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09/12/2025

La UE alla prova dei mercati semi-chiusi

Le contraddizioni strutturali dell’Unione Europea – nel brusco passaggio dal rappresentare la sponda orientale dall’alleanza subordinata ali Usa con aspirazioni imperialiste autonome a insieme “involontariamente indipendente” perché ormai al limite del core business statunitense – stanno venendo fuori piano piano.

La Commissione Europea (di fatto il “governo” della UE) deve questa settimana esplicitare concretamente cosa significhi la parola d’ordine “Comprate europeo”, includendola nell’Industrial Accelerator Act (Atto per l’Acceleratore Industriale), immaginato per garantire che miliardi di euro in contratti di appalto fluiscano verso produttori dell’UE in settori che vanno dalle turbine eoliche ai sistemi informatici.

Un’indicazione che contraddice apertamente la “legge scolpita nella pietra” secondo cui il mercato e solo il mercato deve ormai regolare le scelte dei soggetti pubblici (quelli privati lo hanno fatto così bene da aver compromesso la continuità industriale di molti produttori continentali).

Il problema è che questa “legge”, immaginata come faro e giudice delle scelte politiche nazionali quando la “globalizzazione” sembrava trionfante ed il mercato mondiale appariva muoversi quasi senza ostacoli, è difficile da rispettare nel nuovo quadro internazionale. Anzi, è impossibile.

Le guerre e le sanzioni (19 “pacchetti” decisi dalla UE solo verso la Russia) si vanno moltiplicando, così come gli ostacoli posti ai commerci in base agli schieramenti internazionali o alle esigenze di proteggere le aziende continentali. Ergo nessun paese dell’Unione dovrebbe più regolarsi indipendentemente dall’insieme, comprando e vendendo merci in base ai princìpi del libero mercato, ma dare almeno una preferenza a quelle prodotte nel Vecchio Continente.

Lo scenario è presto abbozzato. Con la Russia c’è guerra – anche se non dichiarata e lasciando che a combattere siano gli ucraini, finché ce la fanno – con la Cina i rapporti vanno raffreddati perché “troppo cresciuta” e con quantitativi straripanti di ormai ottime merci a prezzi molto concorrenziali. Con gli alleati di questi due colossi bisogna fare altrettanto.

Il distacco quanto meno di “attenzione prioritaria” da parte degli Usa restringe drasticamente i mercati da privilegiare, sia per l’import che per l’export. Il che non è soltanto una contraddizione col principio del “libero mercato” che sottostà ai trattati istitutivi dell’Unione, ma una mannaia che cade in modo differenziato sui diversi paesi membri della UE.

Chi ha ancora una struttura industriale competitiva può sognare un periodo di “semi-chiusura” dei mercati in cui difendere e rilanciare la propria base industriale, controllando i prezzi e “pesando” negli scambi internazionali.

Chi non ce l’ha si ritrova a dover eventualmente comprare a prezzo molto più alto le materie prime da trasformare (a cominciare dal gas, visto che il gnl Usa costa il quadruplo di quello russo) e si vede restringere di molto i mercati di sbocco per la propria produzione. La via certa per il dissesto, insomma... 

L’unità europea, insomma, entra in una fase oggettivamente – ossia economicamente – rischiosa perché gli interessi vanno altrettanto oggettivamente divaricandosi.

Nove paesi – Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Malta, Portogallo, Slovacchia e Svezia – sono già sul piede di guerra per la preoccupazione che l’UE finisca per danneggiare se stessa se sigillerà alcuni settori dell’economia dal resto del mondo. Naturalmente parlano soprattutto di se stessi dentro l’unione... 

Protezionismo e libero mercato tornano dunque a contrapporsi proprio nel luogo – la UE – che sembrava aver risolto il conflitto congelandolo in istituzioni, trattati, regole, autorità, prescrizioni.

Secondo i paesi con maggior peso industriale – Francia e Germania in primo luogo – si dovrebbe perciò concedere un trattamento preferenziale ai propri campioni industriali e tecnologici nell’assegnazione di appalti importanti, come per le reti di trasporto pubblico e altre infrastrutture strategiche.

I paesi più piccoli, con alla testa i nove già nominati, privi di gruppi industriali di livello mondiale, sostengono invece che le loro economie possono rimanere competitive solo se libere di scegliere i prodotti migliori al prezzo migliore, anche se ciò significa acquistare da cinesi o coreani.

Si contrappongono dunque direttamente le ragioni della “potenza in guerra” (anche se la UE finge di non esserlo) e quelle del “libero mercato” visto come occasione per crescere ed emergere (anche se magari è più probabile l’affondamento...).

L’Industrial Accelerator Act è un primo banco di prova per il concetto di “comprare europeo”, inserito in un’iniziativa concepita originariamente per accelerare gli investimenti in progetti di decarbonizzazione come parte del Clean Industrial Deal di von der Leyen.

Durante il processo di stesura – visto che le condizioni internazionali erano drasticamente cambiate – lo “zar” della politica industriale, il Vicepresidente esecutivo della Commissione, il francese Stéphane Séjourné, ha però fatto confluire il concetto di “Comprate Europeo” nella proposta, insieme a un controllo più stringente sugli investimenti esteri.

Inevitabile la risposta: “L’adozione di regole sproporzionate sulla ‘preferenza europea’ come standard nelle nostre politiche potrebbe rischiare... un approfondimento della sfiducia nel sistema commerciale multilaterale e nell’UE come partner affidabile e prevedibile”, sentenzia il documento ceco firmato dagli altri otto paesi “in rivolta”.

Analoghe preoccupazioni sono arrivate pure dal Giappone, che chiede un’esenzione per i “partner più antichi”.

Ma anche grandi gruppi industriali – non tedeschi o francesi, guarda caso – si stanno interrogando. Peter Kofler, presidente della Danish Entrepreneurs (la “confindustria danese”) ha messo in guardia contro “mura protettive che ci isolano dalla realtà globale. Imporre una ‘Preferenza Europea’ prima che le nostre soluzioni siano di livello mondiale ci intrappolerà in un’economia di seconda fascia”.

Anche perché una volta rotto il tabù della prevalenza del mercato, è lecito immaginare future mosse nello stesso senso, chiudendo ancora di più il mercato europeo rispetto a soggetti che possono diventare geostrategicamente “pericolosi”.

Altri grandi gruppi industriali, nonché la Polonia, pur dando una disponibilità ad assecondare la scelta della Commissione, si preoccupano di indicare la necessità di “moderazione” e “accortezza” nel chiudere porte e quindi i mercati.

Tra i princìpi dichiarati e la realtà il varco è ormai aperto. La dimensione che assumerà sarà in qualche modo decisiva per orientare le scelte dei vari paesi, ossia dei molto diversi sistemi industriali (e relativi equilibri sociali) all’interno dell’Unione Europea.

E questo ancor prima che si chiuda la guerra in Ucraina, con soluzioni che in ogni caso costituiranno un colpo serio per le ambizioni imperialistiche fin qui coltivate.

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