Si chiama Abdel Hakim Belhaj. È il nuovo governatore militare di Tripoli, ed è un islamico radicale, un jihadista. Lui stesso racconta di aver incontrato Bin Laden per l'ultima volta nel 2000 e che lo sceicco del terrore gli offrì di combattere insieme ad Al Qaeda contro gli americani e gli israeliani. Lui rifiutò, ma sono in tanti a nutrire dubbi e sospetti sul suo passato pieno di ombre.
Chi lo ha incontrato recentemente a Tripoli, come l'inviato Bernardo Valli di La Repubblica, racconta che il 45enne Belhaj porta la folta barba nera dei fondamentalisti islamici ma il suo viso giovanile e i suoi modi esprimono candore e dolcezza, in netto contrasto con la fama di duro guerrigliero.
Alla fine degli anni '80 ha combattuto in Afghanistan, alleato di Bin Laden, ma con la cacciata dei sovietici i rapporti con lo sceicco del terrore si sarebbero interrotti. Non ne sono stati convinti gli americani che lo arrestavano nel 2004 in Malesia trattenendolo in un carcere speciale di Bangkok dove sarebbe stato torturato da agenti della Cia prima di essere riconsegnato alla Libia. Ma in questa ricostruzione ci si perde. Secondo altre fonti, infatti, Belhaj avrebbe guidato il Gruppo libico di lotta islamica, uno dei più oltranzisti nella opposizione contro Gheddafi, ma anche profondamente infiltrato dalla stessa Cia. È possibile che gli americani abbiano tradito Belhaj perché in quel frangente lo scenario internazionale stava mutando e il raìs libico, da "cane rabbioso" tornava ad essere un interlocutore fondamentale per tutte le cancellerie occidentali, Washington per prima.
In Libia Belhaj è incarcerato in cella di isolamento per sei anni, una gattabuia senza un filo di luce, ed è già un miracolo che non sia stato giustiziato subito per aver partecipato a tre attentati contro Gheddafi.
Alla fine viene salvato grazie al programma "pentimento degli eretici" voluto da Saif al-Islam, il figlio del Colonello e suo erede politico, così il comandante fondamentalista rinnega formalmente la sua fede jihadista e fa abiura dei suoi principi teologici. Esce di carcere. Ma non passa un anno che si trova sulle montagne occidentali libiche ad organizzare la guerriglia e ad imporsi come comandante grazie alla sua esperienza afgana e il suo carisma. Come nella guerra per Kabul, Belhaj e i suoi uomini usano i rifornimenti e i materiali militari della Cia e delle altre intelligence occidentali. Un ritorno a casa?
Non è chiaro chi l'abbia nominato governatore militare di Tripoli. Si dice per acclamazione diretta delle stesse truppe sul campo, dopo che i suoi uomini avevano conquistato Piazza verde e successivamente il bunker di Bab al Azizya. Ma di nuovo ci si perde nella ricostruzione. Ad esempio uno dei comandanti ribelli della "brigata Tripoli", che ha occupato la capitale, parla senza peli sulla lingua: "Quelli che comandano ora, noi non li vogliamo. Punto. O si cambia o si finisce male. Belhaj non ha combattuto per occupare Tripoli, e non ci piacciono le sue frequentazioni del passato. O se ne va o lo mandiamo via. [... Lo pensa] il novanta per cento delle nostre brigate, una decina di migliaia di uomini. Pensiamo che il Cnt [Consiglio nazionale di transizione] ci debba ascoltare, ma se non lo fa, abbiamo le armi per farci ascoltare. Noi abbiamo liberato Tripoli, possiamo liberarla nuovamente".
La presenza di Belhaj quale capo militare del Cnt a Tripoli crea non pochi imbarazzi anche a Bengasi, ma è certo che l'uomo si trovasse al fianco del presidente del Consiglio dei ribelli, Mustafà Abdel Jalil, sia nella riunione di Parigi durante l'incontro con Sarkozy, sia a Doha, nel Qatar, durante la riunione della Nato, presentato in qualità di "mano armata della rivoluzione".
Non si può dimenticare che pochi giorni prima del putsch contro Tripoli, il comandante militare delle milizie ribelli, il generale Abdel Fattah Yunes, era stato assassinato proprio per mano delle fazioni islamiche. La fine di Yunes, la repentina ascesa di Belhaj, la caduta di Tripoli, difficilmente possono non essere messe in relazione.
Ora la capitale risulta divisa in settori, ognuno dei quali controllato da una diversa milizia e che risponde a proprie logiche e assetti di potere. "La brigata Zitan ha preso il controllo dell'aeroporto, quelli di Misurata stanno piantati a guardia della banca centrale e del porto, le brigate Tripoli tengono il centro della città, mentre i berberi delle montagne, quelli della brigata Yafran, sono al comando degli altri quartieri del centro. Chi ricorda i venti anni della guerra del Libano non può non ricordare che tutto cominciò con la divisione dei quartieri tra sciiti, sunniti, cristiano-maroniti, nasseriani, e drusi", scrive Mimmo Càndito su La Stampa. E senza contare i lealisti che, sicuramente ancora presenti in forze, si celano nell'ombra forse in attesa di una occasione propizia. Il "tragico puzzo di Libano che infesta l'aria" di Tripoli fa temere che la guerra non sia ancora finita, e un'altra ancor più drammatica stia covando sotto le ceneri della capitale liberata.
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