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25/03/2012

Aspettando la rivoluzione

I partiti sono al 4% di fiducia, il minimo storico. Eppure, quando ci sono le elezioni, gli italiani che vanno a votarli sono ancora la maggioranza: nonostante astenuti, schede bianche e nulle, il 70%-60%. In questo divario sta tutta la sindrome di Stoccolma di noi sudditi, vittime e complici dei neo-feudatari di partito.

Rito cartaceo
Noi? Si fa per dire. Loro. Quelli che si ostinano a fare file sovietiche al mercato delle urne. Noi ribelli, a votare non ci andiamo più da un bel po’. Fatica inutile? No: amor di dignità. Ci teniamo a non farci prendere per il naso, non ci stiamo a dare una mano, una crocetta in più, ad una democrazia di nome ma oligarchia di fatto.
Siamo sudditi pure noi che ci siamo accorti della truffa, o meglio, che ne tiriamo le conseguenze rifiutandoci di partecipare al rito di ratifica della partitocrazia. Ma lo siamo un po’ meno dei sudditi che, pur sapendo o intuendo il giochetto infame (votare=decidere, una balla astrofisica), si ostinano a tenere in piedi il circo per la felicità degli astanti. Li sopportano, li disprezzano, ne sono stufi ma dei giocolieri in scena, i partiti onnipresenti, non sanno farne a meno.

La droga elettorale
Perché? Perché, a mio avviso, scatta il meccanismo psicologico dell’assuefazione. Come con la droga, fin quando non si è già fottuta completamente il cervello di chi la assume: il tossico “se la fa” cosciente di sbagliare, sa che gli fa male ma continua imperterrito, perché non sente di essere abbastanza forte per dire basta, per smettere. Non vede alternativa, non immagina come potrebbe comportarsi diversamente. Una volta in corpo, la sostanza maledetta gli dà sollievo, benché momentaneo e foriero di danni col tempo sempre maggiori. Ha paura dell’ignoto, e così si butta nella certezza piuttosto che rischiare l’incerto, il cambiamento, la nuova disciplina tutta da costruire una volta abbandonata la gabbia sicura dell’abitudine.
Il buon cittadino democratico, ligio al dovere elettorale, è un drogato ideologico. E uno sputato conservatore in psicologicis. Siccome mettere una croce sopra alla visione comune - la destra e la sinistra, la coalizione di qua contro la coalizione di là, Berlusconi o anti-Berlusconi – equivale a perdere i comodi punti di riferimento tanto cari e tanto facili, se li tiene ben stretti e, se non gli piacciono, se li fa piacere. Andare al di là del naturale, umanissimo ma qualunquistico mugugno potrebbe portare addirittura a respingere in blocco l’intero sistema. Scherziamo? Sarebbe un terremoto, la terra franerebbe sotto i piedi, si farebbe buio pesto, e dove sarebbero gli appigli? Fronda sì, opposizione manco per idea. Si deve stare al gioco, non rovesciare il tavolo. Così la vita è tutto sommato più semplice, anche se si sceglie un partito estremo, massimalista. L’importante è restare dentro, mai uscire dai confini accettati e tollerati.

Istinto del gregge
Su questa china il partito unico del 4% si trasforma in una congerie di marchi politici – la politica di oggi? marketing, siore e siori – raggiungendo il picco dei tre quinti della popolazione votante. Dice: quel dato così esiguo riguarda la fiducia nella credibilità dell’universo-partiti, altra cosa è recarsi ai seggi e compiere una scelta per uno di essi dopo che, si spera, si è maturata un’opinione precisa, pensata, calcolata. Ribatto: ma se è il mondo della rappresentanza partitica in quanto tale a non essere considerata degna di credito dalla stragrande maggioranza, che senso logico ha attribuirgliene in proporzioni così massicce al momento del dunque? Logico, nessuno. Irrazionale, figlio della viltà e del conformismo, a iosa. Vedi sopra. Lo scarto è troppo grande perché sia spiegabile razionalmente. Qui siamo soltanto di fronte all’istinto del gregge, niente di più e niente di meno.

