Giovanni Esposito è un giovane ingegnere di
ventiquattro anni, originario di Caserta. Si è appena laureato al
Politecnico di Milano con il massimo dei voti. Sul volto, i segni di una
maturità precoce. Tipica di chi nella vita ha dovuto imparare presto a
cavarsela da solo. Mi chiede consiglio. Vorrebbe rimanere a lavorare in
Italia.
Ma gli propongono solo stage o, al massimo, contratti temporanei. Con stipendi da fame.
E' ambizioso, come deve esserlo chi vuole fare qualcosa d'importante
nella vita. E' orgoglioso, come tutti quelli che nella vita hanno dovuto
faticarsi ogni passo. Si sente umiliato e deluso da
questo paese. Però è il suo paese. Siamo al bar, e davanti a un caffè mi
parla di questa proposta d'impiego da parte di un'impresa olandese. Contratto a tempo indeterminato, stipendio il doppio di quello italiano,
la sua gioventù e mancanza di esperienza valutate con grande
apprezzamento e non, come da noi, quasi fossero una colpa. Gli leggo sul
volto una domanda: "perché?". Perché questo paese non mi riconosce
quello che mi sono conquistato con mille sacrifici? Perché devo quasi
elemosinare un posto di lavoro?. Manco mi facessero un favore a darmelo,
questo benedetto posto di lavoro. "Perché?". E allora, tutto a un
tratto gli dico: "non te la fare quella domanda. Perché se questo
paese non ti sa apprezzare, se non ti vuole offrire un lavoro decente
dopo tutti i sacrifici che hai fatto, allora non ti merita. Vai". Mi guarda, annuisce.
Giovanni Esposito è soltanto uno, tra le migliaia di laureati eccellenti che stanno lasciando questo paese
o che lo hanno già lasciato, negli ultimi vent'anni. La sua decisione è
un danno enorme per l'Italia. Giovanni ha studiato e si è laureato in
una grande università italiana. Una di quelle isole d'eccellenza che il
mondo ancora ci invidia. E sul più bello, nel momento in cui potrebbe
dare un grande contributo di competenza, energia e innovazione, lo perdiamo.
L'Italia è l'unico tra i grandi paesi europei ad avere una "bilancia
commerciale dei cervelli" o, come si usa dire un brain drain, in
negativo. In poche parole: ogni anno il numero di laureati che lascia il nostro paese è superiore al numero di laureati che vi arriva.
Diventiamo più ignoranti ogni anno che passa. Tra il 1990 e il 2000 il
numero di laureati italiani che se n'è andato all'estero è
quadruplicato. Il problema è che, come scrive l'Economist "la
produttività dei lavoratori dipende dalle loro competenze, dall'entità
del capitale investito per aiutarli a fare il loro lavoro, e dalla
capacità di fare innovazione". Due sue tre delle cose citate,
competenze e capacità di fare innovazione, sono massime proprio in un
giovane laureato. Nell'economia attuale il capitale-cervello di un
sistema-paese, il suo brain-capital, è tutto ciò che conta. E
l'andamento del brain-capital di una nazione oggi è
l'indicatore predittivo dello sviluppo o del declino di quella nazione
domani. Il nostro è in impoverimento continuo da oltre vent'anni. A
questo trend si aggiungono tre ulteriori cattive notizie.
Primo: i laureati che arrivano in Italia sono mediamente di qualità
inferiore rispetto a quelli che lasciano l'Italia. Secondo, i laureati
che arrivano in Italia svolgono in media mansioni di qualità e
responsabilità inferiori, e meno orientate a lavori di tipo scientifico,
rispetto ai laureati che lasciano l'Italia. Terzo, il laureato italiano
che rimane nel proprio paese, anche se di livello e preparazione
elevate in campo scientifico, è sottopagato e male utilizzato
rispetto al laureato in altri paesi europei. E dire che i nostri
laureati in materie scientifiche sono tra i migliori a livello europeo.
Solo che li paghiamo poco, pochissimo. Milano è diventata la Bangalore d'Europa:
una città con università che laureano eccellenti ingegneri, ma che li
retribuisce con stipendi "indiani". Al punto che molte società cinesi
stanno aprendo a Milano centri di ricerca e sviluppo. Secondo la loro
analisi, infatti, siamo ai primissimi posti in Europa per qualità dei
laureati in materie scientifiche, ma agli ultimi per livello degli
stipendi. Allo stesso tempo società tedesche, svizzere, olandesi,
inglesi, fanno incetta dei nostri laureati per potenziare le loro
strutture organizzative. Da un lato c'è di che essere orgogliosi,
dall'altro c'è di che essere preoccupati. Come mai si verifica tutto
questo? Certo l'Italia non è la Germania, ma l'Italia non è nemmeno la
Grecia. E allora perché li paghiamo così poco e li trattiamo
contrattualmente così male, i nostri migliori laureati?. Le ragioni sono essenzialmente due.
