Ancora una volta è un film fuori concorso a conquistare pubblico e critica al Festival di Roma: si tratta di Bullet to the Head,
action movie tratto da una storia a fumetti che segna il ritorno di uno
dei registi americani più importanti e potenti degli anni ’80, ovvero Walter Hill (I Guerrieri della Palude Silenziosa, I Guerrieri della Notte, 48 ore e Danko). Protagonista del film, e della giornata, un Sylvester Stallone
in grande forma che ha conquistato i giornalisti durante la conferenza
stampa, e i numerosi presenti durante il breve (ma intenso) red carpet
serale.
Proprio Stallone ha voluto lanciare un appello durante la
conferenza: “Nel mio lavoro è raro trovare studios e luoghi davvero
iconici. Voi avete a disposizione uno dei posti più iconici di tutti,
ovvero Cinecittà, un luogo straordinario. Di posti così ne ho visti
sparire molti, e a voi dico: preservatelo, perché è come un museo. Mi
auguro che tutti insieme, dal governo a voi che ve ne occupate, facciate sopravvivere Cinecittà, e vedrete che risorgerà e sarà più bella di prima”. L’appello arriva proprio in un periodo di grande crisi per la produzione in Italia, e in particolare per Cinecittà, della quale si sta decidendo il futuro.
Stallone
ha parlato, ovviamente, anche del suo film, affiancato dallo stesso
Hill (che oggi terrà una masterclass in sala Petrassi) e dallo
sceneggiatore Alessandro Camon. Siamo a New Orleans: un poliziotto di origini coreane proveniente da Washington DC (Sung Kang) e un killer a pagamento di nome Jimmy Bobo
(Stallone) decidono di allearsi, il primo per fare giustizia su un caso
rimasto aperto, il secondo per vendicarsi. Il poliziotto è tecnofilo,
giudizioso e un po’ imbranato. Il killer a pagamento è vecchio stile,
laconico e disilluso. Il risultato è un film dedicato totalmente ai ragazzi anni ’80,
duro, ironico, secco, essenziale, antiretorico; il riferimento
letterario è Raymond Chandler, la cinematografia è quella classica di
Hill. “Il mio personaggio,” ha spiegato Stallone, “è una fusione tra una
figura dark come Rambo e una figura positiva come Rambo. Volevamo
mostrare un personaggio attuale per la generazione attuale”.
C’è
il tempo anche per qualche aneddoto, ovviamente: “La prima volta che
andai a Hollywood ero molto ottimista: ero convinto che tutti mi
avrebbero amato perché io adoravo loro. Con Rocky, i produttori
guadagnarono un sacco di soldi. Andai da loro e chiesi di essere pagato:
che era costato 800mila dollari e aveva incassato 100 milioni. Mi
risero in faccia e mi dissero che mi avrebbero pagato quando volevano
loro. Ancora oggi li ringrazio per questa lezione, perché mi hanno
insegnato che nel nostro lavoro contano i soldi, non i
sogni. In prima linea ci sono il caos e l’ego delle persone, e da tutto
questo nasce la creatività. Puoi fare affidamento solo su te stesso,
devi impegnarti e combattere, ed è un messaggio che da allora ho cercato
di trasmettere in tutti i miei film.” E ancora, su come conobbe Woody Allen:
“E’ stato un episodio buffissimo, che mi ha cambiato la vita. Mi
presentai al provino di Il Dittatore dello stato libero di Bananas in
compagnia di un tizio molto basso, dovevamo interpretare dei bulli.
Allen mi guardò, chiamò l’aiuto regista e gli chiese di dirci che
potevamo andarcene perché non facevamo paura a nessuno. Avevo 22 anni, e
me ne andai. Il tizio basso mi fermò e mi portò in farmacia, dove ci
riempimmo la faccia di vaselina e poi di polvere. Tornammo al provino e
andammo da Allen, e gli chiedemmo se gli facevamo paura in quello stato.
Lui si spaventò e decise di assumerci”.
Parlando di Bullet to the
Head, Camon ha spiegato che inevitabilmente il suo punto di
riferimento, nell’adattare il fumetto (che è stato ampiamente
rimaneggiato, anche se l’ambientazione a New Orleans rimane la stessa), è
stato 48 ore di Walter Hill.
“Il genere buddy movie risale proprio a quel film: negli anni la
formula è andata deteriorandosi,” ha spiegato, “diventando una mera
questione di stile, non di morale. In questo film, invece, i personaggi
tornano a essere realmente da lati opposti della legge. E’ questo il
conflitto che mi ha spinto a scrivere la sceneggiatura”. Un film di pura
azione, con una intensa lotta all’ultimo sangue a colpi d’ascia nel
finale, e praticamente nessuna computer grafica. “Ci sono scarpe fatte a
macchina e scarpe fatte a mano,” conferma Stallone. “Il nostro è un film fatto a mano, e Walter ci ha messo impegno e amore.”
Fonte
Il fatto che debba venire un americano a ricordarci quanto è importante Cinecittà a livello culturale è un'autentica vergogna, che dimostra in pieno che razza di paese con le pezze al culo siamo diventati.
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