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25/03/2012

Da via Fani a via D’Amelio, il filo rosso che unisce le morti di Moro e Borsellino

Quattordici anni lontani, distanti uno dall’altro. Le morti di Aldo Moro e di Paolo Borsellino sembrano essere legate dal tradimento. Di quella parte di Stato che entrambi, con ruoli diversi difendevano. E per il quale hanno, alla fine, dato la vita. Le lettere scritte da Moro durante i 55 giorni della prigionia sono un potente e implacabile atto d’accusa per la politica italiana. Le ultime rivelazioni che giungono da Caltanissetta sugli ultimi giorni di Borsellino rappresentano un colpo micidiale per la credibilità della lotta alla mafia.
C’è un luogo ben preciso e ricco di significati dove lo Stato e l’anti Stato si incontrano. È il Cafè de Paris, da simbolo della Dolce Vita romana negli Anni Sessanta a emblema dell’infiltrazione criminale nella Capitale nei nostri giorni. A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro di Aldo Moro, Francesco Fonti – oggi meglio conosciuto come il pentito che ha raccontato le vicende delle navi dei veleni – viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma. Dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti – erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini, morto a Ravenna il 5 novembre 1989. Fu proprio nel locale di via Veneto, che Fonti incontrò l’esponente democristiano: «E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico – disse il politico – e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così». Fonti ricorda come Zaccagnini non facesse nulla per nascondere il proprio “schifo”: «Non sono mai sceso a compromessi – riprese – ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi». Prima di andarsene, disse: «Non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino». Quello che Zaccagnini non sapeva era che Fonti, uomo organico all’organizzazione criminale, da nove anni frequentava con profitto le stanze di Forte Braschi. E che già conosceva l’agente Pino. Moro non venne salvato. Certo non per colpa di Fonti che, anzi, tornato in Calabria, riferì delle ricerche avviate. Ma venne bruscamente stoppato: «La vicenda non interessa più», gli fu detto.
Secondo più di una testimonianza, quando le Br rapiscono Aldo Moro, uccidendo i cinque componenti della scorta, in via Fani ci sono due presenze sospette. La prima è quella di un Colonnello del Sismi, Camillo Guglielmi, presenza che non ha mai ricevuto una accettabile spiegazione. Guglielmi riferì di aver ricevuto un invito a pranzo presso un collega; quest’ultimo confermò di averne ricevuto la visita, ma non la circostanza dell’invito a pranzo, che comunque non avrebbe potuto giustificare la presenza del Guglielmi in via Fani alle nove del mattino. La seconda presenza anomala, secondo quanto raccontato dall’ex boss Saverio Morabito, sarebbe quella di un elemento di spicco della ‘ndrangheta calabrese, Antonio Nirta, infiltrato, attraverso i servizi, nelle Brigate rosse.
‘Ndrangheta e servizi. Un mix che Francesco Fonti conosce bene. È il 1966 quando il giovane Ciccio legherà per sempre i suoi destini a quelli della ‘ndrangheta. Lo stesso anno, in altra parte del nostro Paese, un altro giovane iniziava la sua carriera nei servizi segreti. Era Guido Giannettini, giornalista esperto di strategie militari e assiduo frequentatore del Movimento sociale italiano. Uno che di sé diceva: «Io sono contro la democrazia. Sono fascista, da sempre. Meglio, sono nazifascista. Uomini come me lavorano perché in Italia si arrivi a un colpo di Stato militare. O alla guerra civile». Nel 1969, le strade di Giannettini e di Fonti si incontrano. A Roma, nella hall di un albergo, l’allora criminale calabrese viene avvicinato dall’uomo dei servizi, che usava come nome di copertura Mario Francovich (altre volte preferirà quello di Adriano Corso). Nome in codice Z, Giannettini «sapeva tutto di me e delle mie conoscenze con il mondo della ‘ndrangheta – ricorda Fonti – mi disse che era un agente dei servizi segreti e che voleva informazioni che avrebbero portato dei benefici alla ‘ndrangheta. Fonti viene arruolato nei servizi segreti. E regolarmente retribuito. Giannettini non sempre è in Italia e indica al calabrese un suo uomo di fiducia, che all’occorrenza lo aiuterà e dal quale dovrà pure prendere ordini: si tratta dell’agente Pino, lo stesso che nove anni dopo diverrà il suo tramite con Zaccagnini.
