L'accordo sulla produttività è quanto di peggio ci possa essere sul piano reazionario e di classe, ma è perfettamente in linea con lo spirito del governo Monti. Il patto sulla produttività rappresenta un concentrato delle ideologie reazionarie e della programmata iniquità che è alla base della agenda Monti. La tesi di fondo che l'ispira è un brutale imbroglio di classe.
La produttività italiana ha toccato il massimo negli anni 70, quando il potere dei lavoratori nelle imprese e nel mercato del lavoro era al massimo. Da allora è sempre declinata, fino a crollare quando il sistema economico è stato strangolato dai vincoli dell'euro e del liberismo europeo.
In tutti questi anni il salario ha solo perso posizioni, sia rispetto ai profitti sia nel confronto con gli altri paesi Ocse. Un operaio italiano in un anno lavora due mesi in più del suo equivalente tedesco, eppure la produttività della Germania è ai vertici.
Allora perché in Italia si fa un accordo che chiede a chi lavora ancora più orario in cambio di ancor meno salario? Per la stessa ragione per la quale Monti vanta oggi il più feroce sistema pensionistico europeo, la massima flessibilità del lavoro i più brutali tagli alla scuola pubblica e allo stato sociale, e allo stesso tempo proclama che questo è solo l'inizio e pretende che i suoi successori di centrosinistra continuino sulla stessa strada.
Perché c'è un metodo in questa follia. Se l'Italia deve sottostare ai drastici vincoli dei patti di stabilità europea, delle banche e della finanza, della moneta unica, dei governi conservatori, se il sistema delle imprese vuole incrementare i margini di profitto nonostante la crisi, allora è chiaro che l'unica leva che rimane , l'unica reale flessibilità è quella che viene dal supersfruttamento del lavoro.
Il patto sulla produttività estende ovunque il sistema Marchionne: i pochi che ancora lavorano devono accettare di farlo ai prezzi del mercato globale, altro che contratti e diritti.
Tutto questo non ha nulla a che fare con la difesa dell'occupazione ma solo con quella dei profitti. Anzi la disoccupazione di massa è indispensabile per costringere i lavoratori a piegarsi al supersfruttamento . La disoccupazione deve restare e crescere, altrimenti il modello non funziona.
A tale fine il governo mette a disposizione la riduzione delle tasse solo per il salario flessibile. Mentre alla maggioranza dei lavoratori viene calata la paga, una minoranza può mantenere il potere d'acquisto se lavora di più in una azienda che va bene, e solo questa minoranza avrà meno tasse sulla busta paga. Questo mentre non si trovano più i fondi per la cassa integrazione o per l'indennità di disoccupazione.
Questo non è solo un accordo sindacale è un progetto di selezione sociale. Ed è la vera risposta alla crisi di Monti e degli interessi di classe che rappresenta. Interessi che impongono una svalutazione sociale del lavoro sempre più brutale, visto che quella che dura da trent'anni non è stata sufficiente.
Questo modello sociale reazionario si appoggia su un sistema corporativo di caste e interessi burocratici organizzati. Tutto il sistema delle imprese, comprese naturalmente le cooperative e le piccole aziende strettamente legate al Partito Democratico, ha sottoscritto con entusiasmo il testo. Tra i sindacati, i firmatari sono tutti coloro che hanno già sottoscritto le stesse condizioni alla Fiat, ricevendone in cambio la facoltà di sopravvivere protetti dal padrone.
La Cgil finora non ha aderito all'accordo, ma annaspando in un mare di contraddizioni e incertezze.
Il patto sulla produttività è in pochi anni il terzo accordo interconfederale che devasta il contratto nazionale e tutto il potere di contrattazione del lavoro. Il primo nel gennaio 2009 non è stato sottoscritto dalla Cgil. Il secondo, in pura continuità con il precedente, il 28 giugno del 2011 è invece stato firmato dalla stessa Cgil, che anzi con la Fiom oggi ne rivendica la piena applicazione. Ora il patto sulla produttività scioglie ai danni dei lavoratori alcune formule ambigue dell'accordo precedente, demolendo definitivamente il contratto nazionale.
Ma firmare una volta sì e una no non costruisce un'alternativa al cedimento, a maggior ragione poi quando i principali contratti sottoscritti in questa stagione già dispensano un'orgia di flessibilità e solo nei meccanici la contrattazione è separata.
Il no della Cgil è dunque di fronte al solito bivio ove da tempo si dividono tutte le posizioni critiche verso il liberismo. Si fa sul serio, oppure si testimonia il dissenso e poi ci si adatta alle nuove schiavitù ricercando il male minore?
Il bivio dei contratti è lo stesso della politica.
Il centrosinistra ha già deciso di far finta di superare Monti, mentre sottoscrive tutte gli impegni assunti dall'attuale governo. La Cgil seguirà la stessa strada, cedendo con adeguata fermezza alla cancellazione di ogni solidarietà contrattuale tra i lavoratori?
Se non si vuole seguire un copione già recitato tante volte, non basta non firmare l'accordo. Se non si è d'accordo con il patto sulla produttività, bisogna combatterlo, disobbedire alle sue regole, scontrarsi con chi invece le accetta.
O si sta, anche solo passivamente, con Monti, la sua politica , i suoi accordi, o si sta contro di essi e contro chi li sostiene, in mezzo ci sono solo impotenza e ipocrisia.
Giorgio Cremaschi
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