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15/08/2025

Gli occhi di Pechino puntati sull'Alaska

di Michelangelo Cocco

Il vertice di Ferragosto tra Vladimir Putin e Donald Trump ad Anchorage sarà seguito dalla leadership cinese con la massima attenzione. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, Pechino ha fornito a Mosca un sostegno essenzialmente economico (nell’ambito del rafforzamento complessivo delle relazioni bilaterali), mentre i paesi della Nato, con la guerra vicina alle frontiere di alcuni membri, hanno appoggiato Kiev attraverso massicce forniture di armamenti e assistenza finanziaria.

Al termine dell’incontro online di ieri con i leader europei e con il presidente ucraino, Volodymyr Zelenski, Trump ha minacciato “conseguenze molto serie” se Putin non fermerà la guerra dopo il faccia a faccia di domani. L’ipotesi è che si arrivi a una tregua (forse solo nei bombardamenti aerei), che potrebbe essere annunciata proprio nella città dell’Alaska.

Xi Jinping – che da quando è al potere ha puntato tanto sui rapporti con la Russia di Putin – ha fatto sapere che la Cina «sostiene gli sforzi per migliorare le relazioni bilaterali Russia-Stati Uniti e spera di vedere progressi nella risoluzione politica della crisi ucraina».

Proviamo anzitutto a riassumere gli obiettivi dei principali protagonisti – presenti e non invitati – allo storico incontro, che dovrebbe svolgersi nell’enorme base militare di Elmendorf-Richardson.

Gli Stati Uniti di Donald Trump

L’amministrazione Trump ha constatato che la guerra in Ucraina ha reso la Russia più dipendente dalla Cina. Qualche settimana fa il segretario di stato, Marco Rubio, ha dichiarato che Washington punta a “staccare” la Russia dall’abbraccio della Cina, per il semplice motivo che avere come sfidante una sola potenza nucleare è meglio che averne due. Raggiungere un’intesa sull’Ucraina, permetterebbe agli Usa anche di procedere allo sfruttamento delle sue risorse minerarie, come da contratti già sottoscritti tra Washington e Kiev. Trump dunque spingerà per una fine della guerra, tra l’altro anche per l’ambizione di essere insignito del premio Nobel per la pace.

La Russia di Putin

Putin sarà anzitutto riabilitato agli occhi dell’occidente dal summit di Anchorage: colpito da un mandato d’arresto della Corte penale internazionale, si presenterà nello stato Usa (Washington non è firmataria della convenzione che ha istituito la Cpi) a trattare con la principale potenza mondiale: altro che leader isolato. Inoltre, a Mosca accettare una tregua conviene: dimostrerebbe la sua “volontà di pace”, senza impedirle di ricominciare i combattimenti, se gli ucraini rifiutassero concessioni territoriali. Proseguire il dialogo con Trump permetterebbe a Putin di verificare la possibilità di una détente con gli Usa, mantenendo nello stesso tempo i rapporti con la Cina.

L’Ucraina e l’UE

L’Ucraina – paese conteso da anni tra l’Unione europea e la Russia – non può accettare concessioni territoriali come quelle rivendicate dalla Russia: tutto il Donbass più Kherson e Zaporizhzhia. Nella dichiarazione congiunta di ieri, i leader di 26 dei 27 Stati membri dell’UE (l’Ungheria non ha firmato) hanno avvertito che «i confini internazionali non devono essere modificati con la forza». Tuttavia senza il sostegno militare e d’intelligence Usa, potendo contare solo su quello europeo, è estremamente difficile che gli ucraini possano recuperare militarmente i territori perduti in oltre tre anni di guerra. L’Ucraina e la UE possono o entrare in un negoziato dal quale sono stati finora esclusi, cercando di limitare i danni, oppure scegliere di proseguire la guerra.

Venerdì scorso, Putin, dopo aver discusso con Trump del summit di ferragosto, ha fatto a Xi una telefonata che dai cinesi è stata presentata come l’ennesima prova del coordinamento tra le due nazioni, che condividono un confine di 4.300 chilometri.

