Quella sera del 27 dicembre 1978, all’Hope and Anchor di Islington, non
c’erano più di una trentina di persone. Non sapevano di stare assistendo
a un’esibizione storica: la prima volta dei Joy Division
su un palco londinese. Eppure l’Hope and Anchor, situato al 207 di
Islington Upper Street, in un palazzo vittoriano a due passi dalla
stazione di Highbury & Islington, era uno dei pub più importanti per
la scena punk e rock alternativa della capitale inglese, che aveva già
ospitato i Damned, gli Stranglers e molti altri. Al suo interno sarebbe
poi stato girato il celebre video di “One Step Beyond” dei Madness.
Tra
quei trenta fortunati che avevano pagato i 60 centesimi del biglietto,
c’era anche il fotografo Jonathan Crabb, che durante il lockdown per il
Covid-19 ha ritrovato e condiviso cinque scatti inediti del concerto,
rimasti fino ad allora sepolti in una scatola di negativi (li potete
vedere qui).
Non si trattò di una performance memorabile: la formazione di Manchester sul palco fece quel che poteva, considerati i mezzi a disposizione e lo stato di salute di Bernard Sumner, che aveva l'influenza ed era stato trascinato dal suo letto per esibirsi in un seminterrato freddo e umido senza riscaldamento. Secondo il racconto del gruppo, il costo della trasferta in benzina da Manchester a Londra fu di 28,50 sterline, a fronte di un guadagno per la serata di 27,50 sterline.
Difficile fu anche il viaggio di ritorno – raccontato anche in “Control”, il suggestivo film di Anton Corbijn su Ian Curtis e i Joy Division. In macchina, l'atmosfera era cupa e si parlava di gente che lasciava la band. Bernard stava cercando di scaldarsi sotto un sacco a pelo e Ian lo afferrò, strappandoglielo e, dopo una lotta, se lo avvolse stretto intorno alla testa in modo che Bernard non potesse riprenderlo. Poco dopo Ian ebbe il suo primo attacco epilettico: i compagni lo portarono a un vicino ospedale e nel gennaio successivo gli venne diagnosticata l'epilessia da uno specialista del Macclesfield District and General Hospital: il preludio a un calvario che avrebbe segnato per sempre la sua vita.
Le testimonianze del periodo – riportate sul sito joydiv.org – oscillano tra fascinazione e delusione. Deborah Curtis descrisse
l’esperienza come “deprimente”, sottolineando che “il piccolo pubblico
non era stato sufficiente a scatenare l’euforia necessaria per stimolare
la band”, mentre il bassista della band, Peter Hook, parlò di “una
ventina di persone in un posto orribile e scomodo”. Nella pagina che
rievoca quella storica e drammatica serata dei Joy Division, trova posto
anche una recensione piuttosto brutale di Nick Tester, che li
raccontava così: “Balbettano sul palco indossando sguardi imbronciati e
lunghi. Il cantante, Ian Curtis, sembra intensamente irritato, ma non
dice nulla tra le canzoni se non quello di segnalare che la band accordi
gli strumenti tra un pezzo e l’altro... Questo torpore ritratto è
alienante, ma non per ragioni provocatorie o creative. Ho trovato la
noia dei Joy Division un mezzo contundente, vuoto, comico nella sua
rabbia superflua”. E quindi concludeva: “Forse una serata storta, ma la
mancanza di un approccio vivace da parte dei Joy Division potrebbe
essere migliorata da un metodo musicale più nitido e articolato. I Joy
Division potrebbero essere una buona band se ponessero più enfasi
sull'equilibrio che sulla posa”. La lungimiranza critica, insomma, non
abitata esattamente dalle sue parti.
Eppure, qualcosa trapelava
già con forza. Crabb ricorda l’impatto magnetico e inquietante di
Curtis: i movimenti nervosi, gli occhi rivolti all’indietro,
un’intensità che lo distingueva nettamente dagli altri. “Spiccava
rispetto al resto della band, i movimenti del braccio e il modo in cui
girava indietro gli occhi era spaventoso. La band aveva un suono tetro e
usava i pad per la batteria elettronica, all’epoca era una cosa
piuttosto unica. Insomma, sapevo che ero di fronte a qualcosa di
speciale”, ha raccontato ancora il fotografo.
La scaletta comprendeva pezzi come “Wilderness” e “Shadowplay”, brani che avrebbero trovato compimento pochi mesi dopo in “Unknown Pleasures”, lalbum d’esordio dei Joy Division.
Riletto oggi, quel debutto londinese appare come un momento fragile e incerto, ma decisivo: il passaggio da un gruppo post-punk ancora acerbo a una formazione destinata, di lì a poco, a rivoluzionare il rock con un album epocale. A distanza di oltre quarant’anni, le fotografie di Crabb non restituiscono solo l’immagine sgranata di un concerto minore, ma catturano l’istante in cui una leggenda cominciava a prendere forma, tra disagi, fallimenti e intuizioni già indelebili.
La band è poi tornata all’Hope and Anchor qualche mese dopo, ma per Crabb quel primo concerto resterà anche l’ultimo. “A poco più di un anno di distanza, e dopo uno dei dischi più affascinanti della storia della musica, Ian Curtis si è suicidato e la storia dei Joy Division è finita. Per me, in quel momento è successa la stessa cosa al post-punk”.
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