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21/03/2012

Siria, la crisi contagia l’Iraq

”La brutale repressione del governo siriano non giustifica abusi da parte dei gruppi armati dell’opposizione”. Non usa giri di parole Sarah Leah Whitson, direttrice della sezione Medio Oriente di Human Rights Watch, l’ong che si batte per il rispetto dei diritti umani.
Il commento arriva durante la conferenza stampa di presentazione da parte di Hrw di una lettera aperta che accusa i ribelli in Siria di ”esecuzioni, rapimenti, arresti, torture di membri delle forze di sicurezza, di sostenitori del governo e di comuni cittadini ritenuti membri delle milizie di lealisti (chiamate shabeeha). I leader della rivolta hanno l’obbligo di imporre ai loro uomini di non rapire, torturare o uccidere nessuno senza processo”.
La lettera è stata consegnata al Syrian National Council e alle altre sigle che si accreditano come rappresentanti dei rivoltosi che da un anno combattono contro il governo del presidente Bashar al-Assad. Dopo aver ribadito gli abusi dell’esercito siriano, Hrw sottolinea che a fare le spese delle violazioni dei diritti umani da parte dei ribelli sono in particolar modo gli sciiti (compreso il caso documentato da Hrw di sette cittadini iraniani torturati) e gli aleviti, questi ultimi correligionari di Assad, e vicini agli sciiti. Un conflitto nel conflitto, quello di matrice religiosa, che vede anche la comunità cristiana impaurita dalle violenze nel timore che il radicalismo sunnita prenda il controllo dell’insurrezione in uno scenario sul modello iracheno.
Proprio l’Iraq, nelle stesse ore, vive giornate di sangue. In molti si chiedono delle possibili ripercussioni della crisi siriana sul Libano, sulla Turchia (dove la minoranza alevita ha da sempre un rapporto difficile con Istanbul, tanto che Damasco accusa il governo turco di sostenere il cambio di regime in Siria), in Iran, dove gli sciiti al potere hanno da sempre negli aleviti di Assad un alleato strategico. Ma l’Iraq? Proprio a Baghdad, il 27 marzo prossimo, si terrà il vertice della Lega Araba che al primo punto in agenda avrà la crisi siriana.
Le petromonarchie sunnite del Golfo premono perché la Lega Araba dia il via libera a una maggiore pressione internazionale contro Assad, ma è proprio l’Iraq che non ha ancora assunto una posizione chiara sulla questione. Il Paese, dopo la caduta di Saddam, garante della minoranza sunnita, ha visto l’ascesa politica della maggioranza sciita della popolazione (circa il 60 per cento). Le pressioni saudite e Usa hanno temperato quelle iraniane in un arrocco politico del quale, per ora, fa le spese la popolazione civile in un Iraq ancora devastato dalla guerra.
Ieri, 20 marzo, almeno 25 persone hanno perso la vita (un centinaio i feriti) in una serie di attentati compiuti in diverse città irachene, tra cui Baghdad, Kerbala e Kirkuk. Il primo vertice della Lega Araba in Iraq, dopo venti anni, è un momento di visibilità per le forze che si muovono nel Paese rispetto agli equilibri regionali. Moqtada al-Sadr, il predicatore sciita che per anni ha combattuto gli statunitensi, ritenuto molto vicino all’Iran (paese nel quale ha vissuto per lungo tempo) ha annunciato una grande mobilitazione sciita per i prossimi giorni. Motivo ufficiale della manifestazione la richiesta di migliori condizioni di vita e del riconoscimento del ruolo degli sciiti nel sistema di governo dell’Iraq.
Nessuno si illuda, però, che tutto questo riguardi solo l’Iraq. Come nessuno può credere che in Siria, dove sono all’opera forze esterne come è già accaduto in Libia, la caduta di Assad avverrà senza gravi ripercussioni in tutta la regione. Con lo spettro della lotta tra sunniti e sciiti che avvelena sempre più una situazione già rovente.

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