A vent'anni della carneficina di Capaci mi chiedo cosa
penserà oggi il rieletto per la quarta volta sindaco di Palermo, Leoluca
Orlando, campione dell'antimafia militante. Era amico di Giovanni Falcone
ma non esitò ad attaccarlo alla colonna infame per sospetta ignavia .
Orlando scelse la tribuna infuocata di una storica puntata di Samarcanda
in staffetta con il Maurizio Costanzo Show per tuonare contro il magistrato accusandolo di non aver risolto i misteri di Palermo. E' la stessa trasmissione in cui Alfredo Galasso della Rete dice all'illustre collega: "Non mi piace Giovanni che stai nel palazzo del potere".
Non piaceva a molti quel direttore generale degli Affari penali scelto
dal guardasigilli Claudio Martelli, socialista craxiano e quindi
infrequentabile per un magistrato d'assalto che si era guadagnato una
falsa patente di comunista. Erano invece altri i motivi che in quella
stessa puntata da corrida, Totò Cuffaro "vasa vasa" in
maniche di camicia, ancora ignoto peones democristiano, allora senza
coppola e cannoli, tuonava bordate in diretta al sornione Falcone che
nel suo enigmatico silenzio forse si domandava a quale mandamento
rispondesse l'energico signore oggi finito nelle patrie galere con
sentenza definitiva.
Orlando non mollava la presa continuando la sua polemica serrata presentando esposti al Csm contro
Falcone chiedendo conto dei fascicoli "che dormono nei cassetti". E
Falcone, solo, sempre piu' solo, era costretto a spiegare a Giovanni
Bianconi allora in servizio alla Stampa: "Non ho insabbiato inchieste,
non ci sono le prove. Proseguo la mia lotta, con piu' esperienza, piu' amarezza, ma con lo stesso impegno".
Falcone non le voleva sbagliare le inchieste, era un magistrato che non si faceva tirare la toga da destra e da sinistra.
Ho visto di recente che il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone,
ha solennemente commemorato Giovanni Falcone. Peccato che il martire di
Capaci scrivesse nei suoi diari che i suoi colleghi Pignatone e Lo
Forte andassero dal cardinale Pappalardo ad acquisire notizie sul
processo per l'omicidio Mattarella non avvisando lui, il responsabile
del coordinamento delle indagini antimafia a Palermo. Molti la ricordano
quella geografia interna del Palazzo dei veleni palermitano. Giuseppe
Pignatone e Guido Lo Forte "i gemelli", oppure collodianamente definiti "il gatto e la volpe", i preferiti dal dottore Piero Giammanco,
il procuratore che depotenzio' Falcone e lo costrinse a trasferirsi al
ministero. Quel procuratore di Palermo sarà rimosso a carneficine
avvenute, non prima di aver fatto ingoiare bocconi amari a Paolo Borsellino durante i 57 giorni
che separano Capaci da via D'Amelio. Pignatone, figlio di Francesco,
deputato democristiano, invece recentemente a Reggio Calabria ha vissuto
la sua stagione alla Falcone, e si spera che quei duri giorni
palermitani tra giudici bianchi e neri lo abbiano profondamente
cambiato.
Qualcuno ricorda certamente le improbabili capigliature della signora
Ombretta Fumagalli Carulli, membro del Csm e politica ondivaga delle due
repubbliche. Si ricorda meno che la cattolica giurista sul Giornale di Montanelli accusava Falcone di aver coperto nelle sue indagini il costruttore Costanzo. Una firma in buona compagnia di Lino Jannuzzi,
celebre mafiologo di professione che sul "Giornale di Napoli" infilava
la penna nel curaro per accusare Falcone e De Gennaro di essere i
principali responsabili della debacle dello Stato nei confronti della
mafia e speriamo che la soffiata non sia arrivata dal suo capocorrente Dell'Utri,
e in questa pubblicistica dimenticata non si puo' non contemplare il
corsivismo militante del palermitano Giornale di Sicilia sostenuta dal
garantismo peloso del giudice Geraci, di Vincenzo Vitale (sarà
collaboratore del guardasigilli forzista Alfredo Biondi) e del
condirettore Giovanni Pepi che prontamente dopo "l'attentatuni"
modificheranno le loro idee facendo dire a Maria Falcone: "Ora mi sorridono quelle serpi".
Anche l'Unità fece le barricate contro le idee innovatrici di Falcone e chiamo uno dei suoi piu' illustri costituzionalisti, Alessandro Pizzorusso, membro lottizzato del Csm per far scrivere a futura memoria: " Falcone superprocuratore? Non puo' farlo, vi dico perche?".
Cosa Nostra era già in Borsa ma tanti, molti, non credevano alle menti raffinate e inducevano a pensare che l'attentato all'Addaura era una messinscena. L'Associazione nazionale dei magistrati lo considerava un traditore,
diffidava da lui la stragrande parte di Magistratura democratica e
anche il pool milanese di Mani pulite fu preso a pesci in faccia da Ilda
Boccasini alla commemorazione pubblica dopo Capaci per aver negato a
Falcone gli allegati di una rogatoria internazionale.
Il quotidiano Repubblica che oggi fa cassa in edicola con le memorie di
Falcone stranamente, fece recensire il monumentale libro-intervista
"Cose di cosa nostra" al sovietologo e inviato internazionale, Sandro
Viola che non si sa per quale motivo scrisse: "...scorrendo il libro
s'avverte (anche per il concorso d'una intervistatrice adorante) proprio
questo: l'eruzione d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a
celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis
o dei guitti televisivi...". Stranamente nell'archivio elettronico del giornale diretto da Ezio Mauro
non si trova traccia di questo celebre scivolone che chiedeva a Falcone
di abbandonare la magistratura. A vent'anni da Capaci il monito è:
ricordate gli eroi morti, ma ricordateli vivi. I santini non servono a
nessuno.
Fonte.
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