“Tutti vogliono che la guerra in Ucraina finisca ma serve una pace giusta e duratura”. A fare la sottolineatura è stato il premier britannico Keir Starmer prima di arrivare a Washington per il vertice “largo” tra volenterosi europei e Trump.
Dal canto suo anche la Meloni ha dichiarato nei giorni scorsi che “è emersa una forte unità di vedute nel ribadire che una pace giusta e duratura non può prescindere da un cessate il fuoco, dal continuo sostegno all’Ucraina, dal mantenimento della pressione collettiva sulla Russia, anche attraverso lo strumento delle sanzioni, e da solide e credibili garanzie di sicurezza ancorate al contesto euroatlantico”.
Il concetto di “pace giusta” viene dunque agitato come un randello dai governi europei impegnati nella guerra in Ucraina contro le ipotesi di “pace possibile” che vengono invece evocate da Trump e da altri paesi come Cina, India, Brasile, Turchia. Qualcuno evoca il modello delle due Coree che si regge da decenni su un armistizio che ha messo fine alla guerra ma senza un vero e proprio trattato di pace.
Sul teatro di guerra in Ucraina, la situazione sul campo e gli inviti al realismo vengono invece respinti come cedimento alle richieste russe, ragione per cui ogni passo avanti sulla strada della fine della guerra vede i governi europei – a cominciare da Gran Bretagna e Polonia – mettersi sistematicamente di traverso.
Ma se si cambia scenario e si va a Gaza e in Palestina, il concetto di “pace giusta” invece scompare del tutto. Quando non viene strumentalmente messa in primo piano la questione umanitaria a danno della questione politica – l’autodeterminazione dei palestinesi – sulla Palestina diventano tutti realisti.
In questo caso la “pace giusta” viene considerata una illusione o addirittura una forzatura negativa, e i palestinesi dovrebbero accettare di tutto come condizione per una pace che – sulla base dei rapporti sul campo – si sta trasformando in una sottomissione tout court all’annessione israeliana della Palestina fin qui riconosciuta da gran parte del mondo.
A tale proposito torna utile riportare un episodio. Durante la seconda Intifada nel 2002, i sindacati Cgil Cisl Uil e forze collaterali ritirarono la loro adesione ad una manifestazione di solidarietà con la Palestina perché i palestinesi in Italia insistevano nel chiedere una “pace giusta” in Medio Oriente e non solo “una pace”. Quel rafforzativo – “giusta” – venne ritenuto una forzatura inaccettabile da parte di quelle forze che oggi invece sbraitano per chiedere una pace giusta in Ucraina e non solo la pace. È bene sottolineare che la manifestazione si fece e riuscì lo stesso nonostante la diserzione dei sindacati ufficiali e dei loro parvenu.
La “pace giusta” dunque non è un principio in qualche modo universale che lega la cessazione dei combattimenti anche al riconoscimento delle ragioni – o parte di queste – dei combattenti. Diventa invece un aggettivo che in un teatro di guerra deve ostacolare il raggiungimento della pace possibile (Ucraina) e in un altro deve invece scomparire per favorire i diktat del più forte sul campo (Israele).
Difficile su un terreno come questo dare lezioni. La realtà ha sempre mille sfaccettature e mille contraddizioni e non sempre è in bianco e nero.
Quello che è certo è che i “volenterosi governi europei” continuano a mostrare una avventuristica intransigenza sulla conclusione della guerra in Ucraina in nome di una “pace giusta” ma una complice inerzia nel mettere in riga Israele, continuando a non adottare verso Tel Aviv neanche un centesimo delle sanzioni o delle misure adottate contro la Russia o contro altri paesi (Serbia, Iraq etc.) negli anni passati.
Dunque la pretesa di una superiorità morale e di civiltà continua a convivere con le inaccettabili ambiguità di un doppio standard che il resto del mondo non euroatlantico non sembra più disposto a tollerare, né in Ucraina né in Palestina.
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