Le sanzioni contro Israele che la Commissione europea si appresta a proporre, erano già state evocate da Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’unione. Ma questa improvvisa accelerazione delle istituzioni europee verso Israele, va valutata e compresa oltre quello che ci mettono acriticamente – e furbescamente – sotto gli occhi.
Con oltre “60mila morti di ritardo” a Gaza, la Commissione intende intervenire solo su una parte commerciale legata all’accordo di associazione e imporre sanzioni selettive ai ministri estremisti e ai coloni violenti. Dalle sanzioni, paradossalmente, sono esclusi gli scambi sul piano militare con Israele.
Le sanzioni proposte infatti sono robetta: sospensione parziale dell’accordo commerciale Ue-Israele, con dazi sul 37% delle importazioni; sanzioni contro i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, sei organizzazioni di coloni e dieci esponenti di Hamas; sospensione di circa 20 milioni di fondi europei destinati a Israele, con l’esclusione dei programmi per la società civile.
Questa mossa “segnalerebbe chiaramente che l’Ue esige la fine di questa situazione”, ha dichiarato l’Alto Rappresentante per la politica estera della Commissione europea Kaja Kallas.
Il via libera del collegio dei commissari europei sembrerebbe scontato ma non lo è affatto quello dei Paesi membri, soprattutto sulla parziale sospensione dell’accordo di associazione con Israele.
Mentre Stati come Spagna, Belgio, Irlanda, Slovenia, continuano a fare pressing per l’ok alle sanzioni, altri come Italia, Germania e Ungheria frenano. Ancora una volta, le dichiarazioni di “sdegno” rischiano di essere seguite da scarne azioni concrete.
Lo scorso luglio lo stop parziale ai fondi Horizon diretti a Israele si era impantanato in Consiglio Ue. Ma il clima però potrebbe essere cambiato e le eventuali sanzioni a Israele dei governi europei si prestano ad una doppia esigenza.
Da un lato l‘isolamento diplomatico israeliano è cresciuto a livello mondiale e, sul piano regionale, dopo l’attacco ai negoziatori di Hamas in Qatar, è decisamente peggiorato.
Inoltre nelle società europee l’ondata di indignazione popolare verso Israele è aumentata esponenzialmente di fronte ad un genocidio dei palestinesi diventato insopportabile a tutti.
Dall’altro, e qui veniamo ad un fattore poco preso in esame, l’Unione Europea – o meglio la sua versione nel formato “Coalizione dei volenterosi” – ha bisogno di rafforzare la propria credibilità ideologica e morale nella guerra guerreggiata contro la Russia, soprattutto se intende arruolare le proprie opinioni pubbliche nella logica del riarmo e nella guerra sul fronte orientale.
Il doppio standard utilizzato fino a oggi – sanzioni alla Russia ma niente sanzioni a Israele – è diventato una contraddizione troppo forte e sempre meno gestibile sul piano della credibilità interna ed internazionale. Ragione per cui a Bruxelles hanno compreso che devono “rettificare il tiro” e farlo prima possibile, almeno sul piano dell’immagine. E poco importa se le sanzioni verso Israele saranno immensamente meno forti di quelle adottate contro la Russia.
La battuta dal sen fuggita del cancelliere tedesco Merz – secondo cui “Israele fa il lavoro sporco per noi” – ha rivelato molto delle strettissime connessioni economiche, militari e ideologiche tra le classi dominanti europee e il ruolo di Israele in Medio Oriente.
Rompere effettivamente queste connessioni non è nelle corde dei gruppi dirigenti europei, o almeno non lo è fino a quando si ritiene che la regione mediorientale sia “un’area di contesa” tra i paesi euroatlantici e il blocco di paesi emerso al recente vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai in Cina. Se c’è una faglia qualcuno che vi svolga il “lavoro sporco” per conto dell’Occidente può essere ancora utile, anche sacrificando migliaia di palestinesi come già avvenuto nell’epoca coloniale. La storia non si ripete, ma dagli scheletri nell’armadio della propria storia non ci si libera tanto facilmente.
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