie, studenti e migranti. Soprattutto, ci sono sospetti di infiltrazione e pilotaggio dell’estrema destra – in particolare dal Rassemblement National (RN, ex-FN, Front National), il partito fascista di Marine Le Pen che era arrivato al secondo turno dell’elezione presidenziale l’anno scorso.

D’altronde, si sono effettivamente verificati incidenti razzisti e islamofobi sin dal primo giorno di mobilitazione – incidenti che, contrariamente al solito, sono stati ampiamente mediatizzati.4 Venerdì Martinez allertava i suoi affiliati: in alcuni dei blocchi dei gilets gialli, potrebbero esserci “elementi d’estrema destra che confondono rivendicazioni e immigrazione”.5

Di fronte a questi sospetti, molti nell’area movimentista hanno chiamato alla prudenza, ad aspettare e vedere cosa succederà e quale direzione prenderà il movimento. È indubbiamente vero che si può incontrare di tutto sui blocchi: “apolitici” soprattutto, ma anche fascisti del RN, sostenitori della destra conservatrice dura di Laurent Wauquiez (Les Républicains), nazionalisti, oppure socialisti, insoumis, comunisti, sindacalisti, anarchisti, ecc.

Ma proprio per questo motivo l’atteggiamento attendista – “aspettiamo di vedere come andrà a finire” – rischia di consegnare il movimento alle tendenze reazionarie. Il malcontento delle classi medie e popolari che vedevano il loro “potere d’acquisto” diminuire e il loro crescente rigetto dei ceti politici sono stati il terreno sul quale in Italia si e costruita l’ascesa del Movimento 5 Stelle e della Lega, proprio perché non esisteva a sinistra una forza capace di rappresentare un’alternativa allo status quo.

Anche le critiche moraliste che tendono ad accusare i gilets gialli di materialismo e di egoismo, a vederle da vicino, vanno forse rimesse in discussione. Non era l’aumento del prezzo del pane il motivo principale che ha spinto le donne parigine a marciare infuriate su Versailles nell’ottobre del 1789 e a riportare il re e la sua famiglia a Parigi, dove potevano essere tenuti d’occhio dal popolo? La storia delle lotte sociali è cosparsa di movimenti sorti dall’esasperazione dovuta alle condizioni materiali delle classi popolari, movimenti che possono far nascere una maggiore consapevolezza, far emergere rivendicazioni più ampie, e che possono convergere con altre lotte. Oppure no.

In ogni caso, queste situazioni – pur complesse e multiformi – sono espressioni di un disagio reale. E starci dentro può essere una scelta giusta, anche se non semplice, al fine di provare ad intercettare questo disagio, fornirgli le giuste parole d’ordine, e ad evitare che siano recuperate, per esempio dall’estrema destra. I gilets gialli potrebbero in questo modo confluire in un movimento coeso che porti rivendicazioni non solo fiscali, ma anche ecologiche importanti: per esempio quella di restaurare l’ISF e di riprendere i 40 miliardi regalati alle imprese con il CICE per investirle nella transizione ecologica, di nazionalizzare la SNCF e di ri-sviluppare le ferrovie francesi, di migliorare i trasporti pubblici e renderli gratuiti, di tassare di più i voli interni e le compagnie aeree, ecc.

È anche vero che per ora la smisurata visibilità che i media hanno dato ai gilets gialli ha eclissato altri movimenti importanti che in questi giorni sono scesi in piazza in Francia. L’esempio più eclatante è quello delle manifestazioni organizzate sabato 24 in tutta la Francia per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Da mesi, collettivi e associazioni femministe varie si sono attivate per organizzare una “marea” contro le violenze sessiste e sessuali. Ad un anno dell’onda #MeToo, che in Francia ha avuto una risonanza importante, il progetto di “Nous Toutes” era di far nascere un movimento unitario e di massa, in un paese dove il movimento femminista è marcato da anni da tensioni e forti divisioni. E l’operazione è riuscita: sabato erano più di 50.000 le persone che sono scese in piazza in tutta la Francia, di cui 30.000 a Parigi. Poco rispetto alla manifestazione di Roma, ma tanto per la Francia, dove l’anno scorso in piazza eravamo poco più di 2000.

