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11/07/2011

La crisi economica tra realtà e finzione. Intervista a Paul Mattick (figlio).

L’ultimo libro di Paul Mattick “Business as Usual: The Economic Crisis and the Future of Capitalism” (Affari come al solito: la crisi economica e il futuro del capitalismo), è stato pubblicato dalla Reaktion Books. L’autore si è incontrato con John Clegg e Aaron Benanav del periodico “Endnotes”.

RAIL: Notizie recenti lasciano intendere che l’economia è nuovamente in crescita. Il tasso di disoccupazione si sta stabilizzando e perfino riducendo e l’indice Dow Jones tende verso l’alto. Allora la crisi è stata davvero così grave ? Cosa ti fa pensare che non siamo ancora in vista della sua fine ?

PAUL MATTICK: Solo alcune osservazioni. La prima concerne le attuali difficoltà che il mondo nella sua totalità incontra riguardo la finanza pubblica e la disoccupazione. E’ un errore concentrare l’attenzione solo sugli Stati Uniti. Il problema è globale. In Europa si sono verificate una serie di crisi fiscali: in Portogallo e in una certa misura in Spagna. Il tentativo di padroneggiare la crisi ha prodotto in Gran Bretagna e in Grecia un peggioramento delle cause della depressione. Essa ha coinvolto anche la Cina, dove evidentemente alti tassi di crescita determinano analoga mente tassi di inflazione preoccupanti, esattamente come accadde nella falsa crescita degli anni 70, che produsse in occidente alti tassi di inflazione. Anche riguardo gli Stati Uniti non sarei così impressionato da provvedimenti che determinano oscillazioni nell’occupazione. In una certa misura ciò riflette il fatto che vi sono persone che escono dal mercato del lavoro. Ovviamente di mese in mese vi sono minime variazioni nel numero di persone che trovano lavoro. Ma nel complesso la situazione rimane estremamente precaria.
Inoltre è importante ricordare che il tasso di crescita dal PIL è un parametro artificiale. Ad esempio, poiché la teoria economica postula che chiunque riceva denaro sia pagato per aver prodotto un bene o un servizio, ogni volta che alla Goldman Sachs qualcuno incassa un bonus, questo compare fra ai dati relativi alla crescita. Se a Lloyd Blankfein viene corrisposto un bonus di 35 milioni di dollari, si dà per scontato lui abbia fornito 35 milioni di dollari di servizi. La verità è che i tassi di crescita rappresentano sempre più una misura delle attività del settore finanziario, quindi anche oggi tutto ciò rimane completamente immaginario. E’ confortevole che qualcuno qua e là trovi lavoro, ma la verità è che la città di Detroit è tuttora del 25 per cento più piccola rispetto a 10 anni fa. Il tasso di disoccupazione a Tampa, Florida – come mi è capitato di leggere in questi giorni - per quanto sia inferiore di un 1 per cento rispetto al mese passato, è ancora dell’ 11 per cento. In tutto il mondo i tassi di disoccupazione permangono elevati. Le banche concedono pochi prestiti, vi sono pochi investimenti e poca crescita economica reale.

R. : Hai parlato di una crisi mondiale. Puoi dire qualcosa di più riguardo alle risposte alla crisi date dagli stati più importanti ? Come sono state coordinate a livello globale tali risposte ? Nel modo in cui è stata gestita la crisi ci sono state differenze tra gli Stati Uniti, Europa ed Asia orientale, o tra paesi ricchi e paesi poveri ?

