È un atto di guerra ma la guerra, al momento, non scoppierà. Nella
notte tra giovedì e venerdì, l’esercito etiope ha sconfinato e attaccato
tre basi militari eritree: quelle di Ramid, Gelahben e Gemble. Nessuna
resistenza, missione facile. Un’azione dimostrativa, quindi, non la
prima mossa verso una riapertura delle ostilità tra due Paesi che hanno
combattuto una feroce guerra tra il 1998 e il 2000 (70 mila morti, 720
mila sfollati) e che i cui rapporti da dieci anni sono in uno stato di
pace armata. L’Etiopia, per dire, ha smentito con la diplomazia ciò che
aveva appena dichiarato attraverso il raid delle sue Forze armate.
Shimeles Kemal, portavoce del governo etiope, ha rilasciato una
dichiarazione con cui precisava che “queste misure (l’attacco) non
costituiscono uno scontro militare diretto tra i due Paesi”. Anche
Asmara getta acqua sul fuoco, dichiarando di non voler cadere nella
provocazione etiope, il cui scopo è solo quello di distogliere
l’attenzione dalla “debolezza del regime, dalla violazione del diritto
internazionale e dall’occupazione illegale delle terre eritree”.
Resta
il fatto che l’attacco di venerdì è il primo vero atto di guerra in
dieci anni. Particolare non trascurabile è che sia avvenuto in un giorno
con una grande valenza simbolica: il decimo anniversario del
pronunciamento della Commissione per i confini tra Etiopia ed Eritrea,
con sede all’Aja. Una sentenza che non ha risolto la disputa che oppone i
due Paesi sulla definizione dei rispettivi territori: nello specifico,
la città di Badme era stata riconosciuta come parte del territorio
eritreo eppure l’Etiopia continua ad occuparla, “con il consenso di
Stati Uniti e Nazioni unite”, è l’accusa più volte avanzata dal governo
di Asmara. Che naturalmente potrebbe reagire. Una reazione se
l’aspettano gli analisti che da anni seguono questa regione africana
particolarmente instabile. Una risposta che difficilmente avrà la forma
di un attacco armato diretto, e questo per due ragioni: la prima è che
l’Eritrea non dispone delle risorse militari sufficienti per poter
sfidare direttamente l’Etiopia. La seconda è che, in questo modo,
darebbe ad Addis Abeba l’occasione per poter gridare al pericolo
eritreo, costruendo la cornice ideale per un attacco che verrebbe
benedetto dalla comunità internazionale e risolverebbe una questione
nata nel 1993, con la secessione dell’Eritrea dall’Etiopia, con cui
quest’ultima perse lo sbocco sul mare. Perdita strategica ed economica
di immenso valore che Adis Abeba non ha mai metabolizzato.
Non è
questo che si aspettano gli analisti: più probabile che Asmara scelga di
destabilizzare l’Etiopia giocando sulla scacchiera somala, in quella
Somalia precipitato nel caos vent’anni fa e rimasto da allora uno dei
principali fattori d’instabilità regionale. In Somalia, l’esercito
etiope è intervenuto più volte. I rapporti tra il vertice eritreo e le
milizie filo-qaediste di al Shabaab è da qualche anno oggetto di
speculazioni: il governo etiope ha giocato questa carta ripetutamente
per isolare il regime di Isaiah Afewerki. Le stesse Nazioni unite hanno
diffuso un rapporto che ricostruiva la rete dei rapporti tra Eritrea e
terrorismo islamico. E sempre l’Onu denunciò il ruolo di Asmara
nell’attentato, sventato, che avrebbe dovuto insanguinare il vertice
dell’Unione africana ad Addis Abeba, nel gennaio dell’anno scorso.
Quella delle guerre per procura, in fondo, è una strategia alla quale i
due Paesi hanno fatto ricorso, soprattutto nel passato. Tanto l’Etiopia
quanto l’Eritrea hanno dato ospitalità e fornito risorse a gruppi armati
che avevano come obiettivo il rovesciamento del governo nemico. Anche
questa volta, Addis Abeba ha giustificato il raid contro le tre basi
eritree con la necessità di proteggere il proprio territorio dalle
incursioni dell’Araf Revolutionary Democratic Unity Front (Ardu), il
fronte armato che combatte contro il governo etiope e che mira alla
costituzione di uno Stato che riunisca tutte le popolazioni di etnia
Araf, sparse tra Etiopia, Eritrea e Gibuti.
Fonte.
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