Ma cosa sono gli
influencer? Si tratta di una figura sia professionale che gratuita di
evoluzione della comunicazione embedded di rete. Per comunicazione
embedded di rete si intende quel tipo di comunicazione implementata nei
social network da soggetti riconosciuti come facenti naturalmente
parte di una rete. La comunicazione di rete embedded stava nelle
teorizzazioni del marketing virale e del guerriglia marketing: se la
tua opinione è riconosciuta come realmente appartenente ad un social
network verrà fatta circolare in modo spontaneo. Si comprende quindi il
segreto di questo genere di comunicazione: sta nella capacità di fare
embedding, di infiltrarsi nei social network (oppure di crearli a
propria immagine e somiglianza, una delle varianti del modello).
L’influencer
è quindi un’evoluzione, anche in termini professionali, della
comunicazione embedded. Una figura, correlata ad altre figure simili,
aziendale ma pienamente interna alla comunicazione sociale che produce,
in rete, giudizi favorevoli per l’azienda per cui lavora. Giudizi che
saranno accettati come naturali dal resto dei partecipanti al social
network quanto più l’influencer sarà considerato parte integrante del
gruppo, in grado di dare giudizi autorevoli. Si tratta di giudizi che
possono orientare l’acquisto di prodotti tecnologici (fondamentale in
un’epoca dove per acquistare si leggono prima i giudizi dei tester),
l’industria del turismo, la scelta dei centri commerciali etc.
L’influencer è il prodotto non solo dell’evoluzione del marketing
virale, che già fissava questi principi di azione, ma anche delle
teorie generali del marketing. Si guardi ad un testo base in materia
come Foundation of Marketing (di Pride-Ferrell) giunto alla quinta
edizione nel 2012. Pride e Ferrell dicono chiaramente che nel
marketing si è imposto stabilmente il paradigma Disney che è “non tanto
vendere parchi a tema ma rendere le persone felici”. La differenza tra
la vendita di un prodotto e la costruzione dell’esperienza felice sta
nella capacità o meno di essere embedded nelle reti sociali. Tanto più
l’influencer, con i suoi consigli positivi di acquisto, sarà infiltrato
nelle reti sociali tanto più, come in un processo spontaneo,
contribuirà alla formazione di un’esperienza, non alla vendita di un
prodotto. Si tratta di seguire le emozioni precedenti e successive
all’acquisto che, per essere tali, devono essere sganciate dalla fase della transazione commerciale. Costruendo così valore aggiunto,
valutabile in termini di prezzo, proprio attorno al prodotto. Per
questo l’influencer va valutato dalle imprese come asset strategico.
Per
saper quanto costa creare valore aggiunto attorno ad un nuovo
prodotto, una persona, una campagna, basta consultare il tariffario di payperfan.it. Eccolo qui disponibile:
http://payperfan.it/index.html
La questione si fa ancora più interessante quando scopriamo che la frase citata all’inizio, sul ruolo strategico degli influencer, è di Gianroberto Casaleggio, cofondatore del Movimento 5 Stelle ed oggetto di critiche e di mitologie negative da diverso tempo. Il punto più interessante qui non è domandarsi, come fanno alcuni testi di denuncia, quale o quanta massa inconsapevole di user possa essere utilizzata in politica dai comportamenti di Casaleggio. Anche se non esistessero gli influencer, o se non esistesse ancora Internet, la comunicazione di massa si farebbe sempre allo stesso modo: una rete di opinion leader dal basso e reti di massa di persone che convergono, o si distaccano, dalle loro opinioni. Il punto importante è che tipo di modello di democrazia di base esce dal rapporto tra opinion leader e reti di massa. Con gli influencer che non offrono tanto un prodotto politico ma un’esperienza. Le tecnologie, in quest’ottica, servono ad evidenziare un modello di democrazia, o il suo svuotamento, piuttosto che un altro. In politica con la pratica degli influencer la comunicazione dal basso prende così forme nettamente aziendali: vende un’esperienza di mobilitazione, negoziata attraverso le esigenze strategiche dell’impresa che la promuove, piuttosto che un prodotto d’opinione o un’offerta elettorale. Nella comunicazione politica l’esperienza di mobilitazione è un bene intenso, scarso e raro che, una volta fornito, permette il successo di campagne di opinione, di pressione od elettorali.