P. M. : Non credo che le risposte siano state molto coordinate. Come sempre accade in un periodo di crisi la concorrenza aumenta: le diverse aree intrigano facendo tutto il possibile per favorire i capitali nazionali. Negli Stati Uniti vi è stato un debole tentativo di stimolazione. Esso ha assunto ampiamente la forma di un tentativo di preservare la struttura finanziaria, importante non solo per gli Stati Uniti ma per l’economia mondiale. In Germania si sono defilati sperando di poter esportare beni di investimento negli altri paesi mentre le economie europee più deboli subivano collassi molto seri. I governi di Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia ora stanno tentando di salvaguardare le posizioni degli operatori finanziari locali, di garantire i possessori di titoli, di garantire le banche e di costringere le popolazioni locali a sopportarne l’impatto. Così l’area dell’euro è diventata più debole mentre i paesi più ricchi, specialmente la Germania e in misura minore la Francia, si trovano a dover pagare per le situazioni al collasso nei paesi più deboli. Anche in China la situazione è differente, perché la Cina non ha un normale mercato di capitali. Il governo cinese ha il controllo della finanza interna e ha creato una enorme quantità di debito allo scopo di stimolare l’economia cinese, che ora è travagliata da enormi problemi. Hanno impiegato due anni a costruire città rimaste deserte e a finanziare bolle immobiliari. Ora sembrano sul punto di toccare il limite di ciò, fatto che suscita apprensione, sia in Cina che nel resto del mondo.
Quindi ogni area del mondo affronta la crisi su basi differenti. Se si possiede molto petrolio, come il Qatar o l’Arabia Saudita, allora puoi venderlo all’occidente e disporre di molto denaro con cui manovrare. E’ possibile spendere 36 miliardi di dollari per moderare le proteste nelle città. Ma se non si ha denaro, come in Egitto, allora si ha a che fare con una popolazione irrequieta. Si dipende dal sostegno delle nazioni più ricche.

R. : Tornando alla spiegazione della crisi, è diffusa l’opinione che la crisi sia una questione derivante dalla deregolamentazione finanziaria, ma è diffusa una spiegazione alternativa che chiama in causa gli squilibri del commercio mondiale che hanno luogo tra Cina e Stati Uniti. In che misura tali squilibri sono responsabili delle bolle finanziarie è come queste possono essere corrette ?

P. M. : Certo, ovviamente esistono squilibri commerciali, ma il problema è questo: perché esistono questi squilibri ? Gli apparati produttivi hanno manifestato la tendenza a trasferirsi dalle aree con salari elevati a quelle con bassi salari. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno trasferito la produzione dagli stati settentrionali e medio-occidentali a quelli del sud, e successivamente in Sudamerica e in Asia. Invece di investire in nuove tecnologie, le imprese stanno tentando di elevare i saggi di profitto abbassando il costo della forza lavoro a livello globale. In Cina una cospicua parte della produzione viene realizzata tramite impianti finanziati da investimenti esteri. Per cui vi è una economia cinese, ma l’ economia di esportazione cinese è per la maggior parte addetta al montaggio di merci prodotte altrove. L’Europa, gli Stati Uniti ed alcuni paesi asiatici come il Giappone e Taiwan stanno trasferendo la produzione in Cina, dove lavoratori con salari estremamente bassi assemblano prodotti che sono poi inviati nel resto del mondo. In una certa misura l’immagine di un trasferimento della produzione in Cina è una illusione. Queste sono nient’altro che le imprese occidentali che affittano manodopera cinese, pagando una parte del processo di produzione alla burocrazia cinese, in modo che provveda a fornire gli impianti produttivi e il controllo della forza lavoro. Queste fabbriche rimangono dipendenti dagli investimenti occidentali e dai consumatori occidentali. Ciò semplicemente fa parte del tentativo di abbassare i costi del lavoro in occidente.

R. : Tyler Cowen, che gestisce un blog di economia, ha scritto recentemente un libro in cui si afferma che l’economia degli Stati Uniti è rimasta stagnante negli ultimi quarant’anni. Imputa questa stagnazione all’esaurimento delle tecnologie esistenti. “non ci siamo resi conto che ci troviamo su di un plateau tecnologico”. Condividi questa spiegazione ?

