Dopo la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale. Christine
Lagarde, in visita a Pechino, fa tanti complimenti alla Cina che rende la sua crescita più “equilibrata”, però…
Però c’è quel piccolo problemino dello yuan/renminbi, la valuta che i policy maker
occidentali considerano sottovalutata di quel tanto che basta a rendere
artificialmente competitive le esportazioni del Dragone.
A Pechino ribattono che gli ultimi dati della bilancia commerciale, con il deficit più alto mai registrato dal 1989, sanciscono già l’uscita della Cina da un’economia export oriented, in direzione di una crescita sostenuta dalla domanda interna. Lo yuan non c’entra, dunque.
Niente affatto – ribatte il Fmi – la vostra bilancia commerciale è
andata giù perché l’Europa in crisi compra meno merci cinesi, ma il
renminbi resta artificialmente svalutato, eccome: per la precisione, tra
il 3 e il 23 per cento a seconda delle stime, in base a dati dello
stesso Fondo che risalgono a luglio 2011.
Le
schermaglie attorno alla valuta cinese riguardano in realtà un progetto
che viene da lontano e che lontano intende arrivare. È la “lunga marcia” dello yuan per sostituire (o quanto meno affiancare) dollaro, euro e yen giapponese come valuta di riserva globale.
È stata proprio Lagarde a riconoscere che non ci sarebbero
controindicazioni al nuovo status del renminbi, a patto che la Cina si
avvii verso un regime di cambio più flessibile. A patto cioè che il
valore della moneta sia determinato dal mercato e non politicamente.
Pochi
giorni fa è stato lo stesso governatore della banca centrale cinese,
Zhou Xiaochuan, a lasciar intendere che il Dragone è intenzionato a
muoversi nella direzione auspicata dall’Occidente: “Quanto più lo yuan
si avvicinerà a una condizione di equilibrio, tanto più grande sarà il
ruolo che le forze di mercato giocheranno nel determinare il suo tasso
di cambio. Noi incoraggeremo le forze di mercato a svolgere un ruolo più
grande, la partecipazione e l’intervento della banca centrale
diminuiranno in modo ordinato”.
Zhou non ha parlato di lasciar
fluttuare liberamente lo yuan (ora saldamente agganciato al valore del
dollaro), e neppure di ampliare la sua banda di oscillazione, ma
l’internazionalizzazione della valuta presuppone la sua piena
convertibilità in conto capitale. Secondo i programmi di Pechino, questo
dovrebbe avvenire entro il 2015.
Dove sta il problema, dunque, se tutti remano nella stessa direzione?
La Cina si trova oggi davanti a uno di quei passaggi storici da cui
dipende la sua crescita futura e il suo status internazionale. Un
passaggio che coincide con il cambio della sua leadership, previsto per
il prossimo ottobre. La piena convertibilità dello yuan rappresenta al
tempo stesso l’opportunità di emancipare intere aree del pianeta dal
ruolo dominante del dollaro e il rischio di attirare speculazione – la
stessa che affligge l’Euro – in casa propria.
Pechino vuole quindi
gestire questa fase in proprio, senza che siano altri a dettarne modi e
tempi. D’altra parte, l’Occidente – e in particolare Washington – vuole
l’esatto contrario: che la moneta cinese perda le sue caratteristiche
“protezioniste” ma teme che la “lunga marcia” dello yuan si concluda
con lo spodestamento del dollaro.
Alcuni segnali sono indicativi: il
Giappone, con l’inedito beneplacito cinese, ha appena acquistato 65
miliardi di yuan del debito di Pechino; a fine marzo, la China
Development Bank avvierà un sistema di scambi reciproci con gli altri
Brics (Brasile, Russia, India, Sudafrica) in renminbi e nelle altre
valute nazionali. Sono movimenti che significano solo una cosa: la Cina
(d’accordo con altri Paesi emergenti) intende riempire i propri e altrui
forzieri di valute che non siano il dollaro.
Fonte.
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