Prima il portale israeliano Ynet, poi piano piano alcune delle testate più accreditate del mondo arabo (Middle East Eye, The Cradle) e a livello internazionale (Financial Times, BBC) hanno confermato la notizia che Blair sarebbe il candidato preferito dell’amministrazione USA per guidare un governo provvisorio della Striscia di Gaza, una volta che Israele avrà completato la sua opera genocidiaria.
Sono mesi che il Tony Blair Institute for Global Change (TBI) cerca di dissimulare il coinvolgimento dell’ex primo ministro britannico nel piano trumpiano di trasformare Gaza in una riviera turistica, una volta uccisi o deportati tutti i suoi abitanti lontano dalla loro terra. Circa un mese fa un incontro chiamato alla Casa Bianca aveva svelato la rete di interessi che si cela dietro questo progetto.
Già in quei giorni avevamo annunciato quale sarebbe potuto essere il futuro di Gaza, nella mente dei suprematisti occidentali, mentre sostengono il colonialismo sionista: un’amministrazione ad interim della regione sulla falsariga di quella che si instaurò in Iraq nel 2003. Una formula che Blair conosce bene, in quanto promotore di quella guerra illegale.
La scorsa settimana, alcune fonti del Times of Israel avevano riferito che il presidente statunitense aveva autorizzato Blair a riunire alcuni attori regionali e internazionali per valutare la proposta di costituire un tale organismo di transizione, in previsione della consegna della Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
Ora il Financial Times rivela che ci sarebbe già un nome per tale amministrazione straordinaria: Gaza International Transitional Authority (GITA). Essa avrebbe “autorità politica e giuridica suprema” su Gaza per un massimo di cinque anni. Il canale libanese Al Mayadeen indica pure quale dovrebbe essere la composizione effettiva di tale governo.
Secondo il media con sede a Beirut, Blair guiderebbe un segretariato di 25 membri e presiederebbe un consiglio di 7 persone, che avrebbe poi il compito di supervisionare un organo esecutivo responsabile della gestione effettiva del territorio. Gestione che avverrebbe, almeno all’inizio, dall’esterno della Striscia, pur coinvolgendo figure palestinesi.
Infatti, sarebbe la città egiziana di El-Arish, nel Sinai settentrionale, a fare da sede dell’amministrazione provvisoria, che verrebbe poi spostata a Gaza insieme a una forza multinazionale delle Nazioni Unite, i cui componenti dovrebbero essere per lo più di stati arabi. Si tratta di una opzione molto simile a quella usata in passato per il Kosovo e Timor Est.
Il piano sarebbe stato presentato effettivamente da Trump a vari leader arabi e musulmani a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU. I 21 punti di cui è composto prevedono anche il ritiro delle forze israeliane sulle posizioni antecedenti alla loro rottura della tregua a marzo. In questo futuro immaginato da The Donald, Hamas sarebbe esautorata da qualsiasi ruolo nella Striscia.
Il punto di arrivo sarebbe, invece, l’unificazione di tutto il territorio palestinese sotto l’Autorità Nazionale Palestinese. Ma qui cominciano i problemi. Innanzitutto, il piano di Trump non dovrebbe prevedere lo spostamento forzoso dei gazawi, ma Israele (e a dire il vero anche gli USA) avevano già rifiutato una proposta simile fatta dai paesi arabi. Tel Aviv non vuole che i palestinesi della Striscia rimangano nelle loro case.
E, inoltre, non vuole nemmeno che all’ANP sia affidato alcun ruolo nella Striscia e tantomeno che uno stato di Palestina venga riconosciuto, come hanno messo in chiaro più volte. Per di più, anche se alcuni si sono mostrati ottimisti, tra i paesi arabi c’è diffidenza per Blair, e in molti ritengono che il ruolo dei palestinesi verrebbe marginalizzato, rendendo inaccettabile una soluzione del genere.
Infine, l’ANP non si fida della mancanza di tempistiche chiare per il trasferimento dell’autorità sulla Striscia. Il piano delineato dal tycoon assomiglia troppo pericolosamente a una nuova forma di amministrazione coloniale, di cui sicuramente Blair e i britannici sono esperti, ma che non soddisfa gli interessi dei paesi arabi della regione (soprattutto dopo lo shock dell’attacco israeliano al Qatar).
L’inconsistenza delle garanzie di sicurezza offerte da Washington potrebbero essere la vera chiave di volta della questione. Trump, con questo piano, sta cercando di riconquistare per gli Stati Uniti un ruolo di primo piano nella cornice di sicurezza regionale, in un certo modo cercando anche di ‘imporre’ a Israele un programma che abbia già ricevuto un’approvazione di massima a livello internazionale.
Anche la recentissima dichiarazione per cui non permetterà l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele è una sfida diretta alle mire esplicite del governo di Tel Aviv: la sorte della West Bank potrebbe far crollare definitivamente gli Accordi di Abramo e tutto il lavoro di Trump nella regione. Il momento decisivo sarà dunque lunedì, quando il presidente USA incontrerà Netanyahu. Intanto, i gazawi continuano a morire.
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