P. M. : No. Si può affermare che l’economia occidentale – non solo negli Stati Uniti ma anche nell’Europa occidentale – a metà degli anni 70 è entrata in un periodo di crisi. Così, per quarant’anni si è verificato, se non proprio una stagnazione, un livello molto basso di crescita in confronto al periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale. Ovviamente in questo periodo vi è stato un livello di sviluppo tecnologico inferiore rispetto al passato. Ma ciò è ampiamente imputabile alla scarsità di denaro da investire. Si può affermare che se disponessero di gigantesche quantità di soldi, oggi le imprese potrebbero probabilmente sviluppare l’energia solare. Dopo tutto devono trovare un sostituto ai combustibili fossili. Dicono che è troppo costoso, ma lo è perché non vi è sufficiente capitale da investire nella produzione di nuove forme di energia. Dire che è troppo costoso è semplicemente un’altra maniera per dire che il capitale non genera profitti sufficienti per lo sviluppo di nuove tecnologie. Il problema non sta nell’insufficiente numero di scienziati nel mondo o di matematici, o di addetti all’energia solare. Il fatto è che non hanno abbastanza soldi. Ciò spiega anche perché non sono in grado di dare lavoro a milioni di persone in Asia, Africa e America Latina. Semplicemente non vi è abbastanza denaro per andare avanti alla scala di investimenti corrente. Quindi è facile addebitare tutto ciò ad una sorta di fallimento della scienza, ma non è questo il problema. Gli ingegneri ci sono, la scienza c’è. Il problema è che nessuno ha soldi da investirvi e che tutto questo testimonia del fallimento del capitalismo nel generare profitto sufficiente alla propria espansione.

R. : Ma quanto c’è di vero, più in generale, in questa idea della stagnazione ? Non vi è forse stata una ripresa negli anni 80 ? In che misura la crisi odierna è correlata con quella degli anni 70 ?

P. M. : Ritengo che questa sia la stessa crisi degli anni 70. Ciò che si è verificato negli anni 80 in poi è una varietà di bolle speculative. Si è realizzata una certa quantità di guadagni – guadagni generati dallo spostamento della forza lavoro verso aree a bassi salari. Ma poiché attualmente il lavoro costituisce solo una piccola parte del processo produttivo, vi è stato un basso tasso di profitto ed un ridotto sviluppo tecnologico. Per cui, a iniziare dalla metà degli anni 70 si è verificato un persistente spostamento degli investimenti dalla produzione alla speculazione, con la compravendita di imprese, fusioni ed acquisizioni, finanza, ecc. Molto di quanto negli anni 90 venne chiamato globalizzazione fu semplicemente la compravendita di titoli in diverse parti del mondo. Si può constatare ciò persino nella terminologia. Come pongo in rilievo nel mio libro, quelle che abitualmente erano chiamate nazioni in via di sviluppo ora sono chiamati mercati in via di sviluppo – ma i mercati che hanno in mente sono mercati azionari e immobiliari. Si è verificato un flusso generale di denaro da investimenti nella produzione verso investimenti in campo finanziario. Dalla metà degli anni 70 in avanti – come viene messo in evidenza dal prof. Robert Brenner della UCLA – vi è stato, un decennio dopo l’altro, un declino del livello degli investimenti e un declino dei profitti e questo è semplicemente un modo diverso per descrivere una situazione di stagnazione.
Ciò che sta accadendo è la riapparizione della crisi che avrebbe dovuto verificarsi negli anni 70. La tesi centrale del mio libro è che questa crisi è stata differita attraverso la creazione di debito in tutte queste forme: privato, pubblico e statale. Storicamente questo è un fatto nuovo. Ai tempi della seconda guerra mondiale era diffusa l’idea keynesiana che si potesse prendere a prestito soldi e poi fermarsi. Ma dopo la guerra furono talmente timorosi di una nuova crisi che incominciarono a tenere costantemente piuttosto basso il livello della spesa pubblica. Quando nel 1975 finì l’Età dell’Oro furono presi dal panico. Vi fu una enorme inondazione di credito e l’invenzione di nuovi strumenti di credito. E riuscirono in un modo o nell’altro a rinviare la crisi per 40 anni. Ma esisteva un limite.
Infine si arrivò al 2008 – non erano più in grado di mandare avanti l’intera faccenda. La struttura del debito era sta costruita su di una base di cambiali, ma il debito divenne così grande da non poter più essere sostenuto in rapporto all’effettiva produzione di valore. Credo che questo sia un fatto decisivo. Posso sbagliarmi – l’economia non è una scienza esatta – ma credo che questa sia una depressione profonda. Alcuni possono paragonarla alla depressione degli anni 30, ma i governi oggi non hanno il denaro di cui disponevano nel 1930. Non vi sono repliche nella storia – questo è il motivo per cui non si può imparare dal passato – quindi questa è una situazione assolutamente unica: una profonda depressione, ma per la quale la strumentazione keynesiana non è più utilizzabile, perché il denaro è già stato speso. Gli Stati Uniti hanno 14 triliardi di debito nazionale. Per cui ora non sanno proprio cosa fare.

