”La brutale repressione del governo siriano non giustifica abusi da
parte dei gruppi armati dell’opposizione”. Non usa giri di parole Sarah
Leah Whitson, direttrice della sezione Medio Oriente di Human Rights Watch, l’ong che si batte per il rispetto dei diritti umani.
Il
commento arriva durante la conferenza stampa di presentazione da parte
di Hrw di una lettera aperta che accusa i ribelli in Siria di
”esecuzioni, rapimenti, arresti, torture di membri delle forze di
sicurezza, di sostenitori del governo e di comuni cittadini ritenuti
membri delle milizie di lealisti (chiamate shabeeha). I leader della rivolta hanno l’obbligo di imporre ai loro uomini di non rapire, torturare o uccidere nessuno senza processo”.
La lettera è stata consegnata al Syrian National Council
e alle altre sigle che si accreditano come rappresentanti dei rivoltosi
che da un anno combattono contro il governo del presidente Bashar
al-Assad. Dopo aver ribadito gli abusi dell’esercito siriano, Hrw
sottolinea che a fare le spese delle violazioni dei diritti umani da
parte dei ribelli sono in particolar modo gli sciiti (compreso il caso
documentato da Hrw di sette cittadini iraniani torturati) e gli aleviti,
questi ultimi correligionari di Assad, e vicini agli sciiti. Un
conflitto nel conflitto, quello di matrice religiosa, che vede anche la
comunità cristiana impaurita dalle violenze nel timore che il radicalismo sunnita prenda il controllo dell’insurrezione in uno scenario sul modello iracheno.
Proprio
l’Iraq, nelle stesse ore, vive giornate di sangue. In molti si chiedono
delle possibili ripercussioni della crisi siriana sul Libano, sulla
Turchia (dove la minoranza alevita ha da sempre un rapporto difficile
con Istanbul, tanto che Damasco accusa il governo turco di sostenere il
cambio di regime in Siria), in Iran, dove gli sciiti al potere hanno da
sempre negli aleviti di Assad un alleato strategico. Ma l’Iraq? Proprio a
Baghdad, il 27 marzo prossimo, si terrà il vertice della Lega Araba che
al primo punto in agenda avrà la crisi siriana.
Le petromonarchie
sunnite del Golfo premono perché la Lega Araba dia il via libera a una
maggiore pressione internazionale contro Assad, ma è proprio l’Iraq che
non ha ancora assunto una posizione chiara sulla questione. Il Paese,
dopo la caduta di Saddam, garante della minoranza sunnita, ha visto
l’ascesa politica della maggioranza sciita della popolazione (circa il
60 per cento). Le pressioni saudite e Usa hanno temperato quelle
iraniane in un arrocco politico del quale, per ora, fa le spese la
popolazione civile in un Iraq ancora devastato dalla guerra.
Ieri,
20 marzo, almeno 25 persone hanno perso la vita (un centinaio i feriti)
in una serie di attentati compiuti in diverse città irachene, tra cui
Baghdad, Kerbala e Kirkuk. Il primo vertice della Lega Araba in Iraq,
dopo venti anni, è un momento di visibilità per le forze che si muovono
nel Paese rispetto agli equilibri regionali. Moqtada al-Sadr,
il predicatore sciita che per anni ha combattuto gli statunitensi,
ritenuto molto vicino all’Iran (paese nel quale ha vissuto per lungo
tempo) ha annunciato una grande mobilitazione sciita per i prossimi
giorni. Motivo ufficiale della manifestazione la richiesta di migliori
condizioni di vita e del riconoscimento del ruolo degli sciiti nel
sistema di governo dell’Iraq.
Nessuno si illuda, però, che tutto
questo riguardi solo l’Iraq. Come nessuno può credere che in Siria, dove
sono all’opera forze esterne come è già accaduto in Libia, la caduta di
Assad avverrà senza gravi ripercussioni in tutta la regione. Con lo
spettro della lotta tra sunniti e sciiti che avvelena sempre più una situazione già rovente.
Fonte.
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