Dopo quasi due anni dall’inizio delle operazioni dell’IDF a Gaza e con due settimane di ritardo rispetto all’annuncio di Pedro Sánchez, il decreto che stabilisce l’embargo sulle armi a Israele, a lungo reclamato dal movimento BDS, è stato approvato nel consiglio dei ministri di ieri e inviato alla stampa.
Da un lato il provvedimento vieta il commercio d’armi con Israele e proibisce le importazioni dei prodotti provenienti dai territori occupati.
Dall’altro prevede un’eccezione alla norma che ha suscitato le critiche non solo del movimento di solidarietà con la Palestina ma anche dei soci di governo (Sumar e Izquierda Unida).
Secondo questa eccezione, la compravendita di armi, di materiale e di tecnologia di difesa rimane permessa per assicurare “gli interessi generali della nazione”.
Fatta la legge trovato l’inganno recita il proverbio... E l’inganno sta nel soggetto che dovrà stabilire quando sia in gioco “l’interesse generale della nazione” e autorizzare la compravendita di armi: si tratta di una Giunta Interministeriale che regola il commercio con l’estero del materiale di difesa e che già in passato ha permesso il passaggio di armi dirette a paesi in guerra.
Ma soprattutto si tratta di un organismo che può avvalersi del segreto di stato e che può mantenere nell’ombra le proprie decisioni, sottraendole a qualsiasi controllo democratico.
È così che “l’interesse generale della nazione” si traduce in una fattispecie ambigua che può essere invocata in qualsiasi momento dal governo di turno, in particolare per assicurare il mantenimento delle scorte necessarie al funzionamento del materiale militare precedentemente comprato da Israele.
La dipendenza dell’esercito spagnolo dalla tecnologia militare israeliana interessa numerosi prodotti rispetto ai quali la disconnessione annunciata da Sánchez si sta rivelando né semplice né immediata.
Si tratta di sostituire nel breve e medio periodo un insieme di prodotti, per un valore di circa 2 miliardi di euro, rispetto ai quali non ci sono alternative all’impresa e alla tecnologia israeliana.
Come e quando si sostituirà il programma spia Pegasus, utilizzato dal CNI (il servizio segreto spagnolo)? Come e quando si sostituiranno i numerosi componenti di produzione israeliana montati sul veicolo di combattimento VCR 8X8 Dragon? E cosa accadrà ai carri Leopard, ai caccia e al sistema radio SCRT che usano tecnologia israeliana?
Il loro acquisto sarà proibito o si invocherà “l’interesse generale della nazione” per continuare a farne uso beneficiando le grandi imprese d’armamenti spagnole e israeliane che negli ultimi anni hanno rafforzato progressivamente la loro lucrosa collaborazione?
Se questi interrogativi mettono in dubbio la reale efficacia del decreto appena approvato dal governo del PSOE, la base militare di Rota rappresenta una falla certa all’embargo.
La base, un porto e aeroporto militare nella baia di Cadice, è utilizzata dagli Stati Uniti, da altri paesi della NATO e dalla Spagna. Pur non ospitati permanentemente nella base, sia gli aerei che le navi americane vi fanno scalo per rifornirsi di combustibile e proseguire il loro viaggio nel Mediterraneo. È il caso di uno dei più grandi aerei militari da trasporto, il Lockheed C-5 Galaxy, rispetto al cui carico il governo spagnolo non può effettuare alcun controllo.
Secondo l'accordo per la Cooperazione e la Difesa siglato dagli USA e dalla Spagna, le forze armate del Pentagono non sono tenute a informare le autorità spagnole della destinazione finale del materiale militare che trasportano. E la Moncloa ha già assicurato che non intende mettere in discussione gli accordi siglati con gli Stati Uniti, essenziale socio politico e militare. Il che significa che per questa via il principale alleato di Israele non troverà ostacoli a rifornire di materiale militare l’esercito sionista.
D’altro canto la narrativa socialista sull’embargo presenta anche più di una falla sul piano strettamente politico: secondo la retorica di Pedro Sánchez il provvedimento nasce per tutelare la dignità di quei popoli che, come i palestinesi e come gli ucraini, subiscono un’invasione.
Questo parallelismo tra il popolo palestinese, da decenni impegnato nella lotta contro l’occupazione militare e l’apartheid, e l’Ucraina foraggiata dalla NATO e guidata dalla giunta nazista e golpista, risulta specialmente ripugnante e dovrebbe mettere in guardia rispetto al preteso internazionalismo di Pedro Sánchez.
Così come la giravolta spettacolare con la quale nel marzo 2022 il leader socialista ha abbandonato il tradizionale sostegno spagnolo al referendum di autodeterminazione previsto dall’ONU per il popolo saharawi ed ha riconosciuto l’occupazione marocchina sul Sahara Occidentale, in cambio del controllo dei militari di Mohamed VI sul flusso migratorio del Maghreb. Una spregiudicata mossa di politica estera degna di quella compiuta solo pochi mesi prima da Donald Trump: il presidente americano aveva riconosciuto la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale in cambio della ripresa delle relazioni tra il paese del Maghreb e Israele.
Infine il leader socialista ha più volte giustificato la misura come un mezzo per mantenere viva la soluzione dei due stati, guardando alla Autorità Nazionale Palestinese e allineandosi alla condanna pura e semplice della composita resistenza. Dimenticando che è grazie a questa resistenza, ferma davanti all’IDF, che la lotta dei palestinesi è tornata all’ordine del giorno internazionale, ha suscitato la solidarietà e la protesta dei popoli di tutto il mondo e ha costretto il sionismo a un isolamento finora inedito. Valga per i governi dell’Unione Europea, così come per Pedro Sánchez, la frase di Nizar Banat, palestinese oppositore dell’ANP, ucciso dalla polizia di Abu Mazen nel 2021, secondo il quale “chi è solidale con i nostri cadaveri, però non con i nostri razzi, è un ipocrita, e non è dei nostri”.
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