http://payperfan.it/index.html
La questione si fa ancora più interessante quando scopriamo che la frase citata all’inizio, sul ruolo strategico degli influencer, è di Gianroberto Casaleggio, cofondatore del Movimento 5 Stelle ed oggetto di critiche e di mitologie negative da diverso tempo. Il punto più interessante qui non è domandarsi, come fanno alcuni testi di denuncia, quale o quanta massa inconsapevole di user possa essere utilizzata in politica dai comportamenti di Casaleggio. Anche se non esistessero gli influencer, o se non esistesse ancora Internet, la comunicazione di massa si farebbe sempre allo stesso modo: una rete di opinion leader dal basso e reti di massa di persone che convergono, o si distaccano, dalle loro opinioni. Il punto importante è che tipo di modello di democrazia di base esce dal rapporto tra opinion leader e reti di massa. Con gli influencer che non offrono tanto un prodotto politico ma un’esperienza. Le tecnologie, in quest’ottica, servono ad evidenziare un modello di democrazia, o il suo svuotamento, piuttosto che un altro. In politica con la pratica degli influencer la comunicazione dal basso prende così forme nettamente aziendali: vende un’esperienza di mobilitazione, negoziata attraverso le esigenze strategiche dell’impresa che la promuove, piuttosto che un prodotto d’opinione o un’offerta elettorale. Nella comunicazione politica l’esperienza di mobilitazione è un bene intenso, scarso e raro che, una volta fornito, permette il successo di campagne di opinione, di pressione od elettorali.
Non dobbiamo pensare
però che Casaleggio sia una sorta di dottor Mabuse della comunicazione
politica in mezzo ad un mondo inconsapevole. Guardando agli antagonisti
diretti del Movimento 5 Stelle, il Partito Democratico, è evidente
che l’uso degli influencer non è di oggi. A cominciare dal periodo in
cui l’account twitter di Bersani, i cui tweet erano digitati con le “k”
come tra gli adolescenti, era evidentemente gestito in termini che si
volevano professionali. L’uso degli influencer è molto ampio anche nel
centrosinistra. Influencer che seguono le indicazioni degli
spin-doctor, i responsabili dell’orientamento del significato nelle
campagne di comunicazione, che fanno capo ad ogni leader, o presunto
tale, del PD. Partito che è in questa dimensione fino a cavalcare ogni
frontiera dell’economia della rete: sul sito ufficiale del Pd, pochi
giorni fa, campeggiava la pubblicità del trading online. Lo stesso
Grillo, a sua volta, è sotto attacco di influencer basta vedere le
strategie di marketing virale di portali come libero.it.
Si offre un portale con un’utenza di centinaia di migliaia di persone,
con casella di posta, community, decine di canali con argomenti
dedicati, chat e forum a chi è sinergico con il proprio business. E, a
questo punto non a caso, si può notare che la responsabile scuola del Partito Democratico, Francesca Puglisi, è una professionista del settore
marketing-comunicazione. Un ottimo indizio delle idee che ha il PD in
materia di sapere, insegnamento, formazione. Discipline ancellari del
marketing, insomma.