R. : Puoi dirci quale sia la spiegazione effettiva del prolungato declino dell’economia a partire dagli anni 70 ?

P. M. : Si tratta di una questione complicata e controversa. Credo che purtroppo l’economia sia un campo in cui le teorie sono per lo più ingannevoli. L’economia è più simile ad una religione che ad una scienza. Penso che in realtà vi sia una sola spiegazione riguardo lo sviluppo a lungo termine del sistema capitalistico, l’unica che sembri sensata e che descriva quello che effettivamente è accaduto. E’ la teoria che Marx ha delineato ne “Il Capitale”, pubblicato nel XIX secolo. Questo è un fatto bizzarro perché oggi, in fisica ad esempio, nessuno direbbe che occorre leggere ancora Newton. Ma la verità è che nell’analisi del capitalismo non siamo andati molto oltre Marx.
L’idea di Marx è fondamentalmente che il capitalismo, come ogni altra società, sia una organizzazione del processo produttivo umano, la qual cosa significa che gli individui fanno del loro ambiente naturale l’oggetto del loro lavoro e lo trasformano in forme che si possano consumare. Gli esseri umani sono in ciò peculiari in quanto questo processo è determinato culturalmente piuttosto che biologicamente. Oggi nella nostra cultura la riproduzione sociale dipende dal fatto che l’accesso alle risorse naturali è controllato da un ristretto gruppo di individui, attraverso la mediazione del denaro. Ciò significa che gli individui che effettivamente controllano il processo di produzione sono interessati non alla produzione di per sé ma al rafforzamento del loro controllo sociale, che chiamano realizzazione del profitto. I beni sono prodotti solo se lo possono essere in modo tale che i proprietari del processo di produzione – cioè del capitale – siano in grado di realizzare un profitto. Ma poiché il lavoro umano coinvolto nel processo di produzione costituisce l’unica fonte dell’aumento della ricchezza sociale, e poiché nelle condizioni capitaliste lo sforzo da parte dei proprietari dell’industria di competere gli uni contro gli altri determina una sostituzione del lavoro con macchine, tutto ciò produce – secondo modalità che è molto difficile spiegare in pochi minuti – ad un declino del saggio di profitto. Marx pensava che il rimedio per questa tendenza è il fenomeno delle depressioni periodiche. Nel corso di una depressione gli investimenti in attrezzature vengono svalutati, ciò che permette alle prestazioni lavorative realizzate usando i mezzi di produzione esistenti di contare di più. Così i periodi di depressione sono seguiti da periodi di prosperità. A grandi linee questo sembra proprio essere quanto è accaduto nel corso della storia del capitalismo. Si è manifestata la tendenza dei periodi di prosperità ad essere seguiti da depressioni e le depressioni da periodi di rinnovata prosperità. Questo processo è continuato più o meno a partire dall’inizio del XIX secolo. Ora siamo nuovamente in un periodo di depressione determinato dalla grande espansione del capitale che ha avuto luogo dopo la seconda guerra mondiale.
Questa è una descrizione alquanto inadeguata di un fenomeno estremamente complesso, ma in realtà non esiste un modo semplice per esporlo. Si tratta di un sistema complesso e va analizzato in termini piuttosto astratti. Ma a mio giudizio la storia del sistema ha confermato molto bene l’analisi marxiana, sebbene questa sia stata sviluppata in una fase molto prossima agli inizi del capitalismo. Quindi non vedo perché non si possa accettare quell’analisi come spiegazione di quanto sta accadendo oggi.

