Fare film politici è pratica ormai desueta, nel panorama cinematografico italiano.
Il film di impegno civile, il “pezzo unico” con finalità
divulgative e d’indagine, orientato cioè alla trattazione critica di un
tema sociale è stato soppiantato dall’utilizzo disorganizzato dei
supporti digitali.
Negli anni ’60 e ’70, non ancora del tutto
archiviata l’eredità del neorealismo, il cinema era un filtro prodigioso
per uno sguardo politico sulla società. Si producevano film in grado di
restare integri nel tempo e di consegnarci immutato dopo anni, il senso
e l’impatto profondo di lavori nati con uno scopo preciso: trasferire
il conflitto sociale sul grande schermo. Quel modo di fare cinema,
diventava parte integrante del conflitto, e a volte anche prodigioso
mezzo di propaganda.
Tentare di fare un cinema del genere oggi
potrebbe apparire un’opzione addirittura fallimentare. Eppure
rimodernando la formula del cinema politico, cioè sottraendola al gioco
schematico dello scontro diretto con i simulacri del potere, ancora oggi è
possibile sfruttare il mezzo in questo modo. Nonostante tutto, la
vocazione al cinema politico in Italia non si è mai sopita completamente, ma
produce risultati appannati e volatili. La forza dei temi trattati
viene fiaccata da un sistema produttivo e distributivo soffocante,
specchio di un regime burocratico che ha portato la cinematografia
nazionale a produrre poco più di cento film l’anno, di cui meno della
metà distribuiti nei circuiti ufficiali. Un tipo di burocrazia che ha di
fatto affossato l’industria cinematografica, rendendola appannaggio di
poche élite.
Tutto ciò a fronte di punte di mille film prodotti nel trentennio ’60-’80. Cifre popolari. Un’epoca ormai chiusa.
Negli
anni d’oro del cinema militante la funzione politica e sociale
dell’audiovisivo era equamente divisa tra cinema di finzione e cinema
documentaristico. Film e documentari formavano un vero e proprio fronte
compatto, ed erano ben in grado di interpretare gli umori e le tensioni
sociali dell’epoca. Tale proporzione è oggi completamente sbilanciata a
carico della cinematografia documentaria di breve o lunga durata, con una
serie di aggravanti: l’assenza totale o quasi di distribuzione; il
disinteresse del mercato per prodotti di questo genere, anche quelli
meno “rischiosi” da un punto di vista dei contenuti; l’assenza totale di
un supporto istituzionale, anche di natura economica, in tutte le fasi
della progettazione documentaristica; la ghettizzazione della
filmografia “militante” a prodotto minoritario, di scarso interesse,
inutilizzabile sotto l’aspetto commerciale.
Se da un lato il cinema
di finzione del mercato mainstream vive e sopravvive grazie
all’assistenzialismo di stato, per il cinema documentaristico e per i sempre
più rari film di impegno civile, le risorse si assottigliano fino ad
annullarsi. I fondi statali vengono elargiti secondo due criteri:
discrezionali e non discrezionali. Un’apposita commissione nominata dal
MiBac (Ministero Beni Culturali direzione cinema) stabilisce con
criteri del tutto arbitrari quali progetti filmici e quali no abbiano
diritto ad accedere ai fondi statali e alla denominazione di “film di
interesse culturale nazionale”. Ai criteri stabiliti della commissione
va aggiunto un punteggio, e passiamo così ai criteri “non
discrezionali”. Il punteggio si calcola in base alla notorietà dei
personaggi coinvolti nel progetto, dai registi ai direttori della
fotografia, passando ovviamente per gli attori. Nomi di richiamo
equivalgono a punteggio alto, e maggiore possibilità di accesso ai
finanziamenti. Nomi di illustri sconosciuti, molto probabilmente
affosseranno qualsiasi speranza. I due criteri si applicano anche ai
fantomatici fondi per i documentari, mai concessi, secondo quanto
dichiarano i “Documentaristi anonimi”, gruppo toscano di lotta per i
diritti dei cineasti.
Meno legami con le istituzioni e con i canali
ufficiali garantiscono maggior libertà espressiva, ma possibilità esigue
di essere distribuiti nei circuiti di maggior visibilità e di concepire
almeno un piano di rientro economico. Fare cinema militante significa
fare cinema in perdita, ma significa anche assicurare al vasto pubblico
dell’associazionismo extraparlamentare e alle aree dell’attivismo
civile, comprese certe università, quell’area di compensazione che solo
l’audiovisivo può garantire. Quel respiro - quel sollievo, potremmo dire
- che solo la consapevolezza di avere a disposizione un mezzo di
riproduzione che fissi in eterno i propri ideali, un supporto tangibile,
visibile, che corrobori ogni lotta, ogni forma di resistenza, può
regalare. È questo il cinema militante. Esattamente ciò che era
quarantacinque anni fa. E le nuove realtà produttive che nascono un po’
ovunque in Italia, non ancora in grado di darsi un’identità precisa, ma
tendenti al comune obiettivo di scavalcare le logiche di mercato - se non
ignorarle del tutto - si muovono in questo senso.
Paradossalmente,
con il moltiplicarsi dell’offerta televisiva in seguito all’avvento del
digitale, se l’audience media si va assottigliando, spezzettandosi su
molti altri canali, aumentano gli spazi per la messa in onda di
documentari a carattere sociale e divulgativo, spesso anche politico. Il
documentario viene defenestrato dalle sale cinematografiche e trova
ospitalità sul piccolo schermo, ma a condizioni spesso davvero poco
tollerabili. Non di rado i documentari vengono sfumati senza preavviso
per lasciare spazio al programma successivo, o mandati in onda
gratuitamente, vanificando quindi ogni sforzo profuso per la
realizzazione.
L’unica speranza resta rivolgersi al mercato estero,
dove i film d’arte, i film d’inchiesta, le varie forme del documentario
più impegnato e schierato trovano la giusta collocazione e il giusto
sostegno finanziario. Dove la cinematografia militante resta parte
integrante del tessuto sociale e culturale di un paese, e non prodotto
che abbassa l’audience e non porta pubblicità.
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