di Guglielmo Forges Davanzati
La recente “promozione” dei conti pubblici italiani da parte di Moody’s (da Baa3 a Baa2) e la riduzione dello spread sono stati salutati dal Governo come successi storici. Una verifica più attenta di ciò che è successo può, però, indurre a dubitare dell’interpretazione dell’Esecutivo. Vediamo perché.
Innanzitutto, va messo in evidenza il radicale cambiamento di opinione su questi temi da parte dell’attuale maggioranza e della sua leader: nel 2018, Giorgia Meloni definiva il giudizio delle agenzie di rating “attendibile come la previsione di una cartomante”, aggiungendo che le istituzioni che valutano la solidità dei conti pubblici di un Paese sono niente altro che “pagliacci”.
In effetti, vi sono buone ragioni per dubitare dell’efficacia e della trasparenza del loro operato, nello svolgimento del loro compito di valutare la capacità di uno Stato di rimborsare il debito: gli errori commessi sono stati clamorosi, a partire dall’assegnazione di un buon giudizio a Lehman Brothers poco prima del suo fallimento, per continuare con la valutazione positiva attribuita a Parmalat a ridosso del crack finanziario e per finire con l’apprezzamento dei mutui subprime in concomitanza con l’ondata di insolvenze.
Vi è di più, dal momento che alcuni economisti attribuiscono la crisi finanziaria globale del 2007-2008 proprio agli errori di valutazione commessi dalle agenzie di rating.
In secondo luogo, il Governo si è mosso, in questi anni, in un contesto favorevole alla riduzione del rapporto debito pubblico/Pil, dal momento che, come sempre accade, l’inflazione avvantaggia i debitori e, dunque, rende più facilmente possibile una riduzione del debito.
In terzo luogo, la riduzione dello spread – e, dunque, il risparmio di costo degli interessi – è soprattutto l’effetto del peggioramento dei fondamentali di Germania e Francia. Come è noto, la Germania – alle prese con la fuoriuscita dalla recessione – ha varato misure di aumento della spesa pubblica per infrastrutture e riarmo, intraprendendo un sentiero che, di norma, viene bocciato dagli investitori, sensibili soprattutto al rigore di bilancio.
L’instabilità politica francese, d’altra parte, con ripetute crisi di Governo e difficoltà nell’approvazione della legge finanziaria si è tradotta in crescente incertezza e quest’ultima nel deprezzamento dei titoli.
Alla riduzione dello spread concorre anche una manovra finanziaria improntata al consolidamento fiscale, che evita la procedura d’infrazione in corso da parte della Commissione Europea (con le conseguenti sanzioni). Ma, anche in questo caso, il Governo non ha molte ragioni per attribuirsi il merito di questo risultato, dal momento che la procedura d’infrazione è stata aperta nel giugno 2024 – dunque al secondo anno dell’Esecutivo Meloni – per i conti del 2023, sulla base di un rapporto deficit/Pil superiore al 3%.
Infine, non ha fin qui prodotto risultati la strategia del Governo di “ridurre la dipendenza dai creditori stranieri”, vincolando una parte delle emissioni di titoli di Stato (BtP Italia) all’acquisto da parte di cittadini italiani, assumendo che sia meno rischiosa la detenzione di titoli di Stato da parte dei residenti.
Banca d’Italia, con aggiornamento ad agosto 2025, rileva che la quantità di titoli detenuti da stranieri è notevolmente superiore rispetto a quello nel portafoglio degli italiani (33-34%, dato considerato eccezionalmente elevato), dato confermato su fonte FABI (Federazione autonoma bancari italiani), per il quale gli investitori esteri detengono ancora la gran parte dei titoli italiani.
C’è poi da chiedersi a quale prezzo si riesce (se si riesce) a conseguire l’obiettivo di una riduzione strutturale del rapporto debito pubblico/Pil. Vi è, al riguardo, consenso unanime che la Legge di stabilità in corso di approvazione si colloca all’interno di una lunga fase di austerità, che si può far cominciare con le manovre “lacrime e sangue” dei primi anni Novanta.
Come mostrato da un’ampia letteratura scientifica, e come autorevolmente ammesso dallo stesso Fondo Monetario Internazionale, le politiche di austerità fanno aumentare, non ridurre, il rapporto debito/Pil, a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica – soprattutto in fasi recessive – riduce il tasso di crescita del Pil e, dunque, il denominatore.
Ne è prova l’esperienza italiana dell’austerità del biennio 2011-2013 (Governo Monti), che ha prodotto un aumento del rapporto debito pubblico/Pil di circa 15 punti percentuali.
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