R. : Ma l’economia non ha compiuto qualche progresso rispetto al XIX secolo ? Se non nei dipartimenti di economia delle attuali università almeno ad opera dei grandi economisti degli ultimi cento anni, come Frederick Hayek, Joseph Schumpeter o John Maynard Keynes. Non hanno forse aggiunto qualcosa ?

P. M. : F. Hayek ha sviluppato una versione matematicamente raffinata della teoria economica della metà del XVIII secolo, teoria che già allora era in una certa misura inesatta e lo è ancor più oggi. Una personalità che ha compiuto qualche progresso è Keynes, il quale aveva capito che l’economia che aveva appreso all’università era inadeguata a spiegare gli eventi del suo tempo, in particolare la Grande Depressione. Giunse a constatare che la teoria nella quale credeva gente come Hayek – secondo la quale il capitalismo è un sistema che utilizza pienamente tutte le risorse naturali ed umane – era priva di fondamento. Non solo si erano verificate una dopo l’altra numerose crisi nel XIX secolo, ma nel XX secolo si era presentata una crisi molto seria. Perciò giunse a comprendere che il capitalismo era incapace di impiegare tutte le risorse che la natura e gli uomini forniscono all’economia. Keynes fu indotto a ritornare a una versione della teoria economica diffusa al principio del XIX secolo, quando si metteva in dubbio – come reazione all’insorgenza delle crisi capitaliste di inizio secolo – il dogma per il quale il capitalismo era un sistema integralmente razionale e tendente a massimizzare il benessere: Keynes elaborò l’idea che qualora i capitalisti non avessero la capacità o la volontà, per svariate ragioni psicologiche, di utilizzare le loro risorse sociali per creare il pieno impiego (e quindi realizzare l’utilizzazione completa delle risorse naturali ed umane), allora lo stato dovesse subentrare e prendere in prestito le risorse per raggiungere questo obbiettivo. Al tempo in cui Keynes ebbe questa idea, i governi stavano già facendo questo: Hitler in Germania e Roosvelt negli Stati Uniti. Ma l’errore compiuto da Keynes nell’analisi della situazione divenne evidente dopo la seconda guerra mondiale, quando risultò chiaro che finanche nel corso del susseguente periodo di prosperità diveniva impossibile per i governi capitalisti cessare di sostenere l’economia. L’economia capitalista non era in grado di creare una vera prosperità fondandosi su se stessa. Rimaneva tuttora dipendente dallo stato per l’erogazione di finanziamenti addizionali. Così l’intero discorso – secondo il quale il capitalismo era intrinsecamente efficiente ma in certe condizioni risultasse inefficiente, che in tali fasi il governo potesse azionare la pompa, mettere in moto il sistema e poi ritirarsi – risultò non vero. Pertanto già intorno agli anni 70 la teoria di Keynes venne riconosciuta come un fallimento, ciò che spiega la scomparsa del keynesismo dall’economia accademica e la nascita di varie teorie economiche anti-keynesiane – e finanche il ritorno di von Mies alla credenza primitiva nello scambio e nel baratto come fondamento della pace sociale.

R. : Parlando di Keynes, tuo padre (Paul Mattick) scrisse sull’argomento press’a poco un classico underground : “Marx e Keynes”, nel 1962. Scrivendo “Business as Usual”, in quale misura hai fatto riferimento all’opera di tuo padre ? Considerandoli superficialmente si notano tra i due libri tutt’al più differenze stilistiche. Ciò denota qualche differenza di metodo ?