Quindi al di là
delle reciproche accuse, tra PD e M5S, di eterodirezione
dell’elettorato, e di chi partecipa a campagne di opinione politica, è
evidente che la figura professionale dell’influencer, accompagnata a chi
svolge un simile ruolo per vocazione, rappresenta un passaggio
importante nelle democrazie contemporanee. Esercita infatti l’egemonia
del marketing virale aziendale nelle forme di comunicazione politica a
rete. Marketing virale che è tanto più efficace quanto, come da
manuale, riproduce una esperienza di mobilitazione. Ed è un terreno sul
quale, come constatiamo ogni giorno, è forte il conflitto (in
linguaggio aziendale, la competizione) tra diverse strategie di
marketing politico-aziendale. La digitalizzazione della società, che
ormai ha quasi passato il ventennio, ha infatti moltiplicato le forme
temporali e spaziali di comunicazione, di produzione dei contenuti, di
costruzione del legame sociale.
La
costruzione degli influencer è una risposta aziendale, sulla quale si
sovrappongono miriadi di strategie immaenti di aziende alla ricerca di
egemonia, a questo fenomeno. Risposta che finisce per innestarsi nella
comunicazione politica. Ricodificando, in termini di egemonia del
linguaggio istituzionale, un terreno, anzi un continente digitale come
lo definiva John Perry Barlow che non può sfuggire nelle società
contemporanee, pena l’emarginazione politica. E operando quella che gli
ormai antichi Bolter e Grusin definivano rimediazione. Ovvero quella
capacità di inglobare, da parte delle forme digitali di comunicazione,
anche le vecchie forme di comunicazione che, in questo modo, non
scompaiono ma vengono ridefinite. Anche se quello che manca a Bolter e
Grusin è uno schema dei conflitti che si aprono in questi contesti di
rimediazione. Non si tratta solo di conflitti tra media, ad esempio la
tv che demonizza internet che a sua volta decostruisce il messaggio
televisivo, ma tra soggetti politici e sociali. Gli influencer
intervengono quindi entro un processo di conflitto, mediale come
politico e sociale, di costruzione di significati che si differenziano,
ma non necessariamente collidono (vedi campagne su Twitter del PD
replicate su Sky), rispetto ai media tradizionali. Fondamentale, per
questo tipo di campagne dirette dagli influencer, è che tutto avvenga come
in Existenz di David Cronenberg: un processo di naturalizzazione, fino
all’estremo, di modalità e di strumenti della comunicazione. E’ una
delle condizioni irrinunciabili di produzione delle esperienze.
E’
evidente che qualsiasi processo dal basso, se democraticamente
radicale, riesce quindi a permanere solo se rompe l’egemonia corrente
degli influencer, e delle battaglie tra loro per la conquista di
porzioni di terreno di comunicazione digitale, e degli attuali processi
di rimediazione. Nei movimenti, nel momento in cui esplodono, funziona
diversamente. I riot londinesi non hanno avuto bisogno di influencer,
spiazzando le gerarchie e le pratiche dell’infosfera britannica lungo
tutti i giorni della rivolta, così come quanto accaduto in Valsusa negli
ultimi anni (sia sul terreno reale che su quello digitale) ha
spiazzato le pratiche di influencing istituzionale (qualcuna, ad avviso
di chi scrive, esternalizzata ad aziende). Ma quello che conta, in
questo genere di comunicazione, non è lo stato di eccezione ma la
norma. Passato il riot, che è un evento liminale di massa (che rompe
cioè ruoli e confini consolidati di comportamento anche digitale), i
dispositivi omeostatici riprendono il loro corso di elaborazione del
legame sociale. E oggi gli influencer, pur nelle loro dinamiche di
conflitto per la conquista di posizioni predominanti sul mercato, fanno
parte di questi dispositivi omeostatici. Sembrano astrazioni, eppure
tante spiegazioni sull’episodicità dei movimenti, che spesso si
caratterizzano per esistere tra un riot ed un altro, stanno in fenomeni
come quello degli influencer. Fenomeni di professionalizzazione della
vendita dell’esperienza che può essere, in modo alternativo o
complementare, distanza dalla politica o vicinanza alla dimensione del
politico istituzionale.
Per Senza Soste nique la police
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