A Pechino seguono con estrema attenzione gli sviluppi del conflitto in Ucraina, per una serie di importanti motivi:

– la Cina è interessata alla stabilità di uno stato con il quale ha una lunghissima frontiera in comune e con il quale le relazioni nel corso della storia sono state anche burrascose;

– finché gli Usa saranno impegnati con la questione ucraina, per Washington sarà più difficile concentrarsi sulla Cina, che è indicata come il principale avversario globale degli Stati Uniti;

– qualsiasi accordo vantaggioso per la Russia favorito da Trump potrebbe essere letto da Pechino come un’estensione del margine di pressione della Cina su Taiwan tollerato da Washington.

Non ci possiamo permettere che la Russia perda, perché subito dopo gli Usa si rivolgerebbero contro la Cina, si sarebbe lasciato sfuggire il mese scorso il ministro degli esteri, Wang Yi, durante un colloquio con la rappresentante della politica estera dell’UE, Kaja Kallas.

Certo è che le iniziative confusionarie dell’amministrazione Trump hanno offerto alla Cina la ribalta internazionale in quanto potenza stabilizzatrice nel caos di guerre e dazi.

Pechino sta negoziando senza fare sconti agli Stati Uniti, coordinandosi con i paesi del Sud globale colpiti dalle tariffe di Donald Trump: così ha ottenuto il prolungamento (di altri 90 giorni) della tregua nei super dazi “reciproci” scaduta il 12 agosto. Mentre Bruxelles (che si è vista appioppare dazi del 15 per cento sulle importazioni europee negli Usa) si è dimostrata un vaso di coccio tra vasi di ferro, a causa della sua arrendevole non-strategia frutto di divergenti egoismi nazionali e di una classe dirigente non all’altezza delle attuali sfide storiche.

Tariff Man sta facendo valere la forza delle “vecchie” materie prime americane (soia e carburante), mentre Xi Jinping fa leva sul quasi monopolio cinese delle terre rare e dei minerali strategici per le produzioni hi-tech, nonché sul sostegno del gruppo di paesi Brics, ricchi di energia e derrate alimentari. Questa semplice considerazione avrebbe dovuto suggerire a Trump maggiore cautela. Al contrario l’immobiliarista miliardario inquilino della Casa bianca e i suoi consiglieri sono andati avanti a rotta di collo con i dazi contro tutti, salvo poi scoprire che c’è una parte (molto consistente) del Pianeta che si è parzialmente emancipata dai mercati Usa ed è pronta a far fronte comune contro la clava dell’economia brandita per regolare le questioni internazionali.

E così martedì mattina Luiz Inácio Lula da Silva si è consultato al telefono per un’ora con Xi. Il presidente brasiliano e quello cinese hanno convenuto che i paesi del Sud globale devono collaborare per dare un esempio di solidarietà e autosufficienza opponendosi all’offensiva di Trump, che ha imposto dazi del 50 per cento su una vasta gamma di importazioni dalla prima economia dell’America latina. La scorsa settimana Lula aveva sentito il premier indiano, Narendra Modi, il cui paese è stato colpito dalla stessa aliquota tariffaria (la metà della quale per l’acquisto di energia russa, 25 per cento che, per lo stesso motivo, Trump minaccia di applicare anche alla Cina) e il presidente russo Vladimir Putin, la cui economia è soggetta a sanzioni internazionali scattate dopo l’invasione dell’Ucraina. Imposizioni che non funzionano anche perché c’è la Cina, il cui commercio bilaterale con la Russia il mese scorso ha raggiunto il picco del 2025 (19,14 miliardi di dollari, +8,7 per cento rispetto a giugno).