P. M. : No, direi di no. Ed in effetti direi che mio padre fu fondamentalmente un allievo di un vecchio teorico marxista, Henryk Grossman, che in un passo del suo grande libro “The Law of Accumulation and Breakdown of the Capitalistic System” (La legge di accumulazione e il crollo del sistema capitalistico), esprime già l’intero contenuto di “Marx e Keynes”. Grossman mise in rilievo che, non essendo lo stato un attore economico – non essendo proprietario di risorse economiche – il coinvolgimento dello stato nell’economia può realizzarsi solo a spese dell’economia privata. Non può essere produttore di profitto e quindi non può risolvere il problema capitalistico del profitto. Ciò che è stato importante nel libro di mio padre è che si trattò di un esperimento mentale. Il libro venne scritto alla fine degli anni 50, sebbene nessuno fosse disposto a pubblicarlo. A quel tempo tutti credevano che le politiche keynesiane avessero posto fine al ciclo economico, che l’economia potesse essere controllata e finanche finemente regolata dall’intervento dello stato. Pertanto mio padre disse: ammettiamo che l’analisi di Marx sia corretta – cosa implica ciò in futuro per gli esiti delle politiche keynesiane ? Previde più o meno ciò che è accaduto: il keynesismo si sarebbe mostrato incapace di prevenire un ritorno del ciclo economico – e anche che la prossima depressione avrebbe assunto la nuova forma di una combinazione di inflazione e stagnazione. Pertanto si può affermare che questo è stato uno dei pochi esempi nella storia delle scienze sociali in cui si è compiuto un esperimento nel quale qualcuno ha detto: “Bene, qui c’è qualcosa che tutti stanno facendo in tutto il mondo – funzionerà ? Se questa teoria è corretta non può funzionare”. Non ha funzionato, quindi aveva ragione. Ma vorrei dire che effettivamente il merito di ciò non va attribuito a mio padre. Appartiene a Marx. Si è trattato semplicemente del tentativo di affermare che se Marx aveva ragione Keynes doveva essere in errore. Ed è successo che Marx aveva ragione e Keynes torto. Ma questo era qualcosa che nessuno voleva ammettere. Per cui questo libro non è stato assolutamente letto, non è stato menzionato, è passato completamente inosservato. Ma da un punto di vista scientifico costituisce un fenomeno interessante – che qualcuno è stato capace di fare una previsione nel campo delle scienze sociali che si è rivelata corretta. Il fatto che ciò sia stato ignorato dimostra che, come disse una volta un mio amico, la scienza sociale è soprattutto sociale e non molto una scienza.

R. : Gli attuali economisti di sinistra, appoggiandosi spesso a Keynes, hanno criticato le recenti misure di austerità in quanto dannose per gli sforzi tesi alla ripresa. Tuttavia sostieni che una riduzione del deficit spending, con tutte le sue conseguenze per il livello di vita, sarebbe elemento necessario di ogni ripresa economica su base capitalistica. Che cosa diresti allora ai lavoratori che hanno occupato gli uffici pubblici dello stato del Wisconsin ? E’ stato un atto inutile o persino contro il loro interesse, se vogliono mantenere i loro posti di lavoro ?