La prima è il carico elevato degli oneri sociali sui contratti di
lavoro dipendente, insieme con la possibilità per l'impresa di assumere
in modo precario il neo-laureato. La seconda è la mentalità
dell'imprenditore italiano, il quale preferisce il perito industriale
all'ingegnere. Non si spiegherebbe, altrimenti, il fatto che la
differenza di stipendio tra i due al primo impiego spesso non superi i
100-200 euro al mese. Né si spiegherebbe, altrimenti, il fatto che il
primo stipendio di un ingegnere assunto a progetto da un'impresa
italiana sia intorno a 1.300 euro al mese, contro i 1.800-2.000
offerti con contratto a tempo indeterminato allo stesso ingegnere (che a
quel punto ovviamente fa la valigia e se ne va), dall'impresa olandese o
tedesca concorrente. Il punto è che esiste, in Italia, una mentalità
imprenditoriale che tende a sopravvalutare il valore del "saperci fare" e
dell'esperienza sul campo rispetto al valore della conoscenza
scientifica. Esiste, inoltre, la presunzione che il pensiero scientifico
e la preparazione generino nel dipendente una maggiore capacità
critica, che all'imprenditore italiano non sempre piace (preferisce
buoni esecutori fedeli). Ed esiste infine una tendenza a sopravvalutare
il peso degli anni di esperienza (che in realtà spesso sono pari a un
anno moltiplicato per venti) rispetto alla freschezza dell'approccio di
un giovane. Quando un'impresa olandese offre a un giovane ingegnere
italiano 1.800 euro al mese, quell'impresa sta scontando in positivo il
futuro valore aggiunto che le deriverà dalla maggiore freschezza e,
soprattutto, dal superiore grado di aggiornamento che quel giovane
ingegnere apporterà. E già, perché viviamo in un mondo in cui un
neolaureato in ingegneria elettronica ha competenze superiori e ben più
avanzate, rispetto a un ingegnere cinquantenne con venticinque anni di
esperienza. Quando un'impresa italiana offre 1.300 euro al mese allo
stesso ingegnere neolaureato invece, quell'impresa sta scontando in
negativo la sua inesperienza e la supposta, onerosa attività di
formazione sul campo. Si tratta di un problema culturale.
La cultura per cui un grammo di pratica vale più di un 1 kg di teoria,
la cultura del capannone. Questo atteggiamento mentale, che sottovaluta
il ruolo della conoscenza scientifica e della ricerca e sviluppo nella
creazione di valore per l'impresa, è testimoniato anche dal fatto che se
l'Italia investe in Ricerca e Sviluppo ormai meno dell' 1% del PIL, in
realtà una parte rilevante di responsabilità vada attribuita non solo
allo Stato (che comunque investe molto meno della media CEE) ma anche
agli imprenditori italiani. I quali rappresentano meno
della metà degli investimenti totali in Ricerca e Sviluppo, contro il
56% della media EU, il 67% dei loro colleghi USA, il 72% degli
imprenditori giapponesi. Questo modello industriale ignorante e fondato
sulla ricerca del più basso costo, invece che del più alto valore, però
non funziona. Lo dicono le cifre: l'Italia è il paese che ha conosciuto il maggiore declino dal 1995 al 2010, in quello che è l'indicatore fondamentale della produttività di un paese: il GDP per ora lavorata.
Se guardiamo poi al futuro che ci attende, quello del brain-drain negativo è il problema dei problemi. Più importante del PIL, e più importante della crescita.
