Dopo l'11 settembre 2001, ma soprattutto a seguito
dello scoppio della bolla speculativa legata ai titoli della new economy
a Wall Street e sul resto dei mercati, molti nodi vennero al pettine.
Nel solco dell'ottimismo che aveva caratterizzato gli anni precedenti,
nella seconda metà degli anni '90 erano cresciute aziende e figure
manageriali di rilievo, grazie ad una politica espansiva dell'economia e
in alcuni casi anche grazie ad una gestione allegra o creativa della
finanza aziendale.
Il caso Enron scoppiò nel dicembre del 2001. Il colosso
energetico di Houston, la sesta realtà industriale degli Stati Uniti
con oltre 100 miliardi di dollari di fatturato, fece ricorso alla Corte
fallimentare distrettuale di New York per ottenere
l'amministrazione controllata in base al Capitolo 11 della legge (il
famoso Chapter Eleven) e difendersi così dall'assalto dei creditori:
quasi 3000 le richieste di saldo delle fatture per complessivi 13
miliardi di dollari.
Ma i soldi in cassa non c'erano. Il buco che si era
creato nei conti della società, in maniera fraudolenta, coinvolse i
maggiori istituti di credito mondiale. Il crack finanziario del gruppo
fu un terremoto che ne scatenò altri, perché il dissesto che ne derivò
colpì anche i dipendenti, alcuni enti pubblici, fondi pensione,
istituzioni finanziarie e privati cittadini, che nel corso degli anni
investirono sui titoli della società, quotata a Wall Street.
La capitalizzazione di Borsa che fu distrutta ammontò, secondo gli
analisti, a circa 70 miliardi di dollari. La Sec, la Securuty Exchange
Commission, l'autorità di vigilanza sui mercati statunitensi, indagò sul
caso ma quando ormai il bubbone era scoppiato. Le responsabilità della
vicenda furono attribuite agli amministratori del gruppo, ai manager
compiacenti della società di revisione dei bilanci Arthur Andersen
e ad alcuni funzionari di banca che, nonostante fossero consapevoli
della situazione, sollecitarono comunque l'acquisto di titoli del
gruppo.
Una volta dichiarata bancarotta e decretato il fallimento da parte del
Tribunale, i creditori e i titolari di diritti nei confronti di Enron
ottennero una parziale soddisfazione. Si generò una giostra di ricorsi
e di cause che portarono ad un risarcimento dei fornitori ma nulla fu
dovuto alla platea degli azionisti. La vicenda Enron stimolò per
necessità le autorità di vigilanza e il mondo politico a generare
possibili anticorpi e fu messa in moto una macchina legale che portò
alla formulazione della legge Sarbanes-Oxley, un atto con rigide norme
antitruffa che consentì il conseguente smantellamento della società
Arthur Andersen, per esempio.
Tuttavia la vicenda Enron non fu un caso isolato. Le pagine dei giornali
si riempirono di storie analoghe, con nomi titolati: Worldcom, Adelphia
Communications, Tyco, Cendant e Qwest, solo per citare alcuni tra i più
importanti. Lo scoppio della bolla dei titoli in Borsa
aveva anticipato di qualche mese l'affioramento di situazioni
incresciose, bilanci truccati, debiti, reati contabili che in epoche
rosee, di ottimismo, vengono più facilmente occultati, o favoriti,
secondo i punti di vista.
Ma cosa insegna la vicenda Enron? Quale lezione trarre da questa storia?
Ci sono indubbiamente alcuni aspetti interessanti da porre in evidenza.
E sono, se non assurdi, quantomeno paradossali. Intanto, la ricchezza
degli Stati Uniti non ha formalmente subito un contraccolpo perché nella
valutazione del Prodotto interno lordo si sommano le
voci della catena e non si detraggono gli ammanchi per crack finanziari,
bancarotte, frodi fiscali. Anzi, le voci di spesa legate alla vicenda
sono state inserite nel calcolo e hanno costituito un capitolo della
ricchezza del Paese. Ma non solo. C'è una sfaccettatura che merita di
essere indagata e da questo singolo particolare è poi possibile fare una
valutazione più generale.
Quando scoppiò il caso, il titolo Enron a Wall Street
fu prima sospeso e poi tolto dal listino. Nei vari panieri di indici
azionari di cui faceva parte, legati ai comparti dell'industria, delle
multiutility e dell'energia, il titolo Enron fu cancellato e al suo
posto entrò un altro titolo. L'indice azionario continuò a procedere,
dimentico della perdita di un figliolo alquanto prodigo. E' questo il
punto che si vuole mettere in evidenza. Gli indici azionari tengono
sempre conto dei vincenti, mai dei perdenti. Così, mentre i
risparmiatori e gli investitori restano scottati con il cerino in mano,
gli indicatori del mercato continuano ad andare per la loro strada. Da
una parte il buco, il risparmio tradito, dall'altra la corsa di chi
resta in pista. Per capire l'aspetto del problema possiamo ricorrere ad
un paragone.
Dobbiamo immaginare una classe di studenti che completa il ciclo delle
scuole superiori. E supponiamo che il preside dell'istituto abbia
stabilito a priori che il criterio di valutazione sia la media dei voti
dei promossi che passano l'esame di maturità. Ogni anno si misura il
livello di preparazione della classe, e per esteso della scuola, sulla
base della media dei voti di coloro che passano l'ultima prova. Sì,
d'accordo. Ma i bocciati? Loro, non contano? Ha senso dire che quella
scuola prepara molto bene se i suoi studenti migliori hanno voti
altissimi? In un certo senso è vero. Ma a patto di dimenticare gli
altri, che restano al palo.
Tradotto in economia, gli indici tengono conto solo dei cavalli di razza
che ad ogni giro passano il turno. Le azioni che inciampano e si
azzoppano vengono eliminate come i cavalli feriti e moribondi. Gli
indici di Borsa legati alle Blue Chips (i titoli più
importanti e a maggior flottante) misurano un paniere che è più o meno
rappresentativo di un andamento particolare ma non della qualità del
risparmio. Anzi, tra risparmio e investimenti, c'è proprio una distanza
che può essere abissale.
Occorre chiedersi: esiste un indicatore che tenga conto dei buchi e delle perdite create dai dissesti finanziari?
E' strano, ma negli Stati Uniti non esiste. Oltreoceano vige la cultura
darwiniana che premia i migliori e scarta i deboli senza preoccuparsi
di fare i conti su quanta ricchezza effettivamente si è vanificata e
quanto pesa la perdita rispetto all'andamento totale degli investimenti.
In Europa e in Italia qualcuno invece ci sta provando, correlando da
una parte i risparmi investiti e dall'altra gli andamenti di Borsa. E'
un'impresa difficile ma necessaria, per non separare sul piano teorico i
due binari che nella vita quotidiana si vogliono far procedere per
molti aspetti di pari passo.
Fonte.
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