Lacrime di coccodrillo”: così la Camusso ha definito il rammarico della
Fornero perché la sua controriforma “non è condivisa da tutti”, cioè
perché qualcuno ancora si ostina a non pensarla come lei. Non sappiamo
se madama Fornero sia un coccodrillo. Ma, se lo è, trattasi di esemplare
nuovo, geneticamente modificato: il coccodrillo che piange prima. Il 18
dicembre, un mese dopo le sue lacrime in favore di telecamera, la
Fornero disse al Corriere: “L’articolo 18 non è un totem” (forse voleva
dire tabù). Poi, di fronte alle prevedibili polemiche, ingranò la
retromarcia: “Non avevo e non ho in mente nulla che riguardi in modo
particolare l’art. 18. Sono stata ingenua, i giornalisti sono bravissimi
a tendere trappole. Vogliamo lasciarlo stare questo art. 18? Io son
pronta a dire che neanche lo conosco, non l’ho mai visto”. L’ 8 gennaio
Monti smentì la retromarcia: “Niente va considerato un tabù. In questo
senso il ministro Fornero ha citato l’art. 18”. Il 30 gennaio la Fornero
smentì la smentita: “L’art. 18 non è preminente, ma non dev’essere un
tabù”. E via a sproloquiare sul “modello tedesco”: quello che prevede
l’intervento del giudice per ogni licenziamento. Invece la controriforma
Fornero esclude dal reintegro giudiziario i licenziamenti per motivi
economici, anche se camuffano quelli disciplinari e discriminatori. È
così, tra una bugia e l’altra, che s’è svolta tutta la trattativa su un
non-problema, “non preminente”, “mai visto”: infatti alla fine l’art. 18
esaurisce praticamente l’intera “riforma del mercato del lavoro”. Il
resto è fuffa, anzi truffa. Monti dice che l’art. 18 frena gli
investimenti esteri. Ma l’ha subito sbugiardato persino il neopresidente
di Confindustria, Squinzi: “In linea generale non credo sia l’art. 18 a
bloccare lo sviluppo del Paese. Le urgenze sono altre: burocrazia,
mancanza di infrastrutture, costi eccessivi dell’energia, criminalità”.
Per Napolitano la “riforma è ineludibile per adeguarsi alla legislazione
dell’Europa”. Monti aggiunge che, se avesse stralciato l’articolo 18
dalla “riforma”, “l’Europa non avrebbe capito”. E allora perché l’Europa
capisce benissimo la Germania, che consente a ogni licenziato, per
qualunque motivo, di appellarsi al giudice che può decidere sempre fra
l’indennizzo e il reintegro? Sul Corriere, Ferruccio de Bortoli trova
“inquietanti” i “toni apocalittici di molti commenti” che “descrivono un
paese irreale”, “tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da
lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande
maggioranza dei luoghi di lavoro. Dipingono gli imprenditori (che hanno
le loro colpe) come un branco i lupi assetati che non aspetta altro se
non licenziare migliaia di dipendenti”. Potrebbe chiedere informazioni
al suo principale azionista, la Fiat, che a Melfi ha cacciato tre
lavoratori solo perché facevano i sindacalisti e a Pomigliano richiama
al lavoro solo i cassintegrati non iscritti alla Cgil, facendo carta
straccia della Costituzione e dello Statuto dei lavoratori. Poi de
Bortoli violenta due volte la logica, usando i numeri bassissimi di
licenziati reintegrati per dimostrare che la controriforma dell’art. 18
non fa male a nessuno. È vero che “solo l’ 1 % delle pratiche di
licenziamento gestite dalla sola Cgil tra il 2007 e il 2011 è sfociato
in riassunzioni o reintegri”: ogni anno i giudici si occupano di 6 mila
licenziati e ne reintegrano solo 60. Ma questo dimostra l’opposto di
quel che vuol sostenere de Bortoli. E cioè: l’art. 18 è un argine
fondamentale contro i licenziamenti ingiusti, che con la controriforma
saranno molti di più; ed è falso che oggi i giudici impediscano alle
aziende di licenziare in caso di necessità. Ergo non c’è alcun motivo di
toccare l’articolo 18. E quanti lo vogliono stravolgere non sono mossi
da ragioni economico-produttive, cioè tecniche. Ma politiche o, come
direbbe de Bortoli, ideologiche. Ecco, per favore: ci risparmino almeno
le balle.
Fonte.
Nessun commento:
Posta un commento