Avere un brain-capital superiore a quello delle altre nazioni, infatti,
è il vantaggio competitivo del XXI° secolo. Significa possedere un
primato rispetto agli altri paesi. E non, si badi bene, sulla materia
prima o sulla produzione e vendita di merci. Bensì sulla generazione di nuove idee e progetti
ad elevato valore aggiunto. I banchieri d'affari sono stati i cittadini
globali e i protagonisti degli ultimi vent'anni. Gli scienziati e i
ricercatori lo saranno nei prossimi venti. E stanno già incominciando a
scegliersi, in giro per il mondo, i luoghi ideali in cui vivere e
lavorare. Dobbiamo farne parte, o saremo condannati al declino. Quando
tra cinque anni al massimo, la sbornia delle crescite comprese tra il 5 e
il 10% da parte dei BRICS e dei MISK si sarà esaurita, e tutto il mondo
affronterà il dato di fatto di dover convivere con uno scenario di
bassa crescita, la vera sfida sarà sugli incrementi di PIL modesti ma innovativi, produttivi
e capaci di generare nuova occupazione di qualità. Vale a dire quelli
determinati dall'innovazione. E questa capacità è direttamente
correlata, nella sua entità e qualità, al brain-capital di un
sistema-paese. In uno scenario di questo tipo quindi, il brain-capital e
la capacità di "attivarlo" con denaro e tecnologie adeguati, saranno
tutto quello che conta. Il mondo si dividerà tra chi sarà stato capace
di sviluppare un capitalismo innovativo e produttivo, e chi sarà rimasto
ancorato a un capitalismo competitivo solo in termini di capacità di
tagliare i costi. A quel punto il vantaggio da competitivo diventerà
comparato: da una parte i paesi con i cervelli, dall'altra quelli con le
braccia. L'Italia dovrebbe cercare di ritrovarsi dalla prima parte.
Come fare? Ovvio: tratteniamoli questi nostri eccellenti laureati,
pareggiando quanto offrono loro le imprese estere. E in che modo? Per
esempio con una norma che preveda, per i laureati in corso con voti
compresi tra il 110 e lode e il 100 presso le migliori università
italiane (come da ranking internazionale), l'eliminazione dei contributi
in busta paga per i primi cinque anni (a patto che il contratto di
assunzione sia, naturalmente, a tempo indeterminato). Con un 50% del
risparmio da destinare a incremento del netto in busta paga per il
laureato, e con l'altro 50% da destinarsi a riduzione del costo lordo
del laureato, per l'azienda. I dettagli si possono discutere, ma gli
obiettivi sono chiari: ridare competitività alle retribuzioni
offerte ai neo-laureati eccellenti rispetto alle proposte che arrivano
loro dall'estero; subordinare lo sgravio contributivo alla
stabilizzazione del rapporto di lavoro; aiutare le imprese in termini di
costo del lavoro lordo su questi profili a elevato valore aggiunto.
Mario Bianchi è un imprenditore lombardo. Ha fondato e
dirige un piccolo caseificio che, nell'arco di meno di dieci anni, ha
portato da uno a dieci milioni di euro di fatturato. Mario dà lavoro a
cinquanta dipendenti. Lo sto aiutando a sviluppare la sua azienda. Ha
degli ottimi prodotti e si può pensare di esportare sui mercati esteri.
Siamo a un bivio: il caseificio ha raggiunto il massimo della capacità
produttiva. Se vogliamo crescere dobbiamo fare un secondo stabilimento.
Valutiamo due prospettive: restare in Lombardia o andare a produrre in Svizzera,
in Canton Ticino. Mario è come tanti, forse come tutti gli italiani.
Non parla quasi mai bene del suo paese, ma lo ama profondamente. E,
nonostante tutto, se ci fosse una sola cosa alla quale aggrapparsi per
restare, resterebbe. Valutiamo le due prospettive. Lombardia: imposta
del 45% sull'utile d'impresa; deducibilità minima per gli investimenti
in ricerca e sviluppo (meno del 20%); 2.500 euro a operaio per dargliene
1.000 netti in busta paga; nessuna apertura di credito da parte delle
banche; oltre un anno per realizzare lo stabilimento dal momento in cui
si richiede l'autorizzazione al comune. Svizzera: imposta del 20%
sull'utile d'impresa; deducibilità totale degli investimenti in ricerca e
sviluppo; 2.500 euro a operaio per dargliene 1.800 netti in busta paga;
apertura di credito da parte delle banche a fronte dell'insediamento
produttivo; meno di un mese per partire in produzione con il nuovo
stabilimento dal momento in cui si richiede l'autorizzazione al comune;
costo dell'energia inferiore di circa il 25% rispetto all'Italia. Ci
guardiamo in faccia. Gli dico: "che cosa stiamo aspettando?". Mi guarda, annuisce.
