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19/11/2012

Influencer

“Gli influencer vanno valutati dalle aziende come asset strategici”. La frase, caricata su youtube nel maggio del 2009, potrebbe anche essere archiviata come tipica del primo periodo di euforia delle aziende verso il cosiddetto web 2.0. Si tratta di un periodo in cui si pubblicano ancora libri su Second Life, improvvisamente scomparsi dopo l’inizio del nuovo decennio, mentre la crisi non ha ancora manifestato gli effetti più crudi (anche se allora già ampiamente prevedibili). Insomma, qualcosa da catalogare come un fenomeno che sta già tra il modernariato e l’annuncio di nuove pratiche di comunicazione. Anche perché lungo tutta la decade degli anni zero era fiorita tutta una bibliografia sul marketing virale, o marketing guerriglia, che stava (a volte in modo ambiguamente compiaciuto) al punto di incrocio tra promozione aziendale, innovazione creativa e controinformazione.

Ma cosa sono gli influencer? Si tratta di una figura sia professionale che gratuita di evoluzione della comunicazione embedded di rete. Per comunicazione embedded di rete si intende quel tipo di comunicazione implementata nei social network da soggetti riconosciuti come facenti naturalmente parte di una rete. La comunicazione di rete embedded stava nelle teorizzazioni del marketing virale e del guerriglia marketing: se la tua opinione è riconosciuta come realmente appartenente ad un social network verrà fatta circolare in modo spontaneo. Si comprende quindi il segreto di questo genere di comunicazione: sta nella capacità di fare embedding, di infiltrarsi nei social network (oppure di crearli a propria immagine e somiglianza, una delle varianti del modello).

L’influencer è quindi un’evoluzione, anche in termini professionali, della comunicazione embedded. Una figura, correlata ad altre figure simili, aziendale ma pienamente interna alla comunicazione sociale che produce, in rete, giudizi favorevoli per l’azienda per cui lavora. Giudizi che saranno accettati come naturali dal resto dei partecipanti al social network quanto più l’influencer sarà considerato parte integrante del gruppo, in grado di dare giudizi autorevoli. Si tratta di giudizi che possono orientare l’acquisto di prodotti tecnologici (fondamentale in un’epoca dove per acquistare si leggono prima i giudizi dei tester), l’industria del turismo, la scelta dei centri commerciali etc.  L’influencer è il prodotto non solo dell’evoluzione del marketing virale, che già fissava questi principi di azione, ma anche delle teorie generali del marketing. Si guardi ad un testo base in materia come Foundation of Marketing (di Pride-Ferrell) giunto alla quinta edizione nel 2012.  Pride e Ferrell dicono chiaramente che nel marketing si è imposto stabilmente il paradigma Disney che è “non tanto vendere parchi a tema ma rendere le persone felici”. La differenza tra la vendita di un prodotto e la costruzione dell’esperienza felice sta nella capacità o meno di essere embedded nelle reti sociali. Tanto più l’influencer, con i suoi consigli positivi di acquisto, sarà infiltrato nelle reti sociali tanto più, come in un processo spontaneo, contribuirà alla formazione di un’esperienza, non alla vendita di un prodotto. Si tratta di seguire le emozioni precedenti e successive all’acquisto che, per essere tali, devono essere sganciate dalla fase della transazione commerciale. Costruendo così valore aggiunto, valutabile in termini di prezzo, proprio attorno al prodotto. Per questo l’influencer va valutato dalle imprese come asset strategico.

Per saper quanto costa creare valore aggiunto attorno ad un nuovo prodotto, una persona, una campagna, basta consultare il tariffario di payperfan.it. Eccolo qui disponibile:

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La questione si fa ancora più interessante quando scopriamo che la frase citata all’inizio, sul ruolo strategico degli influencer, è di Gianroberto Casaleggio, cofondatore del Movimento 5 Stelle ed oggetto di critiche e di mitologie negative da diverso tempo. Il punto più interessante qui non è domandarsi, come fanno alcuni testi di denuncia, quale o quanta massa inconsapevole di user possa essere utilizzata in politica dai comportamenti di Casaleggio. Anche se non esistessero gli influencer, o se non esistesse ancora Internet, la comunicazione di massa si farebbe sempre allo stesso modo: una rete di opinion leader dal basso e reti di massa di persone che convergono, o si distaccano, dalle loro opinioni.  Il punto importante è che tipo di modello di democrazia di base esce dal rapporto tra opinion leader e reti di massa. Con gli influencer che non offrono tanto un prodotto politico ma un’esperienza. Le tecnologie, in quest’ottica, servono ad evidenziare un modello di democrazia, o il suo svuotamento, piuttosto che un altro. In politica con la pratica degli influencer la comunicazione dal basso prende così forme nettamente aziendali: vende un’esperienza di mobilitazione, negoziata attraverso le esigenze strategiche dell’impresa che la promuove, piuttosto che un prodotto d’opinione o un’offerta elettorale. Nella comunicazione politica l’esperienza di mobilitazione è un bene intenso, scarso e raro che, una volta fornito, permette il successo di campagne di opinione, di pressione od elettorali.

