Mentre il carbonizzato porta avanti il discorso dei gruppi metal da lui ritenuti fondamentali, io faccio lo stesso col genere che, ultimamente, mi rappresenta di più: il punk/hardcore (anche se etichettare la band in questione in un solo genere è un po' limitativo).
I Black Flag sono stati il pugno in pieno volto sferrato alla California della prima metà degli anni Settanta: quella che surfava allegra sulle onde, che ammiccava dalle spiagge affollate di bionde da copertina e che cominciava a sognare, ottimista e benpensante, il futuro della Silicon Valley.
Hermosa Beach è squassata dall'eco devastante delle esibizioni dei Ramones (che a me, sinceramente, non hanno mai fatto impazzire, ndr) quando Greg Ginn, ex studente a UCLA e futuro chitarrista, decide di mettere su una band per sfogare i propri istinti. All'inizio si chiamano Panic e la prima line-up vede Chuck Dukowski al basso, Keith Morris (futuro fondatore dei Circle Jerks) alla voce e Brian Migdol alla batteria: un quartetto dalla potente etica del lavoro se è vero che provano e riprovano incessantemente giorno dopo giorno, ora dopo ora. Per evitare confusione con un'altra band omonima decidono di scegliere il nome Black Flag, onorando la bandiera anarchica e uno spray contro gli insetti che porta lo stesso nome. Il loro logo è disegnato da Raymond Pettibon (autore di buona parte delle copertine dei loro dischi), e la band comincia a farsi conoscere piazzando il proprio simbolo sui muri di Los Angeles. In quegli anni le possibilità di suonare per una band punk non sono poi molte ed è così che nasce la filosofia "do it yourself", i Black Flag suonano ovunque: festicciole scolastiche, parcheggi, parchi pubblici, locali malfamati e spiagge abbrustolite, guadagnandosi una solida reputazione tra i primi fan e nei dipartimenti di polizia, allertati dalle risse che regolarmente esplodono in sede live.
Ginn è la mente creativa musicale, Dukowski quella pratica organizzativa e dal loro binomio nascono le prime registrazioni e i primi concerti, nonostante il susseguirsi di vocalist che si alternano da quando Morris lascia la band nel 1979, per divergenze creative con Ginn, e fino all'arrivo di Henry Rollins (all'anagrafe Henry Lawrence Garfield, proveniente dai disciolti S.O.A.) nel 1981: prima Chavo Pederast aka Ron Reyes, un fan imbarcato per breve tempo, poi Dez Cadena (ultimamente nei Misfits, ndr), altro fan senza nessuna formazione musicale che lascia dopo lo stress vocale dei primi tour. Anche Henry Rollins è un altro fan, che i Black Flag conoscono quando affrontano un tour sulla east coast dalle parti di Washington DC, dove il muscoloso vocalist viveva all'epoca; Henry finisce quel tour come roadie mentre impara i testi e impressiona la band con la sua cultura musicale prima di diventare l'emblema del gruppo occupando l'immaginario collettivo con i suoi show a petto nudo, tatuaggi, sputi e risse con il pubblico.
Il 1981 è anche l'anno di uscita di "Damaged" che arriva dopo gli ep "Nervous Breakdown" e "Jealous Again", primi prodotti della neonata e artigianale etichetta SST Solid State Transformers che negli anni pubblicherà, tanto per fare un nome, i Bad Brains ( 'sti cazzi, ndr).
"Damaged" è la cannonata di una perfetta macchina da guerra musicale, è lo strazio urlato e devastante di una generazione, tre accordi che segnano un'epoca e uno stile. Il disco doveva essere distribuito dalla Unicorn Records che però si tira indietro adducendo la scusa dei contenuti contrari alla morale della famiglia (ma in realtà si tratta solo di una "banale" crisi economica, visto che di li a poco la label collassa sui debiti), i Black Flag lo pubblicano per la SST, si imbarcano in una causa legale che gli impedisce per un certo tempo di usare il loro nome (infatti la compilation "Everything Went Black" compare come somma dei contributi individuali) e fregandosene di tutto lo portano comunque in tour.
Dopo "Damaged" Dukowski fa un passo indietro mollando il basso a Kira Roessler che alla potenza seminale dei Black Flag apporta un tocco più intellettuale e sofisticato, di li a poco esce una raffica di album contrastanti e stordenti che denotano l'ambizione di ricerca di Ginn. Dopo l'antologia "The First Four Years" (con ep e singoli pre–Rollins) escono "My War" (con alla batteria l'ex Descendents Bill Stevenson), poi "Slip It In" all'inizio del 1984: dischi che denotano le prime influenze da parte dell'heavy metal americano alla Black Sabbath e, nello stesso anno, "Family Man", uno dei lavori più sperimentali e arditi anche per la scelta della copertina in cui compare un padre di famiglia che impugna una pistola diretta alla sua tempia mentre moglie e figli giacciono massacrati ai suoi piedi.
Dopo questa escursione verso la musica degli Hüsker Dü e il successivo "Loose Nut" del 1985 i Black Flag tornano alla potenza devastante degli esordi con "In My Head" per poi sterzare ancora improvvisamente con "The Process Of Wedding Out", ottimo esempio di "jazz-punk" violento, iconoclasta e avanguardista. Ancora un album, registrato dal vivo, "Who's Got The 10 1/2 ?" e, un giorno di agosto del 1986, Ginn chiama Rollins per dirgli che stava abbandonando la band. I Black Flag avevano chiuso i battenti per sempre, con una telefonata: che amarezza!!!
Non conoscere - e non apprezzare - i Black Flag è segno di non saper proprio stare al mondo.
RispondiEliminaCome i giovani punk odierni con toppa dei Green Day, la cui unica "punkità" è la chiazza di vomito sulle scarpe perché han bevuto troppo. Tornino a casa, che è tardi.
Sai Giovanni,non vorrei esser superficiale,ma l'esperienza mi dice che sono proprio quelli dagli slogan facili come i tuoi la vera feccia della scena e della societa'
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