La famiglia Riva è a questo punto la sintesi dell'imprenditoria
italiana. Il contrasto tra interesse privato e interessi pubblici è qui
esemplare. Ogni suo comportamento è “tipico”, comune a tutti i padroni
di una certa dimensione.
Felice Riva ha acquisito lo stabilimento di Taranto nel
1995, in seguito alla crisi e alla liquidazione della Finsider, società
del gruppo Iri, quindi di proprietà statale. Una privatizzazione in
piena regola, dunque, che è costata a Riva una miseria garantendogli
però quasi il monopolio della produzione d'acciaio in Italia. Impianti
più piccoli, come Piombino, furono affidati invece a Lucchini. La
privatizzazione non era dovuta a una presunta inefficienza del
“pubblico” rispetto al privato, ma alla più generale crisi dell'acciaio
in Europa, che venne gestita a livello comunitario con tanto di lista
degli impianti da chiudere (memorabile il caso di Bagnoli, chiusa appena
conclusa una costosissima ristrutturazione).
Riva non ha
investito una lira nella modernizzazione dello stabilimento. I
macchinari e l'organizzazione generale della produzione sono ancora
quelli dell'inaugurazione, nel 1965. Ogni centesimo di profitto non è
stato dunque reinvestito nell'attività – nel core business, come
dicono i patiti dell'economia borghese - ma nascosto nei paradisi
fiscali e quindi riversato nel mare magnum della speculazione
finanziaria.
Gli investimenti veri sono stati tutti in
corruzione. Riva si è costruito una rete di protezione molto articolata
“ungendo” o stipendiando politici nazionali, mezzo ministero
dell'ambiente, amministratori locali, poliziotti, giornalisti,
funzionari, controllori di vario livello. E naturalmente del sindacato.
Anche la Fiom, a Taranto, non si è certo coperta di gloria; l'operazione
“pulizia”, scattata circa un anno fa, è stata tardiva e soprattutto
incompleta.
Quando la magistratura si è finalmente attivata,
questa rete di protezione si è messa in moto all'unisono. Soprattutto a
livello ministeriale, mediatico e sindacale. La nuova “autorizzzione
integrata ambientale” esce dagli stessi uffici e dalle stesse mani della
precedente, del 2011, che nelle intercettazioni l'avvocato dell'Ilva
così riassume: “la Commissione ha accettato il 90% delle nostre
osservazioni e la visita allo stabilimento riguarda solo il 10%. Non
avremo sorprese”.
Questo è l'imprenditoria italiana. Questo è lo Stato italiano, questo il suo governo, “tecnico” o politico che sia.
Questo stesso governo pensa ora di militarizzare l'impianto con un
decreto che lo dichiari “zona di interesse strategico”. Una presa in
carico dei costi da parte dello Stato per mantenere in piedi l'attività,
risanare per quanto possibile lo stabilimento e poi restituirlo al
“privato” delinquenziale. La militarizzazione impedirebbe alla
magistratura di mettere il naso in quel che accade lì dentro d'ora in
poi; silenzierebbe la stampa, privando la popolazione delle informazioni
minime sui pericoli per salute; inchioderebbe i lavoratori ai
macchinari, condannandoli al silenzio e impedendone la normale
conflittualità sindacale.
Non si tratterebbe di una
nazionalizzazione, è evidente, ma solo di una secretazione di quanto
verrà fatto per garantire i profitti privati con risorse pubbliche.
Eppure la nazionalizzazione delle imprese abbandonate dai “prenditori”
in fuga è una necessità che emerge dai fatti, da quel che accade in
altri paesi europei, dal bisogno di mantenere una struttura industriale
tale da supportare le necessità “strategiche” di un paese. Il governo
francese, per esempio, sta valutando di ricorrere a questa soluzione per
mantenere l'attività degli altoforni francesi a Florange, in Lorena,
che ArcelorMittal vorrebbe dismettere. Ne ha dato annuncio addirittura
il presidente Hollande, in conferenza stampa congiunta con il premier
belga Elio Di Rupo.
L'unica cosa che non si può fare è assistere
passivamente allo smantellamento di quel che è stato costruito con i
nostri sacrifici – soldi pubblici, tasse uscite dalle nostre tasche –
soltanto perché abbiamo un governo di banchieri che teorizza e pratica
la distruzione dei beni pubblici in favore delle imprese private. Non ci
interessa neppure sapere se queste “imprese” siano dirette da
industriali veri (come Lakshmi Mittal, che in Italia possiede la Magona
di Piombino, e vorrebbe chiudere anche quella) o capintesta “prendi i
soldi e scappa” come i Riva. Vale anche per l'Alcoa e per altre cento
situazioni dello stesso genere.
Quel che serve a tutti, che è
interesse pubblico, va conservato. In mani pubbliche e con il controllo
primario dei lavoratori. Quei lavoratori che ieri a Taranto gridavano “i
padroni siamo noi” ci dicono la più semplice e sincera delle verità.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento