di Alessandro Volpi
Sono molte le ragioni per le quali il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva bisogno dell’incontro con l’omologo russo, Vladimir Putin.
In primo luogo gli Stati Uniti stanno vivendo una grave crisi di credibilità internazionale: non sono ormai la più grande potenza industriale, sono indebitati in modo devastante con il resto del mondo, vivono su una gigantesca bolla finanziaria, hanno una moneta che, svalutandosi troppo, non è più in grado di rivestire il ruolo di riserva internazionale, né tantomeno di bene rifugio. Sono minacciati sul versante dell’innovazione dalla Cina e soffrono un disavanzo commerciale insostenibile. Hanno quale unica, vera, prerogativa quella di essere la più grande potenza militare mondiale. In tali condizioni un vertice con l’altra grande potenza militare mondiale, senza intermediari, al di fuori del diritto internazionale e delle sue istituzioni, è una prova di forza enorme, finalizzata proprio a nascondere la crisi del capitalismo statunitense che, peraltro, secondo Trump è stata generata dai liberali progressisti con la globalizzazione occidentale.
La seconda ragione è più specifica. Stati Uniti e Russia possono decidere le sorti in termini monopolistici di alcuni settori vitali, a cominciare dall’energia e dalle sue gigantesche dinamiche speculative che possono esportare inflazione in giro per il mondo e dalla produzione di armi. Alla luce di ciò il vertice in Alaska è stato l’incontro tra due soggetti in grado di definire, in termini pressoché monopolistici, il prezzo del gas. La Russia è infatti il principale esportatore al mondo con circa 140 miliardi di metri cubi mentre gli Stati Uniti si piazzano al terzo posto con poco meno di 130 miliardi. Sono dunque in grado di definire praticamente da soli i prezzi sia sul mercato fisico sia in termini finanziari. Basta che si accordino e soprattutto basta che trovino un’intesa le principali società produttrici: Gazprom e Novatek per la Russia –entrambe di fatto di proprietà statale – Cheniere Energy, Venture Global Lng, Tellurian, Sempra, Freeport Lng e Dominion Energy, che hanno quasi tutte come azionisti di riferimento BlackRock, Vanguard e State Street, per gli Stati Uniti.
Putin, Trump e i tre grandi fondi citati (Big Three) possono dunque fare praticamente quello che vogliono sul prezzo del gas e l’Unione Europea, scegliendo di non trattare gas russo, ha deciso di rafforzare ancora di più questo monopolio che dunque farà, a proprio piacimento, i prezzi e le speculazioni più pesanti. Per gli europei, in primis.
Il vertice con Putin, poi, assolve a due funzioni, apparentemente in contrasto tra loro; separare la Russia dalla Cina e tenere un canale aperto con i Brics+ mentre Trump attua guerre doganali selettive. Il messaggio è chiaro: il rapporto privilegiato Trump-Putin dovrebbe obbligare la Cina di Xi Jinping ad accettare una costante triangolazione attraverso cui costruire politiche commerciali tripolari destinate a condizionare il complesso degli scambi globali e quindi a rendere obbligatoriamente digeribili i dazi statunitensi.
La quarta ragione è ancora più esplicita. Il vertice in Alaska sancisce la totale irrilevanza europea, che non può agire come soggetto unitario ma solo nelle forme delle singole e fragili realtà nazionali. In questo senso Trump pare voler parlare solo alla Germania per farne un’interlocutrice privilegiata, insieme al Regno Unito, ancora nel triangolo “armi, finanza, dollarizzazione”. Rispetto a tutto ciò, l’impressione è che l’Ucraina sia solo un tragico, ingombrante pretesto.
L’Unione Europea ha adottato nei confronti della Russia 18 pacchetti di sanzioni che mirano ad azzerare gli scambi di merci e servizi. È evidente che simili provvedimenti hanno spinto la Russia a ridefinire quasi totalmente le proprie geografie commerciali. Le sanzioni prevedono anche l’esclusione dal sistema dei pagamenti e la confisca delle riserve detenute presso le banche europee. Al tempo stesso l’Unione europea si è impegnata, senza reali contropartite, a comprare energia dagli Usa per 250 miliardi di dollari l’anno, tre volte quanto ha comprato nel 2024, e a trasferire sempre negli Stati Uniti 600 miliardi di dollari in investimenti produttivi. Non era difficile immaginare che per i russi gli europei siano quantomeno inutili e per gli americani dei subalterni. Dunque perché coinvolgerli in qualsivoglia trattativa? Inoltre Trump sa bene che il centro del capitalismo finanziario europeo è New York e che quindi dovrà difenderlo usque ad mortem a prescindere da ogni coinvolgimento nelle scelte internazionali. Per Russia e Stati Uniti l’unico interlocutore è la Cina e la partita si gioca sul piano degli equilibri di forza tra questi tre soggetti. Il vero paradosso consiste nel fatto che questo esito, scelto da Trump, è in larga parte il prodotto della globalizzazione neoliberale e della sua avidità.
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