Quello che conta notare, è che le persone scese in piazza contro il sessismo erano molte di più degli 8000 gilets gialli che hanno marciato sugli Champs Elysées, e che nei giorni successivi sono stati la prima notizia su tutti i media.6

Si possono fare molti altri esempi di lotte di massa che si sono susseguite nelle ultime settimane in Francia, e che tuttavia non hanno ottenuto la stessa risonanza mediatica di quella dei gilets gialli: gli insegnanti hanno manifestato il 12 novembre per difendere la scuola di fronte alla soppressione di molti posti; dalla Dordogne a Rouen, i postini hanno scioperato contro lo smantellamento del servizio postale pubblico; il 20 novembre infermieri ed infermiere si sono mobilitati per il finanziamento degli ospedali. Movimenti per la difesa del servizio pubblico – dall’accesso alla sanità alla formazione professionale, passando dall’assicurazione sanitaria, la giustizia “di prossimità”, il soccorso alla persona, i servizi ai disoccupati o l’educazione – e per l’aumento dei salari ed il miglioramento delle condizioni di lavoro.7 Pochi giorni fa, il governo ha annunciato un aumento delle spese di iscrizione all’università per gli studenti stranieri “extracomunitari”. Anche questa misura porterà a nuove proteste e mobilitazioni.

Più che una convergenza delle lotte, è una moltiplicazione delle lotte quella che sembra essere in corso oggi in Francia. Lotte con pratiche differenti – gli studenti delle grandi città non posseggono né macchine né gilets gialli – ma che esprimono tutte lo stesso scontento, la stessa rabbia verso le politiche dell’attuale governo come dei precedenti.

Perché tanta visibilità? La strategia di Macron: caricaturare per meglio regnare

Vedremo nelle prossime settimane se la Francia periferica riuscirà ad unirsi con la Francia dei grandi centri urbani, degli studenti e dei lavoratori sindacalizzati. Per ora, il governo sembra intenzionato a non cambiare rotta. Domenica 25 la ministra dei trasporti, Elisabeth Borne, ha ribadito che il governo non tornerà indietro sulla “tassa carbonio”. Ieri, martedì 27, Macron ha fatto una serie di annunci sulla transizione ecologica, senza fare concessioni ai gilets gialli. Intanto, lo stato reprime e sgombera i blocchi, centinaia di persone sono state fermate dalle forze dell’ordine e alcune già condannate a pene di carcere, e il governo ha duramente condannato gli scontri avvenuti sugli Champs Elysées.

Sabato sera un tweet di Macron confermava il suo sostegno alle forze dell’ordine e dichiarava: «Vergogna a coloro che hanno provato ad intimidire i deputati. Non c’è posto per la violenza nella Repubblica». Come al solito, i principali media hanno ampiamente servito la strategia del governo, focalizzando l’attenzione sulle violenze per screditare il movimento.

Ma c’è dell’altro, di più sottile e più machiavellico – e sicuramente più pericoloso – nella strategia di Macron. Nel tentativo del governo (e dei media) di dipingere il movimento dei gilets gialli come una devianza popolare pilotata dall’estrema destra, c’è una manovra per ridare consenso al partito del Presidente, la maggioranza de La République en Marche, e preparare così il terreno per le elezioni europee.

Questa manovra è cominciata già da alcuni mesi, ed è da riconnettere anche alle perquisizioni subite dai maggiori esponenti della France Insoumise, la principale forza d’opposizione a sinistra. A settembre, dopo una primavera di mobilitazioni, ma soprattutto dopo l’”affaire Benalla” seguito alle rivelazioni dei video in cui si vede la guardia del corpo del Presidente picchiare manifestanti travestito da poliziotto, Macron è letteralmente precipitato nei sondaggi. Il leader della France Insoumise Jean-Luc Mélenchon, invece, raggiungeva il picco dei suoi consensi, diventando così la principale e più coerente forza di opposizione a Macron.

A ottobre, il governo stava attraversando un’ulteriore crisi con le dimissioni del Ministro dell’Ambiente, il verde Nicolas Hulot – che denunciava l’influenza delle lobby sulla politica – e del Ministro dell’Interno Gérard Collomb. E’ in questo contesto che sono giunti una serie di attacchi contro la France Insoumise. Lo stesso giorno in cui Macron annunciava il rimpasto ministeriale, un clamoroso raid di polizia colpiva simultaneamente una quindicina di sedi del movimento e di domicili dei suoi quadri. Un’operazione di un’ampiezza inedita nella storia politica francese, soprattutto se pensiamo che è avvenuta solo nel quadro di un’indagine preliminare riguardante le spese elettorali di FI.