Mario Bianchi è soltanto uno, tra le centinaia d'imprenditori lombardi che negli ultimi dieci anni hanno creato stabilimenti e posti di lavoro in Canton Ticino,
invece che in Italia. La sua decisione, come quella di Giovanni
Esposito, è un danno enorme per questo paese. Mentre ci preoccupiamo dei
capitali esportati in Svizzera, un vero e proprio esodo industriale
dalle conseguenze ben più gravi si sta compiendo, uno stabilimento alla
volta, dal Nord-Italia verso le nazioni a noi più vicine. Mentre i
capitali sono per definizione fluidi e mobili, le industrie invece
difficilmente ritornano indietro. Tanto più quando la delocalizzazione
avviene in nazioni competitive e a noi vicine, con grande qualità delle
infrastrutture, delle persone e delle leggi, come la Svizzera o la
Francia. Una delocalizzazione di questo tipo è senza ritorno. Sono posti
di lavoro perduti per sempre. La Svizzera ha preparato
da tempo la transizione della sua economia dalla finanza all'industria
ad elevato know-how. E la sta realizzando "alla svizzera": in modo
consapevole, serio, organizzato. La federazione elvetica si posiziona
nel mercato internazionale degli investimenti greenfield come l'Hub
industriale più avanzato nel cuore d'Europa, fiscalmente competitivo,
all'avanguardia nei suoi centri di ricerca, con ubicazioni produttive
raccordate e intermodali. La Svizzera sta diventando la porta verso il
Centro-Nord Europa e verso il Mediterraneo, allo stesso tempo,
sfruttando l'asse geografico ideale Nord-Sud che collega l'Europa
Mediterranea a quella continentale e che, in futuro, s'integrerà con i
paesi del Nord-Africa. Così facendo, gli svizzeri stanno letteralmente
scippando questo ruolo a un Nord-Italia privo da troppi anni di una
politica industriale, con al centro una Milano dormiente, pericolosamente distratta e erroneamente rassicurata da un evento, pur straordinario ma del tutto estemporaneo, come l'EXPO.
Nel mercato internazionale degli investimenti industriali ormai il Canton Ticino batte il Nord-Italia
dieci a zero. Questo è il punto. Come ci insegna la storia vera di
Mario Bianchi, purtroppo qui non c'è veramente più nulla a cui
aggrapparsi, per restare. Al di là della fiscalità opprimente e
dell'incertezza nelle regole e nei servizi che dipendono dal pubblico
poi, un industriale del Nord-Italia utilizza una logistica da paese Nord-Africano,
non da paese europeo. Con merci viaggianti su gomma per una percentuale
di oltre l'85%. Con un sistema ferroviario che ha colpevolmente
abbandonato lo sviluppo del traffico merci. Con raccordi ferroviari che,
per essere realizzati, arrivano a costare al privato oltre un milione
di euro al chilometro (!). Con stabilimenti che, nella maggior parte dei
casi, non sono raccordati e soprattutto non lo saranno mai (nemmeno
volendolo), perché localizzati in modo scriteriato dalle pubbliche
amministrazioni e dai loro piani regolatori (si fa per dire) in zone
lontanissime dalle linee ferroviarie. A tutto questo si aggiunga la mancanza di interporti
che permettano, in pratica e non in teoria, l'inter-modalità. Come si è
arrivati a tutto questo? E' il vecchio, eterno problema italiano del
fallito decentramento per il governo del territorio. Con un sistema di
regole che impegna regioni, province e comuni in diatribe senza fine,
causa la mancanza di meccanismi risolutivi efficaci e veloci, per quelle
diatribe. E con la colpevole latitanza di norme che specificassero fin
dal principio e con chiarezza "chi fa che cosa", come
accade invece in Svizzera, dove il comune fa una cosa, il cantone
un'altra, e la federazione un'altra ancora (ciascuno con aree di
responsabilità ben distinte). Da noi un comune di milleduecento anime
può bloccare opere d'interesse nazionale per decenni. Qui il tema della
TAV non c'entra. E' il sistema tutto che non funziona. Questo sistema di
governo del territorio che ci ritroviamo non è né un decentramento né
una democrazia rappresentativa delle diverse istanze. Questo sistema è
semplicemente un guazzabuglio che ci ha privato di una
vera politica industriale, negli ultimi quarant'anni. Solo che adesso il
nostro ritardo infrastrutturale si sta traducendo in un divario di
competitività insostenibile per gli industriali, che se ne vanno. Il
dramma è che, se non facciamo qualcosa in fretta, ci attende uno
scenario di progressiva deindustrializzazione del
Nord-Italia, che presenta l'aggravante di essere geograficamente vicino
alla Svizzera a nord, alla Francia a ovest e alla Slovenia a est.
Tutti paesi che hanno lanciato negli ultimi anni zone industriali
attrattive per fiscalità e contributi, intermodali, con servizi
efficienti. Noi, niente di niente. L'esodo dei nostri imprenditori e dei
loro impianti produttivi sta ridimensionando il nostro sistema
industriale. L'esodo dei nostri migliori laureati ne riduce la capacità
di fare innovazione e di competere. La cosa giusta da fare dovrebbe
essere quella di creare rapidamente le condizioni affinché i due flussi
in uscita, di stabilimenti e persone, non solo si interrompano ma si invertano di senso.