Oltre a questa considerazioni geopolitiche, ci sono quelle di carattere squisitamente economico: grazie alle sanzioni internazionali la Cina ha conquistato nel paese confinante interi mercati (automotive, elettronica e altri) e ha ottenuto a prezzi stracciati l’energia che alla Russia è vietato vendere all’Europa (in cambio di una tregua in Ucraina, Mosca potrebbe ottenere un allentamento delle sanzioni).

La Cina è diventata il primo acquirente del greggio russo sottoposto a embargo internazionale, seguita dall’India e dalla Turchia. Nel 2024, la Russia ne ha venduti alla Cina 108,5 milioni di tonnellate, il 19,6 per cento del totale delle importazioni della seconda economia del pianeta.

Di fronte a questi vantaggi, le sanzioni simboliche contro un paio di piccole banche cinesi varate dall’UE per il loro presunto sostegno alla macchina bellica russa sono nulla. Dunque Pechino avrebbe parecchio da perdere da un riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia, e da un conseguente riavvicinamento di quest’ultima all’Europa.

Tuttavia in Cina la narrazione ufficiale (sulla questione nel paese vige un certo “conformismo”) sostiene che Putin non si fidi di Trump: dunque un compromesso sull’Ucraina sarebbe ancora di là da venire e nessun solco potrebbe essere scavato da Washington tra Mosca e Pechino.

Il vice presidente Usa, alla vigilia dell’incontro Putin-Trump, ha minacciato sanzioni alla Cina per l’acquisto di greggio russo. «Il presidente sta valutando le sue opzioni prima di prendere una decisione», ha detto JD Vance a Fox News. Pechino, Nuova Delhi e Brasilia verrebbero così tutte punite per le importazioni di petrolio russo da Trump, che s’impelagherebbe in una guerra commerciale con tre membri dei Brics.

E se invece sopraggiungesse un’intesa Trump-Putin sul cessate il fuoco in Ucraina?

Il cuore politico di Pechino, piazza Tiananmen e dintorni, da qualche giorno è blindato, inaccessibile. Fervono i preparativi per la parata militare, che si annuncia imponente, senza precedenti, con la quale, il 3 settembre, sarà celebrato il contributo della Cina alla sconfitta delle potenze dell’Asse. A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, la Cina ripete di voler difendere l’ordine internazionale uscito da quel conflitto, ma in realtà è protagonista di un nuovo mondo multipolare: tratta per la prima volta da pari a pari con gli Stati Uniti sul commercio e difende la sua quasi-alleanza con la Russia di Vladimir Putin alla vigilia dei colloqui tra Mosca e Washington in Alaska.

Secondo Shi Yinhong, quello in Alaska «non è un vertice cinese, né si basa su alcuna proposta o iniziativa cinese. Su questo tema, la Cina non può influenzare in modo significativo né gli Stati Uniti né la Russia». Tuttavia per il docente di Relazioni internazionali dell’Università Renmin (vicina al partito), «finché la Russia manterrà la sua posizione (negoziale) attuale, Trump non sarà in grado di attuare una politica di pacificazione nei confronti di Mosca. Al momento, data la politica estera russa, un riavvicinamento sostanziale e duraturo è impossibile. Ecco perché la Cina non sembra eccessivamente preoccupata».

In definitiva la leadership cinese – che ha contatti diretti e continui con Putin, il suo entourage e il suo partito – ritiene che nel medio periodo a prevalere saranno gli interessi contraddittori di Russia, Stati Uniti ed Unione Europea e che dunque dal summit di Anchorage non potrà venir fuori alcun cambiamento sostanziale nella questione ucraina né nelle relazioni Russia-Stati Uniti.

E così, dopo il faccia a faccia con Trump in Alaska, l’ex funzionario dei servizi segreti di quell’Unione Sovietica che tanto ha influenzato la Repubblica popolare cinese e il suo partito comunista riapparirà altre due volte accanto a Xi (e saranno 49 in 13 anni), in occasione del summit della Shanghai Cooperation Organization a fine mese e per lo spettacolo di potenza di piazza Tiananmen.

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