Com'era prevedibile, il decennale è stato ricordato con notevole fragore mediatico (il povero Allende, invece, continua a non filarselo nessuno). Tuttavia, a distanza di 10 anni, ho l'impressione che buona parte degli strepiti alla Oriana Fallaci inneggianti lo scontro di culture siano andati ampiamente stemperandosi.
Il merito, ovviamente, non sì ascrive al ripensamento degli avvenimenti che hanno condotto a quel disastro (nel cui merito, per fortuna, sì è imposto un notevole scetticismo circa la versione ufficiale dei fatti) ma al cocktail di guerra perenne al terrore con annesse spese militari faraoniche, che hanno in buona sostanza pigiato l'acceleratore sull'autodistruzione di quel capitalismo che un decennio prima sì pavoneggiava per essere rimasto intonso rispetto allo sgretolarsi del "sogno"comunista.
La morale di questi 10 anni sta quindi in una bella facciata presa dalla "civiltà" occidentale e probabilmente nella fine di una determinata concezione del mondo e dell'esistenza su questo Pianeta, che seppur embrionalmente inizia a manifestarsi ed è comunque palpabile ad ogni angolo di strada sotto forma di pessimismo e fastidio nei confronti di un decennio che ha smontano tutte le disillusioni maturate nel secondo dopoguerra.
Prima di iniziare il calcolo dei costi - in termini economici e di vite umane perse - delle guerre dell'ultimo decennio, l'editorialista del quotidiano britannico the Guardian Jason Burke si sforza di dare un nome alla serie di conflitti a catena scaturiti dall'attacco alle World Trade Center dell'11 settembre del 2001.
Nessuno dei combattenti della battaglia di Waterloo, argomenta Burke, era consapevole che Waterloo sarebbe stata associata alla fine di Napoleone, né tanto meno i soldati impegnati nella battaglia di Castillon del 1453 potevano immaginare che l'ultimo colpo sferrato agli inglesi avrebbe chiuso la guerra dei Cent'anni e spianato la strada al Rinascimento e all'epoca moderna. Così Burke, scrivendo sul Guardian, propone per i conflitti in corsi, tutti legati tra di essi e responsabili di un nuovo corso mondiale, il nome di "9/11 wars", le guerre dell'11 settembre.
Oltre che sui campi principali di Afghanistan, Pakistan e Iraq, questa guerra si combatte dal Sudan alle Seychelles, dalla Turchia al Tagikistan. Altri scenari preesistenti all'11 settembre, come in Algeria o in Libano, in Arabia Saudita, Yemen o Indonesia hanno preso le connotazioni di quel tipo di guerra, contrapponendo gli ideali occidentali agli inesauribili eserciti di al-Qaeda. Ma chi sta vincendo? Burke non vede un vincitore: al-Qaeda, tutto sommato, non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che si era preposto. Non una rivolta totale dei musulmani contro l'occidente oppressore, né la creazione di nuovi califfati. E, soprattutto, il diverso approccio di Washington nei confronti del mondo islamico non è quello che speravano di ottenere gli uomini di Osama. Ciò non vuol dire che l'occidente abbia vinto, scrive ancora Burke, ma nemmeno che abbia perso. Fin qui il pensiero dell'opinionista e inviato in sud Asia è condivisibile.
Forse i governi occidentali stanno pareggiando questa partita ma, di sicuro, i loro cittadini hanno già perso. "La forza del terrorismo consiste nel creare una paura eccessiva rispetto alle minacce concrete", afferma Burke; ma a voler guardare bene chi ha veramente guadagnato, sfruttando la situazione, sono i palazzi del potere e la grande industria della guerra e della sicurezza. Hanno avuto gioco facile per stringere la morsa: ben volentieri abbiamo accettato che il bisogno della "sicurezza" prevalesse sulla nostra libertà e sul diritto alla riservatezza, ridotti, entrambe, ai minimi termini. Abbiamo perso anche dal punto di vista economico: la spesa militare, in costante crescita, non conosce battute d'arresto sottraendo risorse vitali ai meccanismi sociali del welfare. Si può pensare di tagliare sulle pensioni, sui sussidi, si può mortificare la sanità, l'istruzione, il mondo del lavoro. È assolutamente vietato, però, togliere un solo centesimo dai budget per guerre e armamenti, entrambi essenziali "per tenere lontano dalle nostre case e dalle nostre città i terroristi", come ama ripetere il ministro La Russa. Eccolo, un esempio eclatante di come "la forza del terrorismo" che consiste "nel creare una paura eccessiva rispetto alle minacce concrete", possa essere utilizzata da chi ci governa per portare avanti politiche spregiudicate a vantaggio di ristrette lobby d'affaristi e speculatori. (Per saperne di più si clicchi qui: 1, 2, 3)
A pagare il prezzo più alto, e su questo non si può non essere d'accordo con Burke, sono state le vittime e i famigliari delle vittime di questa guerra che dura da dieci anni. Le circa tremila vittime dell'attentato alle Torri gemelle, i 190 morti di Madrid (11 marzo 2004), i 52 di Londra (7 luglio 2005); le vittime di Falluja (senza contare gli effetti ancora devastanti per l'utilizzo di fosforo bianco e bombe all'uranio impoverito); dei 24 uomini, donne e bambini vittime della rappresaglia di Harditha per la morte di un sergente statunitense; degli oltre 14 mila civili afgani vittime di "bombe intelligenti", "effetti collaterali", droni imprecisi, ordigni rudimentali; le vittime dei grilletti facili dei contractors privati a Baghdad; i 9 mila morti in Pakistan, i 6.700 soldati della coalizione, i 12 mila poliziotti iracheni, i 3.000 soldati afgani, i 60 mila ribelli (Iraq, Afghanistan e Pakistan), i 1500 contractors privati. La lista stilata dal Guardian è, per stessa ammissione di Burke, ovviamente incompleta e con cifre sicuramente al ribasso di quelle reali. Non possiamo dimenticare, anche se vive, le vittime degli abusi di Bagram, di Abu Ghraib, di Guantanamo. E infine vanno aggiunte altre due vittime di questa guerra globale permanete: la dignità e la solidarietà umana.
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