A leggere le carte dell’inchiesta di Caltanissetta, quella di via D’Amelio è una tragedia annunciata. Sulla scena si muovono agenti segreti, politici, mafiosi e pentiti. E Borsellino si rende conto di essere rimasto davvero solo diciotto giorni prima di venire ucciso. A Roma, mentre sta interrogando negli uffici della Dia il pentito Gaspare Mutolo, riceve una telefonata dell’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi. L’interrogatorio viene sospeso e Borsellino raggiunge il Viminale dove, è confermato da più testimoni, incontra Parisi, ma anche il prefetto, Luigi Rossi, e il ministro dell’Interno Nicola Mancino. Con lui c’è il magistrato Vittorio Aliquò, che conferma ancora oggi la circostanza: «Entrammo contemporaneamente nello studio del ministro, l’incontro durò pochi minuti, durante i quali furono scambiati alcuni convenevoli, tanto che uscimmo delusi perché era nostra intenzione affrontare il tema del contrasto alla mafia in Sicilia».
Mutolo racconterà che quando il giudice tornò alla Dia, per riprendere il suo interrogatorio, il suo umore era completamente cambiato: «Era molto agitato», aggiungendo di aver appreso che a quell’incontro, insieme a Parisi, c’era anche Bruno Contrada. Secondo le inchieste (e i processi), basati sulle dichiarazioni di quattro pentiti, e tra questi c’è anche Mutolo, Contrada, che per 24 anni prestò servizio a Palermo passando dalla Mobile al Sisde, era colluso con Cosa Nostra. Lo 007 sarà arrestato pochi mesi dopo, il 24 dicembre, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Sentito dalla procura di Caltanissetta, l’11 novembre 2010, Contrada ha negato quell’incontro: «Ribadisco che nel ‘92 io non ebbi mai occasione di incontrare il capo della polizia Parisi. Non può essere che abbia incontrato, anche occasionalmente, il dottor Borsellino presso il ministero, perché mi ricorderei anche gli eventuali argomenti trattati». Per i magistrati di Caltanissetta non è così. Borsellino, nei giorni immediatamente precedenti la strage di via D’Amelio, incontrò a Roma, almeno in due occasioni, Mancino, Parisi, Rossi e intorno al 10 luglio incrociò casualmente nella segreteria di Parisi anche Contrada.
Anche Mancino non ricorda. L’11 marzo scorso, rispondendo alle domande del Corriere, l’ex ministro nega, verosimilmente, di aver mai conosciuto Borsellino, smentendo pure i ricordi di Aliquò. Borsellino, in quelle stesse ore, era certamente a conoscenza che pezzi dello Stato erano giunti a patti con la mafia. La procura di Caltanissetta, pur demolendo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, conferma. E’ certo che percepì «un senso di fastidio trasversale alle varie forze politiche nei confronti della politica antimafia perseguita da lui». Lo stesso capo dello Stato, Scalfaro, gli espresse alcuni dubbi sul decreto Falcone, quello appena approvato che introduceva il 41 bis. Così come era certamente a conoscenza, e sarà l’allora braccio destro di Falcone, Liliana Ferraro, a confermarlo, che i carabinieri del Ros (Mori e De Donno) avevano cominciato a raccogliere le dichiarazioni di Ciancimino per “fermare le stragi”. I ricordi della Ferraro, che aveva inviato il capitano Giuseppe De Donno a riferire tutto a Borsellino, sono confermati dagli appunti del giudice. Per i magistrati di Caltanissetta quest’ultimo elemento «aggiunge un ulteriore tassello all’ipotesi dell’esistenza di un collegamento tra la conoscenza della trattativa da parte di Borsellino, la sua percezione quale “ostacolo” da parte di Riina e la conseguente accelerazione della esecuzione della strage». Borsellino era contrario a trattare con la mafia, e forse è proprio questo ad averlo condannato a morte. Anche Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, apprese le stesse cose dalla Ferraro e giudicò il comportamento degli ufficiali del Ros «non ortodosso e quasi d’insubordinazione».
C’è un racconto, poi, che fa tremare i polsi più di ogni altra cosa, ed è l’immagine più chiara di quell’epoca. A parlare davanti ai magistrati di Caltanisetta, diciassette anni dopo via D’Amelio, è Agnese Borsellino, e sono parole che la moglie del giudice non aveva mai pronunciato prima. «Ricordo un episodio che mi colpì moltissimo e del quale finora non ho mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri. Mi riferisco a una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, e conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu”». Pungiutu, cioè mafioso. E allora, se così fosse, è naturale domandarsi da che parte erano alcuni pezzi dello Stato.

Fonte.

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