“Il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman e il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif hanno firmato mercoledì a Riyadh un accordo congiunto per la difesa strategica, ha riferito l’agenzia di stampa saudita […]. L’accordo stabilisce che qualsiasi aggressione contro uno dei due Paesi è un’aggressione contro entrambi”. Così Arab news.
Notizia passata quasi inosservata, ma di rilevanza geopolitica primaria: Riad ora possiede la deterrenza nucleare, dal momento che il Pakistan ha più di 150 testate atomiche. L’atomica islamica, quindi, si affaccia in Medio oriente. Un problema per Israele che ne era l’unico detentore e faceva conto anche su tale esclusività, parte del suo eccezionalismo, per ascendere al rango di dominus della regione.
Di interesse anche il cenno seguente di Arab news: “L’accordo rientra nel quadro degli sforzi dei due Paesi per rafforzare la propria sicurezza e raggiungere la sicurezza e la pace nella regione e nel mondo”. Quindi, in prospettiva, la svolta saudita potrebbe allargarsi ad altri Paesi della regione, in modi e forme da vedere, anche se ad oggi resta un orizzonte più che nebuloso.
Questa la prima reazione concreta al bombardamento israeliano in Qatar, che ha allarmato tutti i Paesi mediorientali. Da notare che il principe saudita Mohamed Bin Salman, subito dopo aver siglato l’accordo di cui sopra, ha incontrato il Consigliere per la Sicurezza nazionale iraniano Ali Larjani per confrontarsi sulla situazione della regione, minata dalla destabilizzazione propagata a piene mani dall’aggressività israeliana.
Ciò è avvenuto dopo che Bin Salman, a margine del recente nel summit arabo-islamico tenutosi in Qatar dopo l’attacco a Doha, aveva incontrato il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, col quale aveva concordato di intensificare i rapporti economici e di difesa.
E, infatti, subito dopo l’incontro con il principe ereditario saudita, Larjani ha incontrato il ministro della Difesa del Regno, non certo per parlare del clima. Esiti concreti del summit di Doha, che ha aperto prospettive.
Da segnalare anche un altro esito del summit. Riportiamo da al Arabia: alla luce dell’attacco israeliano contro il Qatar, il Consiglio congiunto per la Difesa del Golfo ha deciso di “accelerare i lavori della Gulf Joint Task Force per il sistema di allerta precoce contro i missili balistici”.
Inoltre, i Paesi del Golfo hanno deciso di procedere alla condivisione della “situazione aerea a tutti i centri operativi, di aggiornare i piani di difesa congiunti coordinando il Comando militare unificato e il Comitato per le operazioni e l’addestramento dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo e di aumentare lo scambio di informazioni di intelligence all’interno del Comando militare unificato”.
Inoltre, è stato anche deciso di avviare delle “esercitazioni congiunte tra i centri operativi e per la difesa aerea degli stati del Golfo entro i prossimi tre mesi, a cui seguirà un’esercitazione aerea congiunta vera e propria”. Di per sé, i Paesi della regione non hanno la capacità di contrastare l’aggressività israeliana, ma è un altro tassello verso la deterrenza. E potrebbe segnare, almeno in prospettiva, la fine del divide et impera sfruttato finora per subordinare i Paesi mediorientali.
La decisione di creare un centro di controllo unificato che allerti sulle minacce aeree della regione segnala anche un altro dato importante: i Paesi del Golfo non si fidano più dell’alleato d’oltreoceano, al quale avevano esternalizzato il proprio sistema di allarme e la propria sicurezza, e sono corsi ai ripari.
Prospettive in evoluzione. Non è ancora un sisma tale da persuadere Tel Aviv a riporre nel cassetto gli allucinati sogni di gloria riguardo l’egemonia regionale conclamata, del quale il genocidio di Gaza è tassello iniziale. Ma l’attacco a Doha ha dato vita a uno sciame sismico che sembra preludere a sviluppi ulteriori, potenzialmente dirompenti.
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