A centinaia di migliaia sono scesi in piazza contro
la Presidente Cristina Kirchner. Pentole alla mano, a protestare sono
un'oligarchia e una classe media contrariate dalle pur parziali riforme
del governo.
Com’era già accaduto il 13 settembre, la destra argentina ha convocato in piazza la classe media per manifestare contro il governo, e in particolare contro la presidente Cristina de Kirchner. Una protesta che ha portato in piazza molta gente, soprattutto a Buenos Aires, ma non solo, mutuando le classiche forme della protesta popolare: il ‘cacerolazo’. Padelle e mestoli alla mano, a centinaia di migliaia hanno occupato la Avenida 9 de Julio e l’Avenida Santa Fè come facevano qualche anno fa i proletari argentini mandati sul lastrico nel giro di pochi mesi dai governi corrotti e dalle multinazionali straniere che avevano comprato per quattro soldi infrastrutture che Kirchner prima e sua moglie poi hanno faticosamente riportato sotto il controllo dello stato.
Oltre che nelle città argentine la protesta è andata in scena anche davanti alle ambasciate e ai consolati di Buenos Aires a New York, Washington, Miami, Parigi, Roma, Madrid, Toronto e Londra.
Formalmente la protesta ha preso di mira il tentativo della ‘presidenta’ - rieletta con il 54% dei voti nell'ottobre del 2011 - di far approvare dal parlamento una riforma che le permetterebbe di ricoprire per la terza volta la carica di capo dello stato, mentre l’attuale costituzione limita a due i mandati consecutivi possibili. In realtà nessun progetto di legge è stato ancora presentato ma il fatto stesso che alcuni lo abbiano proposto non va giù ai contestatori.
Nel mirino della contestazione anche il potere economico e politico accumulato dalla famiglia Kirchner negli ultimi anni, la crescita dell’insicurezza, l’aumento dell'inflazione (ufficialmente il 10% ma realisticamente almeno in doppio).
Una protesta democratica e una giusta critica da sinistra quindi? Affatto. Che Cristina e i suoi abbiano messo da parte un consistente gruzzolo grazie alle cariche politiche occupate a vari livelli non è un segreto, e anche alcuni settori che sostengono criticamente il suo governo lo hanno più volte denunciato. Così come la recente apertura al mercato delle multinazionali dell’Ogm, o i casi crescenti di corruzione che hanno investito i suoi collaboratori.
Ma quella che è andata in piazza giovedì sera è una protesta di segno diverso. Che certamente prende spunto e strumentalizza le contraddizioni di una classe politica che ha fatto riforme strutturali e “di sinistra” senza essere particolarmente radicale. Ma che rimprovera apertamente al “kirchnerismo” di aver tolto prestigio, potere e privilegi a quei ceti sociali che hanno sempre fatto il buono e cattivo tempo mentre il popolo argentino soffriva prima la cieca repressione dei regimi fascisti e militari e poi le politiche turbo-liberiste dei governi cosiddetti democratici manovrati dal Fondo Monetario Internazionale.
Non è un caso che la protesta dell’altro ieri ha potuto contare sull’enorme megafono offerto dai principali e onnipotenti gruppi mediatici, con il Clarin e La Naciòn in prima linea, contro i quali il governo ha ingaggiato una battaglia senza quartiere che i monopoli dell’informazione non hanno proprio mandato giù.
Com’era già accaduto il 13 settembre, la destra argentina ha convocato in piazza la classe media per manifestare contro il governo, e in particolare contro la presidente Cristina de Kirchner. Una protesta che ha portato in piazza molta gente, soprattutto a Buenos Aires, ma non solo, mutuando le classiche forme della protesta popolare: il ‘cacerolazo’. Padelle e mestoli alla mano, a centinaia di migliaia hanno occupato la Avenida 9 de Julio e l’Avenida Santa Fè come facevano qualche anno fa i proletari argentini mandati sul lastrico nel giro di pochi mesi dai governi corrotti e dalle multinazionali straniere che avevano comprato per quattro soldi infrastrutture che Kirchner prima e sua moglie poi hanno faticosamente riportato sotto il controllo dello stato.
Oltre che nelle città argentine la protesta è andata in scena anche davanti alle ambasciate e ai consolati di Buenos Aires a New York, Washington, Miami, Parigi, Roma, Madrid, Toronto e Londra.
Formalmente la protesta ha preso di mira il tentativo della ‘presidenta’ - rieletta con il 54% dei voti nell'ottobre del 2011 - di far approvare dal parlamento una riforma che le permetterebbe di ricoprire per la terza volta la carica di capo dello stato, mentre l’attuale costituzione limita a due i mandati consecutivi possibili. In realtà nessun progetto di legge è stato ancora presentato ma il fatto stesso che alcuni lo abbiano proposto non va giù ai contestatori.