P. M. : Direi che stanno agendo secondo i loro propri interessi nella misura in cui ciò per cui stanno lottando non è l’economia ma le loro pensioni, il loro cibo, i loro livelli di vita, i loro redditi, ecc. Sono vittime di una illusione se pensano che il loro benessere è in accordo con il benessere dell’economia. Gli individui devono imparare che il benessere dell’economia, in un momento come questo, è in contraddizione con il loro benessere. Nel Wisconsin evidentemente i lavoratori si muovevano in accordo con i loro sindacati, i quali avevano intenzione di sacrificare le condizioni di vita dei loro aderenti al fine di sostenere l’economia del Wisconsin. Per i lavoratori del Wisconsin un punto di vista più razionale sarebbe stato dire: al diavolo l’economia del Wisconsin ! – vogliamo cibo, vogliamo barche per navigare sul lago, vogliamo pensioni, vogliamo belle scuole per i nostri figli. La verità è che attualmente vi è un conflitto reale tra gli interessi della cosiddetta gente comune – che è come dire la classe operaia – e gli interessi dell’economia capitalista. La conservazione e la futura prosperità del capitalismo esigono la pauperizzazione della popolazione, e se essi preferiscono essere impoveriti per salvare il capitalismo, ebbene allora saranno impoveriti. Il desiderio istintivo di non essere impoveriti a me pare intelligente, ma il problema è che non hanno ancora compreso che il capitalismo non gli restituirà le loro pensioni e i loro salari.

R. : Ciò significa che è semplicemente impossibile lottare contro i tagli ?

P. M. : Penso che le lotte contro i sacrifici debbano diventare più radicali. Queste devono concentrarsi sui beni materiali immediati. Ad esempio vi è una quantità di case vuote, quindi la gente deve entrare in quelle case. Vi è una quantità di cibo, quindi la gente deve prendersi il cibo. Se le fabbriche hanno chiuso, è necessario che la gente entri nelle fabbriche e incominci a produrre beni. Ma non possono aspettarsi che i datori di lavoro stiano per dar loro del lavoro. Se essi potessero essere impiegati profittevolmente già lo sarebbero, come viene detto nel mio libro. E non possono aspettarsi che sia lo stato a dar loro il lavoro. Lo stato non ha denaro. Ma ciò non significa che non esistano modi efficaci per opporsi ai sacrifici. Questo è ancora un paese ricco. Vi è ogni sorta di roba in giro. La gente deve solo prenderela roba che è là. Devono esigere un immediato miglioramento delle loro condizioni di vita – cose molto concrete. Per cui invece di chiedere lavoro, ciò che non possono ottenere, dovrebbero chiedere proprio del cibo. Una mossa molto intelligente sarebbe dire: va bene, non puoi darci lavoro, allora dacci da mangiare, daccelo per niente. Non è che non ci sia cibo.

R. : Il tuo libro si conclude con una nota pessimistica – la visione di una incipiente catastrofe, in pari tempo economica ed ecologica. Noi auspichiamo un po’ più di ottimismo da parte di chi crede, come hai dichiarato in un altro articolo, che un altro mondo è possibile. Si tratta in realtà di una frase o di un gesto vuoti ? Cosa è quest’altro mondo, a che cosa assomiglia e cosa deve fare la gente per tradurlo in realtà ?

