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03/02/2013

Italia: c'è ancora spazio per il film d'impegno civile?

Fare film politici è pratica ormai desueta, nel panorama cinematografico italiano.

Il film di impegno civile, il “pezzo unico” con finalità divulgative e d’indagine, orientato cioè alla trattazione critica di un tema sociale è stato soppiantato dall’utilizzo disorganizzato dei supporti digitali.
Negli anni ’60 e ’70, non ancora del tutto archiviata l’eredità del neorealismo, il cinema era un filtro prodigioso per uno sguardo politico sulla società. Si producevano film in grado di restare integri nel tempo e di consegnarci immutato dopo anni, il senso e l’impatto profondo di lavori nati con uno scopo preciso: trasferire il conflitto sociale sul grande schermo. Quel modo di fare cinema, diventava parte integrante del conflitto, e a volte anche prodigioso mezzo di propaganda.
Tentare di fare un cinema del genere oggi potrebbe apparire un’opzione addirittura fallimentare. Eppure rimodernando la formula del cinema politico, cioè sottraendola al gioco schematico dello scontro diretto con i simulacri del potere, ancora oggi è possibile sfruttare il mezzo in questo modo. Nonostante tutto, la vocazione al cinema politico in Italia non si è mai sopita completamente, ma produce risultati appannati e volatili. La forza dei temi trattati viene fiaccata da un sistema produttivo e distributivo soffocante, specchio di un regime burocratico che ha portato la cinematografia nazionale a produrre poco più di cento film l’anno, di cui meno della metà distribuiti nei circuiti ufficiali. Un tipo di burocrazia che ha di fatto affossato l’industria cinematografica, rendendola appannaggio di poche élite.
Tutto ciò a fronte di punte di mille film prodotti nel trentennio ’60-’80. Cifre popolari. Un’epoca ormai chiusa.
Negli anni d’oro del cinema militante la funzione politica e sociale dell’audiovisivo era equamente divisa tra cinema di finzione e cinema documentaristico. Film e documentari formavano un vero e proprio fronte compatto, ed erano ben in grado di interpretare gli umori e le tensioni sociali dell’epoca. Tale proporzione è oggi completamente sbilanciata a carico della cinematografia documentaria di breve o lunga durata, con una serie di aggravanti: l’assenza totale o quasi di distribuzione; il disinteresse del mercato per prodotti di questo genere, anche quelli meno “rischiosi” da un punto di vista dei contenuti; l’assenza totale di un supporto istituzionale, anche di natura economica, in tutte le fasi della progettazione documentaristica; la ghettizzazione della filmografia “militante” a prodotto minoritario, di scarso interesse, inutilizzabile sotto l’aspetto commerciale.
Se da un lato il cinema di finzione del mercato mainstream vive e sopravvive grazie all’assistenzialismo di stato, per il cinema documentaristico e per i sempre più rari film di impegno civile, le risorse si assottigliano fino ad annullarsi. I fondi statali vengono elargiti secondo due criteri: discrezionali e non discrezionali. Un’apposita commissione nominata dal MiBac (Ministero Beni Culturali direzione cinema) stabilisce con criteri del tutto arbitrari quali progetti filmici e quali no abbiano diritto ad accedere ai fondi statali e alla denominazione di “film di interesse culturale nazionale”. Ai criteri stabiliti della commissione va aggiunto un punteggio, e passiamo così ai criteri “non discrezionali”. Il punteggio si calcola in base alla notorietà dei personaggi coinvolti nel progetto, dai registi ai direttori della fotografia, passando ovviamente per gli attori. Nomi di richiamo equivalgono a punteggio alto, e maggiore possibilità di accesso ai finanziamenti. Nomi di illustri sconosciuti, molto probabilmente affosseranno qualsiasi speranza. I due criteri si applicano anche ai fantomatici fondi per i documentari, mai concessi, secondo quanto dichiarano i “Documentaristi anonimi”, gruppo toscano di lotta per i diritti dei cineasti.
Meno legami con le istituzioni e con i canali ufficiali garantiscono maggior libertà espressiva, ma possibilità esigue di essere distribuiti nei circuiti di maggior visibilità e di concepire almeno un piano di rientro economico. Fare cinema militante significa fare cinema in perdita, ma significa anche assicurare al vasto pubblico dell’associazionismo extraparlamentare e alle aree dell’attivismo civile, comprese certe università, quell’area di compensazione che solo l’audiovisivo può garantire. Quel respiro - quel sollievo, potremmo dire - che solo la consapevolezza di avere a disposizione un mezzo di riproduzione che fissi in eterno i propri ideali, un supporto tangibile, visibile, che corrobori ogni lotta, ogni forma di resistenza, può regalare. È questo il cinema militante. Esattamente ciò che era quarantacinque anni fa. E le nuove realtà produttive che nascono un po’ ovunque in Italia, non ancora in grado di darsi un’identità precisa, ma tendenti al comune obiettivo di scavalcare le logiche di mercato - se non ignorarle del tutto - si muovono in questo senso.
Paradossalmente, con il moltiplicarsi dell’offerta televisiva in seguito all’avvento del digitale, se l’audience media si va assottigliando, spezzettandosi su molti altri canali, aumentano gli spazi per la messa in onda di documentari a carattere sociale e divulgativo, spesso anche politico. Il documentario viene defenestrato dalle sale cinematografiche e trova ospitalità sul piccolo schermo, ma a condizioni spesso davvero poco tollerabili. Non di rado i documentari vengono sfumati senza preavviso per lasciare spazio al programma successivo, o mandati in onda gratuitamente, vanificando quindi ogni sforzo profuso per la realizzazione.
L’unica speranza resta rivolgersi al mercato estero, dove i film d’arte, i film d’inchiesta, le varie forme del documentario più impegnato e schierato trovano la giusta collocazione e il giusto sostegno finanziario. Dove la cinematografia militante resta parte integrante del tessuto sociale e culturale di un paese, e non prodotto che abbassa l’audience e non porta pubblicità.

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