Entra in campo Obama. Il contenzioso delle terre rare va avanti ormai da un anno e mezzo, ma adesso anche i vertici del potere Usa prendono posizione e così i media di tutto il mondo ne parlano.
Riassumendo: Ue, Usa e Giappone hanno denunciato la Cina
al Wto per le sue restrizioni al commercio di terre rare, diciassette
elementi presenti in alcuni minerali e necessari alla produzione di una
sfilza di prodotti high-tech, dagli smartphone alle fibre
ottiche, passando per le batterie delle auto ibride e i missili
telecomandati. Il 97 per cento circa della produzione mondiale di terre
rare è cinese.
Pechino ha deciso la riduzione del suo export a più
riprese a partire dal 2009, ufficialmente per ragioni ambientali e per
limitare lo sfruttamento di una risorsa scarsa.
Nel settembre del
2010, fu poi sancito il blocco totale dell’export verso il Giappone in
seguito al fermo di un peschereccio cinese – con arresto del suo
capitano – che aveva speronato due motovedette giapponesi presso le
isole Senkaku-Diaoyu, arcipelago conteso nel Mar Cinese Orientale.
Oggi,
il Sol Levante si unisce a Europa e Usa nel denunciare le misure cinesi
come atte a favorire l’industria domestica: la riduzione della
disponibilità di terre rare sul mercato internazionale ne aumenta il
prezzo e, a cascata, provoca rincari nell’industria high-tech.
Pechino continua a riaffermare le proprie ragioni, sostenendo di aver
ridotto non solo l’esportazione di terre rare, ma anche la loro
produzione e le esplorazioni a caccia dei pregiati diciassette elementi.
Nessuno vantaggio competitivo, dunque. Sull’altro fronte si ribatte che
la Cina ha tagliato “solo” del 32 per cento la quota riservata alle
imprese domestiche e ben del 54 per cento quella per gli stranieri.
Questi i fatti. Dietro però c’è forse un conflitto più ampio, a tutto campo.
Nonostante gli ingenti investimenti in ricerca & sviluppo, la Cina
chiede da anni alle economie più avanzate di favorire il trasferimento
di tecnologie di ogni tipo oltre Muraglia: ce n’è bisogno per
ammodernare la struttura produttiva, renderla meno energivora senza
farle perdere di competitività. E il ministero del Commercio di
Washington, ha esplicitamente sostenuto in un comunicato che le
restrizioni all’export di terre rare messe in opera da Pechino sono una
pressione “sulle aziende Usa e non Usa per traslocare operazioni,
lavoratori e tecnologie in Cina”.
Il comunicato evita di dire però
che dal 2010, le imprese cinesi hanno investito più di 17 miliardi di
dollari in accordi e joint-venture che riguardano il settore delle
materie prime negli Stati Uniti e in Canada. Le imprese statunitensi
hanno sviluppato nuovi metodi rivoluzionari per estrarre petrolio e gas,
ma hanno bisogno di capitali, sempre più scarsi dopo la crisi
finanziaria. Le grandi compagnie energetiche cinesi, da parte loro, sono
proprio a caccia del know-how made in Usa.
Precedentemente, nel 2005 l’amministrazione Bush aveva vietato alla
cinese Cnooc di rilevare la statunitense Unocal, accettando le obiezioni
di molti membri del congresso secondo cui l’accordo avrebbe messo
risorse strategiche in mani cinesi. Pechino ha quindi cambiato
strategia: finanzia partner Usa acquisendo quote di minoranza e intanto
trasferisce parte della tecnologia dei partner americani oltre Muraglia.
Ma è una strategia sempre esposta alle decisioni politiche di
Washington. È questa la vera debolezza cinese.
Così, nel gioco del
bastone e della carota, Pechino e Washington si sfidano in una partita
che non riguarda tanto l’accesso alle materie prime, quanto la
tecnologia necessaria a individuarle, estrarle e lavorarle e, più in
generale, tutta l’innovazione. Il quasi monopolio nelle terre rare
permette alla Cina sia di attirare tecnologia straniera sia di favorire
la propria industria high-tech. I classici due piccioni. In attesa della
sentenza del Wto.
Fonte.
Quest'analisi mette impietosamente in luce, seppur trasversalmente, l'estrema sufficienza ed ignoranza con cui l'emisfero Occidentale ha gestito l'apertura del mercato globale alla Cina.
A casa nostra si pensava d'aver fatto il colpaccio: la delocalizzazione selvaggia avrebbe cancellato la grigia classe operaia indigena, tutti sì sarebbero seduti davanti a una scrivania nella propria giornata lavorativa perché tanto il consumismo aveva trovato la quadra nella manodopera cinese, economica, mansueta e virtualmente infinita. Quando sì dice fare i conti senza l'oste...
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