“Il processo è stato positivo finora, ma la fase successiva è la più rischiosa”. Sono queste le parole utilizzate dal Presidente del Parlamento turco Kurtulmuş a commento del colloquio avuto dalla delegazione parlamentare ufficiale con Ocalan a Imrali. “Bisogna accertare che l’organizzazione [PKK] abbia deposto le armi e abbandonato le sue attività organizzative. Bisogna anche accertarsi che si integri con la nuova amministrazione in Siria”.
In sede parlamentare non è stato letto per intero il verbale del colloquio, ma solo un breve riassunto dal quale si evince che sulla Turchia Ocalan non chiede nessuna regione autonoma o decentramento amministrativo, così come sulla Siria, rispetto alla quale si è dichiarato favorevole all’integrazione delle Forze Democratiche Siriane (FDS) nella struttura centrale, mantenendo una propria polizia nell’area nord-est, ma non proprie forze armate. Inoltre, il leader curdo si sarebbe espresso contro le manovre israeliane nel paese e nella regione.
Sulle FDS, però, la partecipante curda della delegazione parlamentare Kilic Kocyigit ha affermato che il riassunto letto in Parlamento è incompleto e non riflette per intero i contenuto del colloquio: Ocalan avrebbe puntualizzato che l’integrazione delle FDS nelle strutture centrali siriane potrebbe avvenire solo nell’ambito di un’effettiva democratizzazione del paese e si sarebbe riservato di intervenire di nuovo sul tema se le condizioni lo permetteranno.
Effettivamente c’è da credere che se davvero il leader curdo avesse avallato lo scioglimento tout court delle forze armate delle SDF, gli sarebbe stato consentito di esprimersi apertamente. Invece i media filogovernativi hanno fatto passare molto sottotraccia il colloquio e lo stesso Erdogan mostra un atteggiamento distaccato rispetto al processo di pace: secondo alcuni sondaggi, infatti, la fiducia che esso vada in porto è bassa, mentre la mobilitazione popolare affinché questo avvenga è praticamente inesistente.
Da parte loro, i dirigenti del PKK stanno inasprendo la retorica ed hanno fatto sapere che non intendono effettuare alcun ulteriore passo unilaterale finché lo stato turco non avrà messo in atto le misure legali promesse e non avrà liberato Ocalan. Intanto nei video continuano a mostrarsi in armi, segnalando che il processo di disarmo non è completato.
La co-presidente dell’Unione delle Comunità Curde (KCK) Bese Hozat ha, inoltre, rifiutato la parola “amnistia” per qualificare le loro richieste di provvedimenti legali allo stato turco: “Non chiediamo l’amnistia. Non abbiamo commesso alcun crimine... chiediamo leggi per la libertà di tutti. Dai dirigenti al più giovane combattente, tutti contribuiranno al lavoro di costruzione democratica in Turchia e in Kurdistan”.
Quest’ultima dichiarazione è stata interpretata in Turchia come un tentativo di sabotare il processo di pace, provocando la risposta di Bahceli: “Nessuno ha il diritto di sprecare questa opportunità. Qualsiasi opposizione all’iniziativa può essere interpretata come una resistenza alla nazione e allo Stato. Siamo sulla soglia di un’opportunità storica”.
Non tutti i segnali sono negativi, però. Qualche parlamentare del partito di Erdogan comincia a parlare apertamente di percorsi di reintegrazione sociale e possibilità di partecipazione politica per i guerriglieri che depongano le armi dopo lo scioglimento definitivo e comprovato dell’organizzazione.
Mentre sono in atto questi processi molto delicati, sono piombate sul dibattito le dichiarazioni quantomeno superficiali dell’inviato USA per il Medio-Oriente, Tom Barrack, che rispondendo sulla possibile istituzione di un sistema decentrato in Siria ha rimarcato che il decentramento non ha mai funzionato, facendo poi esempi diversissimi fra di loro, come i Balcani, la Libia, l’Iraq e il Libano.
Ovviamente in queste ore tutti coloro che sono stati toccati da queste affermazioni stanno reagendo, ma soprattutto sono motivo di preoccupazione per le SDF, in vista di un possibile ritiro USA dalla Siria ed un riallineamento di Washington con la Turchia.
Preoccupazioni che, del resto, vengono da qualche tempo espresse apertamente dalla dirigenza delle SDF, anche in forme molto contestabili. Il capo militare Mazloum Abdi, ad esempio, si è fatto intervistare dalla ultras sionista Quanta Ahmed per il Jerusalem Post; l’accettazione di una simile interlocuzione sta evidentemente a segnalare che le SDF intendono far pesare la possibilità di affidarsi all’appoggio israeliano, magari in sostituzione di quello americano, nel caso in cui le trattative con la Turchia dovessero andare male ed il conflitto armato riaccendersi. Si tratterebbe proprio di una delle manovre sioniste contro le quali si è espresso Ocalan.
“Da quando il presidente Trump ha ridotto o eliminato l’USAID, abbiamo molta meno manodopera e supporto umanitario per gestire il campo degli sfollati dell’ISIS, Al-Hol, – ha lamentato Abdi – Ci sono meno aiuti e meno personale di sicurezza”.
In altri passaggi sembra chiedere un’attività di lobbying al Congresso: “Abbiamo il CENTCOM e l’ammiraglio Brad Cooper, che ci sostiene molto, ma l’esercito americano ha bisogno di maggiore sostegno politico al Congresso. Il sostegno politico del Congresso è estremamente importante... Abbiamo bisogno di una discussione più ampia sulla rimozione delle sanzioni del Caesar Act. Il sostegno degli Stati Uniti per Ahmed al-Sharaa non deve essere incondizionato. Al momento, non ci sono condizioni”.
Si propone, poi, di collaborare contro la presenza iraniana: “Sebbene l’Iran sia ora più debole, sta ancora cercando di ricostruire gruppi a suo supporto. Le SDF sono pronte a collaborare con gli Stati Uniti e altre potenze attive per proteggere la Siria. Sappiamo che alcuni ex ufficiali del regime si trovano all’estero e sono già stati contattati, probabilmente nel tentativo di creare gruppi di supporto”.
Come si vede, la situazione è potenzialmente esplosiva. Vi sono indubbiamente degli elementi che segnalano la possibilità di un accordo generale che riguardi sia il PKK che le SDF. Tuttavia, è evidente che se la situazione non dovesse andare in tale direzione, la conflittualità armata potrebbe riesplodere in maniera aspra dentro e fuori la Turchia, proprio come accadde 10 anni fa, dopo il fallimento del precedente processo di pace. La situazione di stallo che va avanti dalla caduta del regime baathista non può durare in eterno.
È proprio nella direzione della creazione di condizioni di instabilità e conflitti etnici che vanno le manovre israeliane, tendenti a strumentalizzare le minoranze per frazionare gli stati dell’area mediorientale.
Da parte sua, la Turchia sta sperimentando come l’installazione a Damasco di Al-Jolani abbia rafforzato, anziché indebolito, l’autonomia curda nel nord-est e conta sul fatto che l’Amministrazione USA opti per il ritiro dalla Siria, magari in cambio del proprio impegno sulla seconda fase del cosiddetto “pano di pace” di Gaza.
Certo non saranno USA ed Israele a risolvere la questione curda.
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