Macron ha aperto così la sua campagna per le elezioni europee di maggio 2019, che mira a presentare il suo partito come la sola forza “progressista” contro i “nazionalismi”, appaiando il Rassemblement National e la France Insoumise nello stesso cestino “populista”. Nel 2017, Macron è stato eletto principalmente grazie al voto contro Le Pen – come era già avvenuto nel 2002 quando Jacques Chirac vince l’elezione contro Jean-Marie Le Pen (il padre di Marine), con l’importante differenza che, mentre Chirac aveva vinto con 82% dei voti, Macron ha vinto solo con il 66%...

La strategia di Macron consiste nel voler riproporre per le europee lo stesso scenario. Per questo motivo tende ad auto-rappresentarsi come “l’anti-Salvini” e l’”anti-Orban”. Eppure, la politica migratoria di Macron, quella messa in campo con la legge Asilo e Immigrazione dell’anno scorso, è perfettamente in linea con quella di Salvini o di Trump: ad esempio se si guarda alla detenzione di bambini ed al prolungamento delle detenzioni amministrative.8

Di fatto, la falsa alternativa che si va costruendo al livello europeo tra Macron e Orban è identica alla falsa alternativa italiana esistente tra Renzi e Salvini-Di Maio. Il populismo identitario e xenofobo che fiorisce in tutta Europa, lungi dall’essere una reazione o un’alternativa alle politiche neoliberiste, ne è un’estensione.9 Come ha sottolineato di recente il docente Quinn Slobodian, gli esponenti dell’Alternative fur Deutschland tedesca, cosi come quelli dell’estrema destra austriaca hanno legami stretti con la famosa Mont Pellerin Society, tempio intellettuale mondiale del neoliberismo.10

La flat tax voluta dal governo Salvini-Di Maio è un altro esempio della connivenza che la nuova destra identitaria intrattiene con le idee del blocco neoliberista (di centro-sinistra e centro-destra). Le due famiglie politiche alla fine dei conti si riconoscono, sia in materia di politiche economiche che di politiche migratorie, sugli stessi obiettivi: lasciar circolare i capitali e sbarrare la strada agli esseri umani. L’Europa voluta da Salvini e Orban è la declinazione e l’estensione identitaria dell’Europa neoliberista, non il suo contrario.

E’ dunque un’Europa azzuro-bruna che si sta profilando all’orizzonte. I due blocchi, malgrado le loro complicità, competeranno nelle urne. Negli ultimi sondaggi, il partito di Le Pen è in testa delle intenzioni di voto per le Europee, davanti al partito di Macron, alla destra di Les Républicains e alla France Insoumise.11

Da qualche giorno, i principali media stanno agitando lo spettro degli estremismi, quando ribadiscono che il Rassemblement National, ormai presentata come la principale forza d’opposizione del paese, agisce sotterraneamente per organizzare una sterzata violenta dei gilets gialli. Per evitare di cadere nella trappola di Macron, attiviamoci al fianco dei gilets jaunes sabato prossimo sull’Avenue degli Champs Elysées.

Note

1 https://www.challenges.fr/classement/le-patrimoine-des-10-plus-grandes-fortunes-francaises-a-explose-en-20-ans_483310

2 http://www.revolutionpermanente.fr/Pouvoir-d-achat-le-revenu-disponible-moyen-a-diminue-de-pres-de-500-euros-entre-2008-et-2016

3 https://www.arretsurimages.net/chroniques/le-matinaute/gilets-jaunes-et-passoires-thermiques

4 https://www.huffingtonpost.fr/2018/11/19/la-justice-saisie-apres-une-video-montrant-des-gilets-jaunes-tenir-des-insultes-racistes_a_23593211/

5 https://www.ouest-france.fr/societe/gilets-jaunes/martinez-parmi-les-gilets-jaunes-des-elements-d-extreme-droite-6087576

6 https://www.huffingtonpost.fr/2018/11/24/la-marche-noustoutes-a-paris-a-rassemble-bien-plus-de-monde-que-la-manif-des-gilets-jaunes_a_23599340/?utm_hp_ref=fr-homepage

7 https://www.bastamag.net/Ces-combats-pour-plus-de-justice-sociale-et-sans-gilets-jaunes-dont-les-chaines

8 https://www.jacobinmag.com/2018/11/daniele-obono-france-insoumise-macron-salvini-antiracism

9 Come lo spiega il philosopho Michel Feher: https://aoc.media/opinion/2018/08/28/alerte-orange-leurope-bleue-brune-de-guerre-commerciale-planche-de-salut/

10 http://www.publicseminar.org/2018/02/neoliberalisms-populist-bastards/

11 https://www.lci.fr/politique/europeennes-le-rassemblement-national-en-tete-des-intentions-de-vote-en-marche-recule-2104838.html

Fonte