E Milano ha il dovere, per la sua posizione geo-economica e la sua
tradizione imprenditoriale, di aprire la strada con un nuovo progetto,
serio e lungimirante, di politica industriale per lo sviluppo e la
competitività del Nord-Italia nel contesto internazionale. Certo,
dovremmo piantarla di discutere dell'EXPO come se fossimo dei disperati
che aspettano l'ultimo treno per la salvezza, per discutere invece di un grande progetto che posizioni questa città in modo robusto nella grande competizione internazionale tra le città del mondo. L'EXPO non è il futuro di Milano.
Le grandi città non vivono di eventi o di episodi, ma progrediscono di
giorno in giorno seguendo un chiaro percorso di sviluppo del loro
territorio. Nelle mille discussioni che si fanno su Milano, tutte
purtroppo schiacciate sull' EXPO, manca la domanda fondamentale: e
dopo?. Che cosa vogliamo che Milano diventi tra dieci anni?. Io sogno
che Milano rappresenti il centro geografico della principale piattaforma
industriale del Mediterraneo. La geografia economica, la nostra
tradizione produttiva, la qualità dei nostri centri di ricerca e delle
nostre università, l'eccellenza delle nostre risorse umane, ci
attribuiscono questo ruolo.
Milano, con Torino a ovest e Genova a sud, può ridisegnare un nuovo triangolo d'industrializzazione
per il XXI° secolo, dopo quello degli anni '60 del secolo scorso.
Certo, dobbiamo mettere a fattor comune le nostre risorse; perché solo
con questo tipo di scala geografica ed economica possiamo sperare di
battere le piattaforme territoriali con noi in competizione, come
Barcellona a ovest e Istanbul a est. Immaginare un nuovo triangolo MILANO-TORINO-GENOVA,
al cui interno si localizzino zone industriali e agroindustriali di
nuova generazione, supportate da incubatori per start-up ispirati al
modello misto pubblico-privato (di straordinaria efficacia) realizzato
da Israele, e integrate con i nostri centri di ricerca universitari, non
sarebbe né nostalgia né utopia. E' progettualità ambiziosa, ma
realistica e figlia di un disegno chiaro di sviluppo del territorio, non
episodico. Credere che un evento come l'EXPO possa rappresentare la
svolta e la soluzione ai nostri problemi invece, assomiglia tanto alla
scorciatoia che il disperato prende inseguendo l'illusione di risolvere
in fretta tutti i suoi mali, ma finendo per ritrovarsi in un vicolo
cieco. L'EXPO è un'illusione di sviluppo, un evento
temporaneo incapace di generare un insediamento di persone e know-how in
via definitiva sul nostro territorio e, di conseguenza, incapace di
determinare il risorgere di un sano tessuto industriale. Per questo
esodo di persone e industrie, che è figlio della crisi del nostro
sistema-paese, ci occorre una soluzione di sistema e non un escamotage.
Sono milanese, e spero che la mia città lo capisca in fretta. Altrimenti
Milano, e con essa il Nord-Italia, saranno condannati al declino. Spero davvero che questo non avvenga.
Saremmo ancora in tempo per fare del Nord-Italia una piattaforma industriale
a elevato know-how e logisticamente integrata, in grado di raggiungere e
sopravanzare le altre piattaforme emergenti nel Mediterraneo e in
Europa. Certo, la nostra classe dirigente deve assumersi la
responsabilità storica di definire una traiettoria di crescita
nel futuro che ci attende, e di perseguirla con la persistenza e la
lungimiranza che contraddistinse i grandi industriali italiani del
secolo scorso. Non è più il tempo dei piccoli navigatori da diporto. Qui
occorrono grandi navigatori, che sappiano tracciare una rotta chiara
nell'oceano in tempesta della competizione globale, per farci arrivare
in porto. Navigatori che siano, oltre che onesti, ben consapevoli del
ruolo cruciale giocato dalla disponibilità di eccellenti risorse umane,
per il futuro del nostro paese. Perché un sistema-paese ignorante,
un'economia delle braccia, ha davanti a sé solo la povertà e il declino,
e l'incapacità di tracciare e seguire una rotta precisa. Finiamola una
volta per tutte di celebrare il praticone e colui "che ci sa fare", come
i campioni dell'imprenditoria italiana. Senza un'adeguata preparazione
oggi non si va da nessuna parte. Perché, come scrisse Leonardo da Vinci:
"Chi s'innamora di pratica senza scientia è come 'l nocchiere che
entra in naviglio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si
vada".
Fonte.
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