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21/03/2012

Là dove non riuscì Berlusconi

Alla fine il governo ha scelto la linea dura: riforma pesante dell'articolo 18 con l'eliminazione sostanziale del diritto al reintegro nel caso dei licenziamenti economici. Monti lo ha comunicato piuttosto soddisfatto al termine del vertice a Palazzo Chigi sottolineando che per il governo “la questione è chiusa” e che sul testo c'è “l'accordo di massima di tutte le parti sociali tranne la Cgil”. Ma la linea dura si accompagna anche a un espediente negoziale basato sul rinvio a giovedì e sulla firma di un “verbale conclusivo” che consente al governo di raggiungere due obiettivi: finirla con la concertazione cioè con gli accordi e i patti limati fino all'ultima virgola e all'ultimo momento e, allo stesso tempo, mantenere aperta ancora un minimo di discussione.
Dopo l'incontro di ieri, infatti, le parti si ritroveranno giovedì prossimo, dopo il direttivo della Cgil e la direzione Uil , non per firmare o meno un documento ma per redigere “un verbale” sulla base del quale stendere le norme che il governo porterà in Parlamento. Quest'ultimo, secondo Monti, resta “l'interlocutore privilegiato” il che significa che non si procederà con un decreto-legge ma probabilmente con una legge-delega (si deciderà “con il Capo dello Stato”, dice Monti). Si tratta di una disponibilità a tenere aperto il dibattito che in realtà creerà problemi solo al Pd e che, invece, soddisfa Cisl e Uil. Il segretario della prima, Bonanni, esulta dice che a lui la riforma “piace” si disponde a strappare ancora dei miglioramenti mentre Luigi Angeletti sostiene che “per dare un giudizio positivo occorrono delle modifiche”.
La Cgil, dal canto suo, rimane fuori anche se non è costretta a sancire la spaccatura sindacale con una firma su un documento. Però resta sola e Camusso, nella conferenza stampa finale, non può che attaccare il piano del governo - "è squilibrato" - e annunciare che la Cgil "si metterà alla testa di un movimento" per cambiare le carte. Un annuncio di mobilitazione i cui termini saranno definiti al direttivo.
Di fatto l'articolo 18 sparisce. Rimarrà solo per i licenziamenti “discriminatori”, anzi sarà esteso anche alle imprese sotto i 15 dipendenti. In questo caso ci sarà sempre il reintegro. Ma per i licenziamenti più diffusi, quelli economici, non ci sarà più il reintegro ma solo un indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità dell'ultima retribuzione (che però sembrano troppe al rappresentante delle piccole imprese). Per i licenziamenti disciplinari, infine, sarà il giudice a stabilire se l'ingiustificato motivo dia diritto al reintegro (nei casi più gravi) o all'indennizzo fissato al massimo in 27 mensilità (ma non c'è minimo). Nessuna stretta sui contratti atipici, nessuna eliminazione di flessibilità - tranne le associazioni in partecipazione e una stretta sulle partite Iva - e anche l'apprendistato non darà diritto automaticamente alla stabilizzazione. Viene eliminata la norma delle dimissioni in bianco, introdotti i "congedi di paternità" e alle piccole imprese viene tolto l'aggravio dell'1,4 per cento sui contratti a tempo determinato per gli stagionali e i sostitutivi. Ripristinato anche il limite dei 36 mesi per un contratto flessibile oltre il quale diventa indeterminato.
Insomma, in cambio della fine dell'articolo 18 non si ottiene nulla, anche la nuova Assicurazione sociale per l'impiego (Aspi) di fatto sostituisce la disoccupazione ma elimina la mobilità che resta per un periodo transitorio più lungo, fino al 2017, ma poi scompare. E anche la Cassa integrazione rimane intatta nell'ordinaria ma dimagrisce nella straordinaria. Un colpo duro, quindi, che non era riuscito nemmeno al governo Berlusconi.

Vedi anche:
La riforma Fornero non garantisce partite Iva e co.co.pro.

Fonte.

Inutile girarci intorno, il Governo Monti, avvalendosi della crisi a mo di spauracchio, ha trovato la quadra per demolire in modo sistemico e sufficientemente sobrio (per non scatenare una guerra civile, almeno fino ad ora) i diritti dei lavoratori conquistati in decenni di lotte.
I licenziamenti economici, infatti, non sono altro che una branca di quelli discriminatori perché si fondano sulla discriminate di base tra datore di lavoro e dipendete, ovvero la dipendenza del secondo dal capitale posseduto dal primo.

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