Nel mirino della contestazione anche il potere economico e politico accumulato dalla famiglia Kirchner negli ultimi anni, la crescita dell’insicurezza, l’aumento dell'inflazione (ufficialmente il 10% ma realisticamente almeno in doppio).
Una protesta democratica e una giusta critica da sinistra quindi? Affatto. Che Cristina e i suoi abbiano messo da parte un consistente gruzzolo grazie alle cariche politiche occupate a vari livelli non è un segreto, e anche alcuni settori che sostengono criticamente il suo governo lo hanno più volte denunciato. Così come la recente apertura al mercato delle multinazionali dell’Ogm, o i casi crescenti di corruzione che hanno investito i suoi collaboratori.
Ma quella che è andata in piazza giovedì sera è una protesta di segno diverso. Che certamente prende spunto e strumentalizza le contraddizioni di una classe politica che ha fatto riforme strutturali e “di sinistra” senza essere particolarmente radicale. Ma che rimprovera apertamente al “kirchnerismo” di aver tolto prestigio, potere e privilegi a quei ceti sociali che hanno sempre fatto il buono e cattivo tempo mentre il popolo argentino soffriva prima la cieca repressione dei regimi fascisti e militari e poi le politiche turbo-liberiste dei governi cosiddetti democratici manovrati dal Fondo Monetario Internazionale.
Non è un caso che la protesta dell’altro ieri ha potuto contare sull’enorme megafono offerto dai principali e onnipotenti gruppi mediatici, con il Clarin e La Naciòn in prima linea, contro i quali il governo ha ingaggiato una battaglia senza quartiere che i monopoli dell’informazione non hanno proprio mandato giù.
In
piazza, contro ‘K’, si sono mobilitati settori ultraconservatori o
apertamente reazionari, nostalgici delle dittature militari, all’insegno
di slogan qualunquisti o apertamente fascistoidi. Su molti cartelli e
in molti slogan la ‘Presidenta’ era presa di mira con slogan sessisti e
truculenti degni di una cultura machista e razzista caratteristica delle
oligarchie del paese e di tutta l’America Latina. Se in paesi come la
Bolivia o il Venezuela la destra gioca sui tratti indigeni dei
rispettivi capi di stato, in Argentina alla Kirchner i settori
reazionari proprio non riescono a perdonare che sia una donna a
ridimensionare i propri privilegi e le proprie aspettative. Così come
non le perdonano la collaborazione con i “comunisti” al potere a La Paz o
a Caracas.
Nonostante le enormi contraddizioni di un esperimento di governo che al
populismo di certe dichiarazioni ultraradicali associa spesso
l’immobilismo sui temi chiave dell’economia e delle relazioni sociali, i
Kirchner hanno indubbiamente introdotto novità consistenti nella
gestione del paese: dalla nazionalizzazione di alcune compagnie
petrolifere (la Ypf, ad esempio) all’ondata di processi contro i
militari e i gerarchi della dittatura ai quali i corrotti governi degli
anni ’90 avevano garantito l’impunità. Ancora niente di fronte alle
richieste dei settori popolari e delle organizzazioni sindacali e di
sinistra che chiedono una svolta verso il socialismo nella gestione del
paese. Ma veramente troppo per le elite escluse per la prima volta dopo
secoli dalla gestione di alcune quote di potere.Nonostante le versioni compiacenti anche di alcuni analisti e commentatori dalle pagine di giornali ‘progressisti’, i “caceroleros” di giovedì scorso nulla hanno a che vedere con la resistenza antineoliberista degli anni ’90 che portò all’argentinazo. Anzi, la protesta di questi giorni è di segno opposto.
Per contrastare la “vandea” dei settori sociali più retrogradi, Cristina Kirchner sembra voler scendere a compromessi con l’oligarchia, cercando di comperarne la tolleranza attraverso leggi che la favoriscono in alcuni settori (la speculazione edilizia, ad esempio). Il che non fa che rafforzare la protervia delle elite scese nelle strade con le pentole in mano. Che incitano apertamente al rovesciamento di un esperimento di governo che quantomeno ha parzialmente sottratto il paese alle grinfie degli Stati Uniti e di altre ex potenze coloniali. E che guardano con simpatia ai colpi di stato in Honduras e Paraguay, all’apertura di nuove basi militari statunitensi in Uruguay, Panama, Cile e Paraguay. O al fatto che la Sesta Flotta di Washington abbia ripreso a navigare nelle acque di ‘Nuestra America’.
Per questo la sinistra incita il governo ad una scelta chiara dal punto di vista sociale ed economico e delle relazioni con i paesi dell’Alba. Oltre che ad avviare subito un’offensiva senza tentennamenti contro settori di borghesia che se vanno in piazza come i proletari in realtà covano intenti golpisti.
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