Non dobbiamo pensare però che Casaleggio sia una sorta di dottor Mabuse della comunicazione politica in mezzo ad un mondo inconsapevole. Guardando agli antagonisti diretti del Movimento 5 Stelle, il Partito Democratico, è evidente che l’uso degli influencer non è di oggi. A cominciare dal periodo in cui l’account twitter di Bersani, i cui tweet erano digitati con le “k” come tra gli adolescenti, era evidentemente gestito in termini che si volevano professionali.  L’uso degli influencer è molto ampio anche nel centrosinistra. Influencer che seguono le indicazioni degli spin-doctor, i responsabili dell’orientamento del significato nelle campagne di comunicazione, che fanno capo ad ogni leader, o presunto tale, del PD. Partito che è in questa dimensione fino a cavalcare ogni frontiera dell’economia della rete: sul sito ufficiale del Pd, pochi giorni fa, campeggiava la pubblicità del trading online. Lo stesso Grillo, a sua volta, è sotto attacco di influencer basta vedere le strategie di marketing virale di portali come libero.it. Si offre un portale con un’utenza di centinaia di migliaia di persone, con casella di posta, community, decine di canali con argomenti dedicati, chat e forum a chi è sinergico con il proprio business. E, a questo punto non a caso, si può notare che la responsabile scuola del Partito Democratico, Francesca Puglisi, è una professionista del settore marketing-comunicazione. Un ottimo indizio delle idee che ha il PD in materia di sapere, insegnamento, formazione. Discipline ancellari del marketing, insomma.

Quindi al di là delle reciproche accuse, tra PD e M5S, di eterodirezione dell’elettorato, e di chi partecipa a campagne di opinione politica, è evidente che la figura professionale dell’influencer, accompagnata a chi svolge un simile ruolo per vocazione, rappresenta un passaggio importante nelle democrazie contemporanee. Esercita infatti l’egemonia del marketing virale aziendale nelle forme di comunicazione politica a rete. Marketing virale che è tanto più efficace quanto, come da manuale, riproduce una esperienza di mobilitazione. Ed è un terreno sul quale, come constatiamo ogni giorno, è forte il conflitto (in linguaggio aziendale, la competizione) tra diverse strategie di marketing politico-aziendale. La digitalizzazione della società, che ormai ha quasi passato il ventennio, ha infatti moltiplicato le forme temporali e spaziali di comunicazione, di produzione dei contenuti, di costruzione del legame sociale.

La costruzione degli influencer è una risposta aziendale, sulla quale si sovrappongono miriadi di strategie immaenti di aziende alla ricerca di egemonia, a questo fenomeno. Risposta che finisce per innestarsi nella comunicazione politica. Ricodificando, in termini di egemonia del linguaggio istituzionale, un terreno, anzi un continente digitale come lo definiva John Perry Barlow che non può sfuggire nelle società contemporanee, pena l’emarginazione politica. E operando quella che gli ormai antichi Bolter e Grusin definivano rimediazione. Ovvero quella capacità di inglobare, da parte delle forme digitali di comunicazione, anche le vecchie forme di comunicazione che, in questo modo, non scompaiono ma vengono ridefinite. Anche se quello che manca a Bolter e Grusin è uno schema dei conflitti che si aprono in questi contesti di rimediazione. Non si tratta solo di conflitti tra media, ad esempio la tv che demonizza internet che a sua volta decostruisce il messaggio televisivo, ma tra soggetti politici e sociali. Gli influencer intervengono quindi entro un processo di conflitto, mediale come politico e sociale, di costruzione di significati che si differenziano, ma non necessariamente collidono (vedi campagne su Twitter del PD replicate su Sky), rispetto ai media tradizionali. Fondamentale, per questo tipo di campagne dirette dagli influencer, è che tutto avvenga come in Existenz di David Cronenberg: un processo di naturalizzazione, fino all’estremo, di modalità e di strumenti della comunicazione. E’ una delle condizioni irrinunciabili di produzione delle esperienze.

E’ evidente che qualsiasi processo dal  basso, se democraticamente radicale, riesce quindi a permanere solo se rompe l’egemonia corrente degli influencer, e delle battaglie tra loro per la conquista di porzioni di terreno di comunicazione digitale, e degli attuali processi di rimediazione. Nei movimenti, nel momento in cui esplodono, funziona diversamente. I riot londinesi non hanno avuto bisogno di influencer, spiazzando le gerarchie e le pratiche dell’infosfera britannica lungo tutti i giorni della rivolta, così come quanto accaduto in Valsusa negli ultimi anni (sia sul terreno reale che su quello digitale) ha spiazzato le pratiche di influencing istituzionale (qualcuna, ad avviso di chi scrive, esternalizzata ad aziende). Ma quello che conta, in questo genere di comunicazione, non è lo stato di eccezione ma la norma. Passato il riot, che è un evento liminale di massa (che rompe cioè ruoli e confini consolidati di comportamento anche digitale), i dispositivi omeostatici riprendono il loro corso di elaborazione del legame sociale. E oggi gli influencer, pur nelle loro dinamiche di conflitto per la conquista di posizioni predominanti sul mercato, fanno parte di questi dispositivi omeostatici. Sembrano astrazioni, eppure tante spiegazioni sull’episodicità dei movimenti, che spesso si caratterizzano per esistere tra un riot ed un altro, stanno in fenomeni come quello degli influencer. Fenomeni di professionalizzazione della vendita dell’esperienza che può essere, in modo alternativo o complementare, distanza dalla politica o vicinanza alla dimensione del politico istituzionale.

Per Senza Soste nique la police

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