P. M. : Bene, il motivo per cui ciò è così frustrante è che si tratta di qualcosa talmente ovvio. Possediamo questo enorme apparato produttivo. Disponiamo di un mondo pieno di edifici, uffici, scuole, fabbriche, fattorie e tecnologia. E non esiste assolutamente ragione alcuna perché la gente non dovrebbe semplicemente prendere questa roba e cominciare ad usarla. Ciò che li trattiene è che, da una parte, non viene loro in mente che possono farlo e ,dall’altra, che la polizia, l’esercito – un apparato enorme – impedisce loro di farlo. Il modo in cui gli individui sono educati rende loro molto difficile pensare che si possa prendere tutto ciò, che questo ti appartiene. E’ divertente – legevo un articolo scritto nel 1831 dal rivoluzionario francese Blanqui, con questo titolo meraviglioso: “Chi produce la zuppa merita di mangiarla”. Dice che è tutto molto semplice: se tutti i possessori di capitale scomparissero il mondo rimarrebbe esattamente lo stesso - si avrebbero le stesse fattorie, le stesse fabbriche – ma se tutti i lavoratori sparissero alloratutti morirebbero di fame. Non abbiamo progredito di un passo oltre questo modo di vedere le cose. Il problema è che la gente è così abituata all’esistenza del capitalismo, sono così abituati all’idea che è necessario lavorare per qualcun altro, che non vedono che possono prendere il loro posto. Cosa potrà spingere la gente a compiere questo passo ? Penso che sia necessaria una esperienza traumatica per indurre la gente a cambiare il loro normale modo di comportarsi.
Questa è la ragione - sebbene non prediliga le catastrofi, e sia personalmente terrorizzato da tale prospettiva come chiunque altro - per cui si può scorgere in ciò anche un lato positivo. Consideriamo una esperienza di grande attualità. In Egitto il popolo è vissuto per lungo tempo in condizioni di povertà tremenda. Ma l’anno scorso il prezzo del cibo aumentò di qualcosa come l’80 per cento. Questo era davvero troppo. Vi fu una vasta sollevazione. Il popolo si liberò di Mubarak e dei suoi figli ed ora ha il generale Tantawi – gli ufficiali dell’esercito lo chiamavano il cagnolino di Mubarak. Tantawi sta governando il paese. Non è cambiato nulla. Essi sono esattamente nella stessa condizione. Ora pensano: o mio dio, è peggio. Il popolo pensa: bene, certo, il prossimo passo sarebbe scontrarsi con l’esercito, ma questo è un problema molto più serio. Fintanto che l’esercito non vuole spara su di te, si possono liquidare due o tre persone. Ora come si può scontrarsi con l’esercito ? E’ necessario che si verifichino enormi movimenti di sciopero e questa sarebbe una lotta molto sanguinosa, così si può capire perché la gente sia terrorizzata.
Tuttavia ciò non è impossibile. Le catastrofi in arrivo diventano gigantesche. Ho letto recentemente che ora gli indiani stanno costruendo un muro tra India e Bangladesh. Sanno che 100 milioni di persone stanno per tentare di entrare in India per salvarsi la vita, ciò a causa delle inondazioni causate dal riscaldamento globale e il conseguente innalzamento del livello del mare. Perciò si stanno preparando ad uccidere 100 milioni di persone. Il governo americano si sta preparando ad impedire militarmente ai messicani di entrare in massa negli Stati Uniti, mentre la gente in Messico muore di fame. Quindi questo è quanto ci riserva il futuro. La situazione attuale è in bilico sull’orlo di una catastrofe, che può necessitare cinquant’anni per esplodere. Ma ad un certo punto si dovrà fronteggiarla. Non so se ciò si può chiamare ottimismo.
Quando ero giovane sembrava che qualcosa stesse accadendo. Le gente era nelle strade, libertà, socialismo – ma risultò che la razza umana è indolente. Certo la difficoltà dell’impresa è tale da sgomentare. L’esercito è grande. La società è difficile da comprendere e nessuno sa veramente che cosa ci aspetta. E’ costituita da milioni di individui, vi è la religione e la famiglia. Cammino per la strada e penso: è una follia – la gente non sa cosa sta accadendo. Entro 75 anni tutta quest’area sarà sommersa e questi si preoccupano del tipo di jeans che intendono comprarsi. E’ difficile immaginarsi che quanto stai vivendo proprio ora tra vent’anni non esisterà più. Durante la prima guerra mondiale in Germania si dovette attendere fino al 1916 perché si verificassero grandi manifestazioni. E furono necessari altri due anni perché la gente infine dicesse: non siamo più disposti a combattere. E questa era una situazione abbastanza lieve – la prima guerra mondiale fu nulla in confronto alla seconda e questa nulla in confronto a quello che sta arrivando. Nella seconda guerra mondiale morirono circa 60 milioni di persone. Ora stiamo parlando di milioni di persone che muoiono di fame e annegamento. Questo è il motivo per cui non faccio sconti sull’argomento. Socialismo o barbarie, come disse la Luxemburg. Queste sono le alternative.


Ogni tanto fa bene leggere un punto di vista economico che non provenga dai soliti cazzari maritati col libero mercato, la finanza e puttanate assortite.

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