Un No (Tav) insufficiente
Il gregge resterà sempre gregge. Il problema è liberarlo dal recinto in cui è costretto. Fuor di metafora: liberarci dei partiti e dell’arco istituzionale del pensiero unico. È troppo presto perché nasca una forza politica con lo scopo costitutivo di abbattere l’edificio nel suo complesso. Per rendersene conto è sufficiente guardare l’encomiabile, radicale fronte dei No Tav. Encomiabile per come si batte per la causa del mostro-simbolo di un modello di sviluppo sbagliato, dogmatico e repressivo. Ma radicale per modo di dire. Perché sarà pur vero che l’idea fondamentale, il no alla paranoia della crescita infinita, si è fatta largo nell’humus della resistenza al treno dei disumani desideri. Ed è altrettanto vero che la galassia antagonista, ambientalista, localista del movimento ha una sovrana sfiducia in qualsiasi partito, e la “morte del padre”, inteso come paternità politica di sinistra, è dimostrata dall’occupazione della sede romana del Pd, dallo sbertucciamento travagliesco dell’inguardabile Bersani e dall’astio verso i sindaci valsusini passati dall’altra parte con la scusa del “dialogo”. Però, oltre al merito tecnico, il mirino del No si ferma, al massimo, e parlo dei centri sociali, ad una generica rivendicazione di un’economia diversa, contestando i lucratori (imprese appaltatrici, banche) e proponendo in positivo il reddito di cittadinanza. Tutto più o meno giusto, ma anche tutto, ancora una volta, all’interno di coordinate note, in questo caso della sinistra altermondialista.

Lo stronzo sei tu
Non ci si pone il problema di una critica totale e di una proposta altrettanto totale al sistema nel suo complesso. Si discute di decrescita economica ma non la si collega col suo corrispondente politico naturale, il federalismo. Si alza la bandiera dell’autonomia e democrazia locale, ma non se ne fa tutt’uno con la negazione di questa Unione Europea dittatoriale e liberticida. Si attaccano le banche, ma non si sa nulla del signoraggio e dell’euro, che ci lega mani e piedi alla cupola finanziaria internazionale. E soprattutto: non c’è neppure un barlume di volontà di lasciarsi alle spalle gli steccati e i pregiudizi del secolo scorso. O, se c’è, sono puramente discorsi, dietro cui restano pietrificati i vecchi compartimenti stagni. E così, invece di elaborare parole d’ordine che tutti possono far proprie (riconquista della sovranità nazionale per una rifondazione europea, un altro paradigma monetario, produzione locale con un vero autonomismo) si fa comunella con la Fiom, altro soggetto meritevole per le sue lotte ma limitato e ancorato ad un operaismo e industrialismo da fabbrica vecchio stampo. Per capirci: la Fiom è per la crescita, altro che decrescita.
Così, le pur sane spinte in direzione di un radicalismo autentico rimangono nel bozzolo. E quando arriva il giorno delle elezioni, anche il più incavolato nero si presenta bel bello con la sua tessera elettorale perché una testimonianza che conta qualcosa deve pur darla a sé stesso. Deve fargliela vedere in qualche modo, agli stronzi. E invece lo stronzo è lui, che si dà la zappa sui piedi da solo aggiungendo il proprio mattoncino alla sfinge della “democrazia” del 4%.

Da ribelli a rivoluzionari
Controcanto: tu proponi idee (quelle che mancherebbero ad una realtà comunque combattiva e coraggiosa, anche idealmente, come i No Tav) e l’astensione dal voto. Tutto qua? Sì, a tutt’oggi, tutto qua. E lo ammetto: è poco. Troppo poco. Ho già scritto su queste colonne che, oltre ad un pensiero lungimirante e strutturato, serve una meta finale, un’immagine del futuro (un mito), degli obbiettivi a lungo termine ma concretizzabili. Serve la politica. È il necessario passaggio dal ribelle al rivoluzionario: il primo è una figura etica, esistenziale, e socialmente si limita al rifiuto; il secondo è un soggetto politico, organizzato, e avanza proposte con una strategia, per quanto di irrevocabile rottura con il presente. Cari ribelli, essere ribelli, adesso, è l’unica condizione possibile, ma non basterà più. Sono, siamo in attesa di una forza rivoluzionaria. Con tutti i rischi che essa comporta. Ma chi non risica non rosica. En attendant Godot? Spero di no. Voglio credere di no.

Fonte.

Questo Alessio Mannino mi garba molto.

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