Mentre a casa nostra il teatrino politico ci conduce allegramente verso il baratro del default economico (siamo prossimi a quota 1900 miliardi di debito pubblico e nel frattempo Berlusconi continua a sparare a zero sulla magistratura, il neonato partito di Fini è già prossimo allo sfascio e nel PD la mezza sega Renzi litiga con la mezza suora Bindi) tutto il mondo osserva con timore il dilagare delle proteste nell'universo islamico.
Quando ne parlai precedentemente, accennai appena al concetto di effetto domino, conscio del fatto che l'unica realtà oggettiva in merito alle proteste in atto, sia la totale imprevedibilità del loro andamento, soprattutto agli occhi di un osservatore occidentale.
Tuttavia, a partire dalle dimissioni di Mubarak dell'11 febbraio scorso, l'estensione delle sommosse a tutto o quasi l'universo islamico è divenuta realtà. Anche a seguito delle migliaia di profughi sbarcati a Lampedusa nei giorni scorsi, nemmeno i telegiornali più schifosamente asserviti che abbiamo in Italia hanno potuto glissare sul fatto che l'intero status quo medio orientale e dell'Africa Mediterranea, cementatosi in 20 anni di dominio statunitense nell'area (a partire dalla prima guerra del Golfo), sia pericolosamente vicino alla disgregazione.
Allo stato attuale dei fatti, la fiamma della rabbia popolare si estende più o meno compatta dal Marocco all'Egitto e da qui ha infettato la penisola arabica, spargendo caos in strutture apparentemente immobili come Bahrein e Kuwait oltre a minacciare gli assetti, spesso già precari, di Siria, Giordania, Arabia Saudita, Oman, Yemen e Sudan.
Per farla breve, una porzione territoriale grande all'incirca il doppio dell'Europa è messa in subbuglio da popolazioni esasperate da decenni di sussistenza all'interno della fascia dei cosiddetti paesi del 3 mondo ma non troppo, ovvero quelle nazioni che sono riuscite a salire mezzo gradino in più rispetto all'Africa nera (piagata da AIDS, fame, mancanza d'acqua e regimi di dittatori-macellai), ma che sono state bloccate nel proprio cammino di crescita dalle potenze occidentali, troppo interessate a garantire il proprio tornaconto in un'area talmente strategica da rendere giustificabile l'appoggio a regimi dittatoriali d'ogni risma. La contraddizione insita in noi esportatori di democrazia, è venuta a galla per la prima volta durante la rivoluzione egiziana, che ha visto un occidente imbarazzato di fronte alla scelta di sostenere il fidato Mubarak, che in 30 anni non ha mai tradito le aspettative israeliane e statunitensi, oppure appoggiare la popolazione indigena che si aspettava ben altra reazione dal mondo democratico e in particolare da quel presidente d'oltre oceano che sulla pretesa di cambiamento ha fatto campagna elettorale e vinto le elezioni.
Archiviata la vittoria della piazza sul faraone, sono convinto che buona parte dei gabinetti politici del nostro emisfero confidasse in una regolarizzazione della stabilità regionale, che tuttavia è stata disattesa in meno di una settimana a seguito della destabilizzazione in Libia. Le proteste esplose in seno al regime di Gheddafi, assumono importanza cruciale per gli esiti di tutta la campagna rivoluzionaria perché caratterizzati da una recrudescenza nella violenza di regime che sino ad ora non si era registrata in alcuno dei paesi soggetti ai moti popolari. Il contesto libico è infatti diametralmente differente da quello tunisino ed egiziano, perché Gheddafi non ha mai fatto mistero di reggere il proprio potere sulle fucilate elargite a piene mani dall'esercito a qualsiasi tipo di manifestante, è quindi improbabile pensare che la Libia diventi specchio delle vicende tunisine ed egiziane. Tuttavia, la resistenza dell'opposizione di piazza ai fucili, sarà il metro con cui si dovrà (o quanto meno dovrebbe -ndr) misurarsi la politica estera occidentale ed italiana in particolare nel prossimo futuro. Il nostro paese, infatti, si trova in queste ore nel medesimo imbarazzo che ha investito la Casa Bianca durante i fatti egiziani essendo uno dei principali partner economici (attraverso l'ENI) e politici (la passione che Berlusconi ha per Gheddafi è seconda solo a quella per Putin) spesso sembrano una coppia d'amanti) dello stato africano, e il fatto che la Farnesia sia trincerata dietro il mutismo in merito ai fatti di Libia, mi conduce a pensare che nei prossimi giorni assisteremo all'ennesima figuraccia di Maroni, che prima denuncia il mancato supporto europeo all'Italia nella gestione dei flussi migratori dalla Tunisia, venendo poi immediatamente bacchettato da Bruxelles che gli fa presente di non aver mai ricevuto alcuna richiesta d'assistenza da parte della repubblica delle banane.
Nel frattempo i fucili libici mietono manifestanti anche a difesa dell'interesse nazionale italiano.
La cosa più sconcertante, a mio avviso, è il silenzio dell'Italia (e non solo), i discorsi di Frattini sono semplicemte imbarazzanti. In questi casi bisogna assumere una posizione netta e condannare questi crimini contro l'umanità.
RispondiEliminaPurtroppo quando al governo c'è gente incompetente ogni cosa è possibile.
Occhio a non scambiare la connivenza con l'incompetenza. Il silenzio assenso italiano è direttamente proporzionale agli interessi italiani in Libia e viceversa.
RispondiEliminaNon lo metto in dubbio, ma se uno fosse competente o almeno furbo ad un certo punto dovrebbe accorgersi che è il momento di abbandonare questi interessi, almeno con lui. Mi sembra abbastanza scontato che il regime di Gheddafi stia volgendo al termine, quindi dovrebbero preoccuparsi del dopo...
RispondiEliminaIl tuo punto di vista prescinde dalla dimensione degli interessi in gioco, che sono il cardine non solo dell'imbarazzo italiano nei confronti di Gheddafi ma in generale di tutta l'Europa e degli USA nei confronti dell'esplosione delle rivolte popolari degli ultimi mesi.
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